Niente più guerre mondiali ma non è merito …

Niente più guerre mondiali ma non è merito dell’irenismo (né dell’unione europea)

E le cause che le avevano provocate non sono certo state rimosse

Niente più guerre mondiali ma non è merito dell’irenismo 

E le cause che le avevano provocate non sono certo state rimosse 

 Ricorre quest’anno il centenario della fine della Grande Guerra e proprio in questi giorni si celebra un po’ in sordina la vittoria italiana sugli imperi centrali. Come cultore di storia mi sento di condividere il giudizio di Benedetto XV: si trattò di un’”inutile strage” di cui il popolo italiano non capiva il senso né gli obbiettivi. Un senso lo trovò sui campi di battaglia dove i giovani italiani non solo dettero prova di grande valore e abnegazione ma realizzarono l’auspicio di Massimo D’Azeglio scoprendosi figli della stessa patria. I compagni, che più di una cosa alla volta non riescono a elaborare, non capiscono che si può essere ostili alla guerra ma una volta che si è in guerra tutte le riserve devono cedere il posto all’amore per la patria e alla gratitudine per i combattenti dei quali si deve essere orgogliosi. E, reciprocamente, non capiscono che ci si possa appassionare di strategia militare, entrare nel merito delle operazioni e delle decisioni dei comandi, coltivare la memoria degli eroi nazionali, provare disgusto per chi ha soppresso la festività del 4 novembre ma ha lasciato la festa di ognissanti come se si fosse in uno Stato confessionale; non capiscono come tutto questo sia compatibile con un giudizio senza appello sulla guerra e chi l’ha scatenata: un crimine contro l’umanità, che a distanza di poco più di venti anni ne produsse uno anche peggiore, dal quale però, paradossalmente, è seguito che la seconda guerra mondiale sarà anche l’ultima.


L’episodio più infame nella storia dell’umanità sono le bombe su Hiroshima e Nagasaki. Non è sicuramente l’unico, né il primo né, purtroppo, sarà l’ultimo caso di “crimine contro l’umanità”. Ma quello va ben oltre, per essenza non  per l’atrocità o per il numero delle vittime, la casistica dei delitti contro l’umanità.  Non solo perché frutto di una decisione presa a freddo e non di un susseguirsi di eventi sfuggiti alla volontà e alle intenzioni di singoli individui, non solo perché goffamente giustificato dalla necessità di far terminare la guerra con una settimana di anticipo, non solo perché si trattò di un criminale avvertimento all’alleato russo  sulla pelle di centinaia di migliaia di inermi cittadini nipponici ma perché per la prima volta l’uomo si trovava a disporre  di una cosa che andava oltre la sua capacità di controllarla. Il governo americano, Truman, i suoi consiglieri, il pentagono, sapevano bene di trovarsi nella parte dell’apprenti sorcier, sapevano bene di avere nelle loro mani non il destino di una guerra ma il destino del pianeta e non hanno esitato. Niente e nessuno potrà perdonarli per questo.


Eppure proprio l’infamia di Hiroshima e Nagasaki ha segnato una svolta irreversibile nei rapporti fra gli Stati: se fino ad allora la guerra, come è stato detto da Von Clausewitz, era stata “la continuazione della politica con altri mezzi”, da allora in poi la politica dovrà accontentarsi delle armi della diplomazia e delle minacce di ritorsione economica.  Ci sono state tensioni terribili fra Stati Uniti e Unione sovietica, per anni si sono fronteggiati la Nato e il patto di Varsavia, persistono interessi contrastanti fra grandi potenze, compresa la Cina, che in altri tempi si sarebbero risolti con le armi. Ora non più. Le tensioni si scaricano nelle periferie, ne hanno fatto le spese di volta in volta la Corea, il Vietnam, i paesi arabi del medio oriente, l’Irak e più recentemente la Libia e la Siria. Guerre periferiche che le grandi potenze hanno combattuto e combattono per interposta persona, ma non più fra di loro. Sorprende sentir dire da persone ritenute autorevoli o investite di un’altissima carica istituzionale che grazie all’Unione Europea stiamo godendo di un settantennio di pace. La pace ce l’hanno garantita la geopolitica e la bomba atomica, non certo i trattati europei. 

