Morte di un vecchio amico e de profundis…

Morte di un vecchio amico
e de profundis della filosofia

 Morte di un vecchio amico
e de profundis della filosofia

 Un tempo, qualche vita fa, avevo come tanti miei coetanei il culto della carta stampata. Impollaccati dentro gessati grigi con cravatta reggimentale e gilet uscivamo dal liceo diretti verso la tappa obbligata, l’edicola, non certo per il giornale locale, ohibò, ma per l’autorevole quotidiano romano o milanese. Poi per anni ho continuato a comprare giornali senza leggerli. Ci provavo ma prevaleva la sensazione di perdere tempo prezioso, e quello che prima era stato motivo di fascino, la materialità della carta, l’odore della stampa, il fruscio, il tatto diventava un ostacolo, un fastidio, una fatica fisica. Con minore sforzo lo schermo del computer mi forniva un quadro sinottico delle notizie, potevo visualizzare la rassegna stampa e cogliere al volo quello che mi pareva importante per poi andarmelo a leggere con calma. Insomma, a farla breve, dopo aver smesso di leggerli i giornali ho smesso anche di comprarli.  


E in uno di quei momenti di intimità nei quali mi capita di smanettare col tablet o con lo smartphone per curiosare su ciò che succede nei paraggi, mi si para davanti la pagina dei necrologi e scorrendola mi imbatto nel circolo culturale di un paesino del pisano che partecipa la scomparsa di Remo Bodei. Ho cliccato sul link e ho avuto la conferma che si trattava proprio del vecchio amico e compagno di studi, perso nel tourbillon de la vie insieme a tanti altri con cui ho condiviso una giovinezza troppo seria per quello che i tempi ci avrebbero riservato. Quando muore un coetaneo mi torna in mente un’immagine angosciosa di Flaiano: ti volti indietro e non c’è più nessuno, non c’è più niente; sei rimasto solo tu e ti assale il dubbio di essere anche tu solo un ricordo, un’ombra, un’illusione.  

Ma non intendo indulgere all’amarcord. Bodei, arrivato a Pisa dalla Sardegna preceduto dalla fama di liceale bravissimo, dimostrò subito di essere il più intelligente normalista del nostro corso; piccolo e esuberante, con uno sguardo vivacissimo e una rapidità di ideazione e di elaborazione sorretta da un’impressionante fluidità e velocità di eloquio, uno di quegli studenti che intimoriscono i loro docenti. E quando divenne chiaro che per rimanere in facoltà o ci si accodava al cattedratico giusto o ci si intruppava nella sinistra comunista o extra parlamentare, lui si impose per forza propria e messi i piedi in Europa e oltre Atlantico non gli toccò di sporcarsi con le miserie dell’accademia nostrana. Alla quale, vinta la cattedra nei licei, per quel che mi riguardava volsi le spalle senza rimpianti.


Remo Bodei

Mi preme piuttosto rilevare quel che ne è stato della filosofia, che già era implicito nella generazione postgentiliana  e che dopo il 68 sarebbe diventato palese. Nel ‘56, l’anno in cui mi immatricolai, insegnava a Pisa Cesare Luporini, che di Gentile era stato allievo anche se dal filosofo – lui sì veramente tale – siciliano non sembrava aver tratto molto.  Teneva un corso sulla Critica della Ragion Pura analizzandone il testo col puntiglio di un filologo e cominciò a farmi nascere il sospetto che ormai la filosofia fosse roba da periti settori intenti a esaminare un cadavere, un sospetto che il giovane Francesco Barone, diventato il dominus della facoltà quando Luporini si trasferì a Firenze, contribuì a rafforzare fino a farlo diventare certezza. In seguito non mi restò che condividere il disgusto dell’altro nostro condiscepolo, Sergio Landucci, che pure lui incarnò una filosofia “filologica” ma lo fece con grande dignità e non resisté a lungo alla compagnia malvagia e scempia dalla quale si trovò circondato dopo l’okkupazione militare dell’università da parte del Pci.

Il peggio, infatti, doveva ancora venire, quando l’approccio filologico si spostò dai grandi, Hegel in testa, ai minori e ai minimi, con una totale perdita di senso e di finalità. Ricordo ancora con imbarazzo l’insipienza di presidenti di commissione di maturità, di concorsi magistrali e di concorsi a cattedre in cui sono stato commissario, con al loro attivo articoli su riviste che nessuno avrebbe mai letto, colpevoli di traduzioni da lingue di cui non conoscevano una parola, esperti di un unico insulso argomento, annaspanti e disorientati sul resto anche quando avevano apposto la firma su manuali prestigiosi (giusto la firma).


Remo Bodei

Bodei no, Bodei era diverso, per quello che ricordo di lui e per quello che mi è parso di capire non tanto dai suoi scritti accademici che mi sono guardato bene da leggere ma da certe suggestioni rivelatrici e soprattutto dalla sua attività di divulgatore. Perché mi piace credere che lui stesso non considerasse la divulgazione come un’operazione di secondo livello ma come il cuore stesso, l’essenza stessa del filosofare, non una concessione al vulgo ma l’unica occasione per riprendere il filo di un discorso che viene da lontano e si rinnova nel presente nella solitudine e nelle inquietudini dell’uomo interiore, nella sua ricerca di senso, nello smarrimento davanti alla prospettiva della morte. Di sicuro non nelle glosse, nei sofismi, nei raffronti, nelle astruserie e a volte nelle farneticazioni dei professori. E mi piace credere che non avesse dimenticato che il filosofo mostra la complessità di ciò che appare semplice e scontato e la semplicità di ciò che pare oscuro e inaccessibile nella sua complessità; spiega, apre lo scrigno della parola, le restituisce la sua purezza, la libera dalle incrostazioni della banalità. Mi piace crederlo, con la consapevolezza che nelle scuole non è o non è più così. La filosofia è morta, come sono morte l’arte, la poesia, la creatività.  Una morte eternante che ci assegna la funzione di custodi che ne impediscono la decomposizione e conservano la capacità di leggere una lingua che rischia di diventare aliena, contro i frankenstein che pretendono di riportarla in vita e mandano in giro zombi che non stimolano il pensiero come la testuggine socratica ma lo mortificano e lo paralizzano.

L’uomo occidentale è schiacciato dal fardello del suo passato. La sola cosa che può fare è deporlo, avvolgerlo con cura, allontanare da lui i predatori e metterlo al riparo dalle intemperie.

   Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione   Novembre 2019 

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