Nazionalismo e patriottismo
NAZIONALISMO E PATRIOTTISMO
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NAZIONALISMO E PATRIOTTISMO
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Scrive il collega Lisorini, nell’articolo “La democrazia riservata ai democratici” in risposta al mio Che cosa è mai la libertà: “Che i giovani africani tirati a lucido con cuffie stereo e smartphone d’ordinanza, gli spacciatori tunisini o la mafia nigeriana siano ‘i più deboli e colpiti dalla sventura’ e come tali meritevoli della nostra cristiana solidarietà mi permetto di dubitare Ma soprattutto mi permetto di rimarcare la distanza anche semantica che c’è fra nazionalismo e patriottismo. E trovo sgradevole che il collega, che in altre circostanze ho avuto modo di apprezzare, parli di ‘sovranismo e ritrovato e anacronistico nazionalismo di massa’ a proposito di chi vuol rivendicare il ruolo e la presenza dell’Italia nel mondo non per Wille zur Macht ma per la difesa degli interessi nazionali, che poi sono quelli dei lavoratori italiani…”. Riguardo alla solidarietà umana, non solo cristiana, verso i più deboli e sventurati, mi sembra superfluo precisare che non mi riferivo ai delinquenti ma a chi è veramente nel bisogno e non credo che il collega livornese, essendo uomo d’intelletto, arrivi a pensare che tutti gli africani emigranti siano dei potenziali delinquenti. E non credo nemmeno che approvi la brutalità dei gendarmi di frontiera francesi verso donne in- cinte, bambini e persone innocue. Riguardo a nazionalismo e patriottismo, posta la questione come la pone il collega, anch’io mi troverei sgradevole (ammesso e non concesso che la sgradevolezza sia una qualità dirimente per distinguere il vero dal falso); cercherò quindi di spiegare meglio perché, a mio modo di vedere – ma confortato dalla storiografia contemporanea – sovranismo e nazionalismo – anche se vengono ancora sbandierate soprattutto da formazioni politiche di destra ed estrema destra – sono parole prive di senso (se non, appunto, propagandistico-retorico), oggi, in un contesto europeo e mondiale dove ormai i cosiddetti “poteri forti” travalicano i vecchi confini politici e geografici e le decisioni che contano vengono prese sopra le teste dei singoli cittadini, italiani, francesi, tedeschi, inglesi, americani o russi che siano. Basti pensare alla politica monetaria della BCE e del FMI, ai vincoli di spesa stabiliti dall’UE; alle leggi del libero mercato globale e ai problemi ecologici che riguardano la sopravvivenza stessa del pianeta Terra; alla ricerca scientifica e tecnologica che non può certo svolgersi solo entro i confini nazionali e che non si basa sulla sovranità popolare di questa o quella nazione; alla estensione mondiale della Rete, indispensabile ormai per qualsiasi ricerca; al potere universale e indiscusso della tecnica e al potenziale distruttivo degli armamenti nucleari; alla necessità di saper scrivere e parlare in inglese per chi voglia salire i gradini della scala sociale, culturale e professionale; al fenomeno delle migrazioni di massa impossibile da governare senza una cooperazione attiva e solidale di tutto l’Occidente; alle nuove frontiere aperte dall’intelligenza artificiale e dall’automazione del lavoro, ecc. per comprendere che ormai, volenti o nolenti, siamo tutti abitanti del villaggio globale di cui parlava Marshall McLuhan. Attenzione: non dico che tutto questo sia buono e giusto, che il mondo ridotto a mercato (come denuncia Serge Latouche) sia il migliore dei mondi possibili, dico che ormai il vecchio nazionalismo otto-novecentesco che “portava in sé i germi dell’imperialismo capitalista, che la nostra generazione ha visto ingigantire, sino agli stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali” (cfr. il Manifesto di Ventotene, 1941-42) ha fatto il suo tempo, non è nemmeno più funzionale all’emancipazione dei popoli (tantomeno alla pace perpetua auspicata da Immanuel Kant e deprecata da Hegel). Ma che cosa dobbiamo intendere, propriamente, con l’idea di nazione (dal lat. natio, cioè “nascita”)? Una famosa risposta a questa domanda è quella che ha dato Ernest Renan nel suo saggio Che cos’è una nazione? del 1882: “L’oblio, e dirò persino l’errore storico, costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione, ed è per questo motivo che il progresso degli studi storici rappresenta spesso un pericolo per le nazionalità. La ricerca storica, infatti, riporta alla luce i fatti di violenza che hanno accompagnato l’origine di tutte le formazioni politiche, anche di quelle le cui conseguenze sono state benefiche: l’unità si realizza sempre in modo brutale, l’unificazione della Francia del Nord e della Francia del Sud è stata il risultato di uno sterminio e di un terrore durato ininterrottamente per quasi un secolo”. Se pensiamo di che lagrime grondi e di che sangue, soprattutto meridionale, anche il nostro glorioso Risorgimento, più che nazionalpopolare, monarchico, o meglio, sabaudo ed elitario, non possiamo che condividere la disincantata ma realistica diagnosi di Renan. Diverso, e qui convengo con il collega, è il patriottismo, in quanto si tratta di un sentimento pre-nazionalistico e pre-politico e anche, per certi aspetti, religioso, che affratella i figli e i discendenti dagli antichi padri e dalle antiche madri comuni, gli appartenenti a