Da quando a Parigi ci si preparava allo scontro armato con la Germania e Hitler rifletteva se fosse più conveniente per il Reich fare la guerra contro la Francia, contro il Regno unito o contro la Russia pare passata un’eternità.  Mussolini stesso poteva mettere in conto un’alleanza con la Francia contro la Germania per difendere l’Alto Adige dalle mire della Grosse Deutschland o un’alleanza con la Germania per riprendersi Nizza e la Corsica. Ora i rapporti con la Francia non sono buoni, anzi sono pessimi, ma chi pensasse di risolverli con la forza sarebbe fuori di testa. Il fatto è che tutte le grandi e medie potenze, siano o no detentrici di arsenali nucleari, sono in grado, Israele, Germania e Italia comprese, di dotarsi in mezz’ora dell’arma atomica e di vettori capaci di sganciarla in qualunque parte del globo.  Nessuno ormai fa paura a nessun altro perché tutti devono aver paura di tutti. 


 Una ben triste conclusione, una versione apocalittica del si vis pacem para bellum. A che prezzo i Paesi evoluti, gli esportatori di civiltà, benessere e democrazia si sono garantiti la pace! Nella finzione cinematografica e fantascientifica questa garanzia non è stata sufficiente: dal dottor Stranamore a The day after ci si è sbizzarriti a immaginare il dopo l’apocalisse. Ma non ci può essere un altro Truman che preme il fatidico pulsante semplicemente perché si tratterebbe di un boomerangdopodiché non ci sarebbero né vincitori né vinti. Le guerre, infatti, si fanno in vista di un vantaggio per sé non per la rovina dell’altro. 

A questo punto c’è da chiedersi a che servono le spese militari. Intanto va chiarito che la pace fra gli Stati non mette al riparo da pericoli che esigono risposte militari, come il terrorismo, le pressioni migratorie (invasioni) e le guerre periferiche condotte per interposta persona. Inoltre la forza militare è una sorta di biglietto da visita che dichiara la capacità tecnologica e industriale di un Paese. In terzo luogo gli investimenti militari hanno un effetto trainante sullo sviluppo del Paese, sotto il profilo della ricerca scientifica e del progresso tecnologico. Senza la competizione militare la ricerca spaziale sarebbe rimasta semplice elucubrazione teorica e dall’esplorazione dello spazio si è sviluppato un circolo virtuoso che ha portato alle nanotecnologie, alla creazione di nuovi materiali e alla miniaturizzazione di apparecchiature che hanno cambiato le abitudini di vita delle persone. Non è una novità: va ricordato che l’impulso alla trigonometria venne dall’introduzione delle artiglierie.  La scienza e la tecnica non progrediscono motu proprio: hanno bisogno di investimenti e l’investitore non è mai disinteressato. 


Sarebbe bello se gli americani e gli europei o i russi o  i cinesi fossero spinti dalla curiosità, dalla sete di conoscenza  o dal desiderio di migliorare le condizioni dell’umanità. I satelliti artificiali nascono per spiare, la ricerca di un’energia pulita si ferma per non toccare gli interessi di chi controlla la produzione di petrolio, la corsa all’esplorazione dello spazio dopo lo slancio iniziale procede con i piombi ai piedi perché si è dimostrata priva di significativi ritorni militari ed economici. La competizione economica spinge piuttosto sulla comunicazione, sull’accesso e il controllo della rete, sulla robotica.  

Non ci sono più guerre ma persistono la competizione economica, la corsa al profitto, tutto l’insieme delle cause che portavano alle guerre. Perché Von Clausewitz aveva colto solo una parte della verità: la guerra non è solo lo strumento della politica alternativo alla diplomazia, perché la politica, a sua volta, è influenzata dall’economia e dal potere finanziario. E mentre la politica è, per definizione, nazionale e legata allo Stato, l’economia e la finanza travalicano i confini dello Stato e gli interessi nazionali. L’aggressività della politica era in fondo un fenomeno razionale, e, anche se fa specie dirlo, le guerre volute e guidate dalla politica come furono quelle settecentesche, erano una sorta di partita a scacchi.  L’aggressività dell’economia e della finanza  è, al contrario,   un fenomeno irrazionale: una belva senza freni e senza regole che ha causato conflitti senza freni e senza regole e politicamente “stupidi”.  E se ora non provoca guerre, almeno fra gli Stati del mondo industrializzato, dal momento che non si potrebbe impedire il ricorso all’arma atomica, la stessa belva è però in grado di  produrre instabilità, di annientare il principio della sovranità nazionale, l’identità, la diversità, la cultura, la lingua dei popoli.


Occorre imbrigliare l’economia e la finanza, ridurle sotto il controllo della politica, che, depurata dai conflitti di interesse, torna naturalmente ad essere il luogo della volontà popolare, col suo corollario di cultura, civiltà, lingua, difesa dei confini, rispetto e tutela delle minoranze. Perché se l’economia uniforma e appiattisce, la politica esalta le differenze, mette il confronto e lo scambio al posto dell’assimilazione e spinge all’amore per la diversità, che è una ricchezza, non un male da estirpare. E solo il primato della politica può ricondurre la scienza alla sua dimensione baconiana e illuministica: elevazione spirituale, sintesi fra sapere scientifico e filosofico, liberazione dai lacci che ancora imbrigliano la ragione, condivisione e accessibilità del sapere.

In conclusione, spuntati gli artigli dell’economia e della finanza globali,  messe sotto controllo le ambizioni e la sete di potere di chi usa il denaro per affermarsi, la pace non si reggerà più sulla paura  ma semplicemente sulla mancanza di motivazioni  e l’unica guerra concepibile sarà quella contro il ritorno all’ignoranza di massa, contro il fanatismo religioso, contro i tentativi di sopraffazione;  ma quella, senza i potentati economici che finanziano il terrorismo, aizzano una fazione contro l’altra, usano le minoranze per disgregare gli Stati,  è una guerra vinta in partenza.

Una nota a margine della lapide di Savona: Camicie nere e Brigate nere.


Compagni, avrebbe detto Foscolo, studiate la storia!

Sui fatti del passato ognuno è libero di formarsi una propria opinione; lo fa sulla scorta delle informazioni di cui dispone, del proprio vissuto personale, dei propri interessi, dalla propria personale sensibilità. Punteggiatura e selezione delle informazioni danno luogo a giudizi diversi e qualche volta opposti, tutti legittimi, ci mancherebbe; ci possono essere, e ci sono, tesi precostituite che spostano il focus verso dettagli e li ingigantiscono: fa parte del gioco. Però non si può mentire, non si può modificare il contenuto fattuale. 

Avevo scritto, a proposito dell’episodio riprovevole della lapide di Savona, che i battaglioni Camicie nere si erano costituiti  come forza militare della Milizia volontaria per la difesa nazionale, che erano stati  inquadrati nel regio esercito ma con una propria catena di comando; nel 43, caduto il regime, i fasci sul bavero  delle loro uniformi furono sostituiti  con le stellette e furono in tutto e per tutto assimilati, fino al loro scioglimento avvenuto lo stesso anno, agli altri reparti dell’esercito. Con la RSI (la repubblica mussoliniana), costituitasi al nord il 23 settembre dello stesso anno – preceduta nel rifiuto di riconoscere l’armistizio di Cassibile  dalla X Mas di Borghese che  aveva continuato a combattere a fianco dell’alleato germanico – non ebbero niente a che fare. 

Le Brigate nere sono invece una forza paramilitare creata nel giugno del 44 per la difesa del fronte interno nella Repubblica del nord, formata anch’essa da giovani volontari convinti di combattere per l’onore della Patria (non del terzo Reich). Ma non mi interessano i giudizi, tanto meno i giudizi di valore: personalmente nutro una certa simpatia per chi, quando la guerra era decisa, gli americani avanzavano da sud e la Germania dopo la mazzata di Stalingrado si avviava verso la disfatta, invece di abbandonare la nave che affonda  come fanno i topi, vollero combattere per una causa già persa. Se l’anagrafe me lo avesse consentito ho la presunzione di credere che ne avrei seguito l’esempio. Ma questo attiene al mio privato.

Non riguarda invece il mio privato, le mie personali opinioni, le mie particolarissime idiosincrasie la circostanza che una cosa sono le Camicie nere un’altra le Brigate nere, che in comune hanno solo l’aggettivo “nero”. Questo è un fatto, punto. E fare dei ragazzi che hanno lasciato la pelle in Russia e in Africa dei torturatori di partigiani no, non si può. C’è un limite a tutto.

   Pier Franco Lisorini

 

    Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.