una stessa tradizione, parlanti una stessa lingua o uno stesso dialetto, compartecipi di una stessa storia , di una stessa fede e delle stesse memorie (cfr. il coro Va pensiero nel Nabucco di Giuseppe Verdi). Il fatto poi che la parola “patria” faccia riferimento solo al pater non significa che la mater non sia tenuta nella considerazione che le spetta, se addirittura l’oracolo di Apollo nell’isola di Delo, nel terzo libro dell’ Eneide , esorta i Dardanidi (i Troiani) a ricercare l’ antica madre (Antiquam exquirite matrem). A me pare dunque una tempesta in un bicchier d’acqua tutta la gazzarra scatenata dalla proposta – tra l’atro nemmeno nuova – avanzata dalla scrittrice Michela Murgia. di sostituire la parola “patria”, foriera di tanti lutti e sacrifici, con la più inoffensiva (manca però l’onere della prova), materna e politicamente corretta parola “matria”: “Non c’è un’accezione amabile della patria, e se c’è, è forse proprio quella che dovremmo temere di più. La terra dei padri, questo significa patria, è un concetto letterario le cui ambiguità è utile tenere ancora presenti, se non altro perché dimenticarlo ci ha dato lezioni amare per tutto il ‘900”. Io non sarei così drastico, anche perché il vocabolario italiano mette già a disposizione di chi volesse giustamente onorare, insieme ai padri, anche le madri, la parola composta “madrepatria” (sull’esempio del tedesco mutterland ); inoltre il campo semantico di “patria” è più vasto che non quello di “nazione”: insieme alla patria intesa come terra dei padri (ma basterebbe pensare che senza madri non ci sarebbero né padri né figli), c’è la patria come luogo di origine di qualcosa (Savona è la patria del chinotto), come città natale di qualcuno (Firenze è la patria di Dante), come culla di un’idea, di una tradizione, di un costume (la Grecia è la patria della filosofia) e, infine, per chi se la merita, c’è la patria celeste, cioè il paradiso. Anni addietro ci fu una polemica storiografica – il collega lo ricorderà – innescata da un pamphlet di Ernesto Galli Della Loggia intitolato, con un’espressione presa dal De profundis di Salvatore Satta: La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica (Laterza, 1994). Secondo il Della Loggia la crisi dell’idea di nazioine in Italia è cominciata con l’armistizio dell’ 8 settembre del ’43, seguito dal crollo dell’apparato statale e dall’occupazione-invasione del patrio suolo da parte dei tedeschi da un lato e degli angloamericani dall’altro. Nel rispondere alle critiche che gli sono piovute addosso da più parti, ma soprattutto dal mondo accademico, Galli Della Loggia spiega, in un articolo sul Corriere della Sera di quel tempo, che “un conto è il generico sentimento patriottico e un conto la costruzione storico ideologica di patria come operante matrice di valori collettivi, che la disfatta militare non era stata solo la disfatta del regime fascista ma anche di tale idea di patria risalente all’Unità; che la Resistenza, per le sue stesse caratteristiche ideologico-politiche, non aveva potuto fare nulla per rimetterla in piedi: Niente da fare. Sicché, alla fine, mi sono arreso, avendo finalmente capito, peraltro, il vero punto chiave: vale a dire che stracciarsi le vesti contro la sola idea di ‘morte della patria’ e contro il suo uso storiografico serve, in realtà, ad accreditare una versione del passato in vari modi utile nel presente. Utile per esempio ad accreditare retrospettivamente alla sinistra una supposta devozione agli interessi nazionali in realtà all’epoca per molti aspetti più che dubbia, ovvero, per dirne un’altra, serve a cancellare il non cale in cui ieri fu tenuta ogni Resistenza che non fosse quella sotto l’egida dei partiti rispetto, invece, all’esaltazione che si fa oggi della Resistenza dei militari, della Resistenza dei civili, di quella della ‘zona grigia’, insomma di qualunque altra Resistenza. Ma questo uso manipolatorio del passato è uno dei nostri vecchi vizi nazionali dei quali – almeno qui, adesso – non merita di occuparsi più di tanto. In sede di riflessione storica importa molto di più, invece, capire che il dato definitivo dell’espressione ‘morte della patria’ rimanda in realtà a un fenomeno di grande portata storica che coinvolge non solo l’Italia ma l’intera Europa all’indomani della Seconda guerra mondiale. Fino al punto che la ‘morte della patria’ italiana può essere considerata – pur con tutte le ovvie importantissime specificità del caso – quasi come una manifestazione particolare di quel fenomeno generale che, per dirla in poche parole, non è altro che la crisi dello Stato nazionale europeo di tipo ottocentesco e della sua sovranità (corsivo mio)”. La perdita di sovranità nazionale a favore di poteri sovranazionali, tuttavia, non significa di per sé anche la perdita dell’ identità e della memoria, condivisa o divisa che sia, di ogni singola patria, e nemmeno l’azzeramento delle specificità culturali, a cominciare dalla lingua, che contraddistinguono le diverse comunità nazionali. Ad esempio ci sono alcuni tratti che caratterizzano la tradizione filosofica italiana rispetto a quella francese, inglese e tedesca. Ma a questo punto lascio la parola al collega Lisorini, che saprà senz’altro meglio di me indicarli ed esemplificarli. Grazie e …alla prossima.
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