Mia ad ogni costo

“Qualsiasi cosa accada intorno, i bambini non smettono di nascere. In tempo di pace e di guerra, con venti avversi o favorevoli, sulle alture, in collina, al mare, su navi e barconi, in cima ai grattacieli o giù negli scantinati, come quello di Kiev dove è appena venuta al mondo una neonata.”
L’incipit dell’articolo di alcuni giorni fa su un quotidiano è una constatazione, ma ha il sapore di un assenso e di una rivincita.

Il tono della giornalista pare essere simile a quello secondo il quale in occasione di eventi come terremoti, guerre, tsunami, uragani, carestie…dopo aver raccontato la catastrofe, i morti, lo stupro, il sopruso, la tortura, si accorda col mantra per cui “la vita deve continuare”. Chissà perché.
E chissà se, per istinto più che per scelta, ella non ceda, unitamente a tanti suoi colleghi e intellettuali, un po’ alla retorica delle fiabe, quella per cui alla fine, dopo aver superato le sette balze, dopo essere sfuggiti all’orco e al lupo, ed essere sopravvissuti alla mela avvelenata, si vive felici e contenti alla rassicurante presenza dell’acciarino magico.
“La vita deve continuare”. Una frase che non giustificano mai, ma che aleggia spesso per gratificarci del lieto fine.
Intanto resta la sostanziosa parte degli 8 miliardi che siamo nel mondo per la quale le risorse non bastano, sicché si nutre poco, o male, o non si nutre. L’uguale si dica dell’acqua: scarsa, inquinata o prosciugata.

Non dicono dove l’hanno preso questo dovere presentato in maniera così naturale da sembrare categorico tanto da non ammettere contraddittorio.
Lo danno per scontato senza neanche supporre che comporti qualcosa da scontare, senza neanche sognarsi di tracciare un bilancio di costi/benefici sociali ed esistenziali, e soprattutto senza accorgersi che è esso stesso spesso contraddittorio. Infatti come conclude l’articolo?: “A Kiev, in un rifugio, una bambina nasce. Per proteggere i bambini, li teniamo sottoterra: il mondo che a loro dovremmo regalare l’abbiamo fatto così brutto che dobbiamo nasconderglielo”.
Se il mondo è brutto, se è così brutto che al bambino venuto alla luce siamo costretti a negare la luce proteggendolo nel buio del sotterraneo, della cantina, della metro, del rifugio, che senso ha il tono che pare di percepire sostanziato dalla convinzione che però, in fondo, l’essere è il bene, e perciò è bene essere?
Siamo d’accordo, il loro non è un ragionamento, ma un tono, un richiamo primordiale, una prepotenza della speranza. Ma forse che questo li abilita alla benvenuta supponenza di snobbare il dubbio, di silenziare l’angoscia?
Quale ingenuità programmata, e quindi quale massima finzione, ci esonera dalle parole del poeta:
“Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo.
[…]  Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri” ?

O ci fa scrollare le spalle di fronte alla straordinaria sequenza di Kubrick di quando lo scimmione riesce a vedere nel femore che ròtea nell’aria, l’arma con cui spaccare il cranio alla scimmia nemica?
(arma che ancora si trasforma, nel fotogramma successivo, in un’astronave, segno delle magnifiche sorti e progressive, e segno dell’arrivare più in là, tramite la nuova mano dell’uomo, la tecnologia, in un altro pianeta, nuovo campo di battaglia, per la conquista dello spazio sùbito inteso come spazio vitale).
O ci fa sorvolare su quel principio eraclitéo dell’eterna lotta degli opposti sulla quale la vita stessa si reggerebbe?
Forse tutto ciò può sembrare un filosofeggiare.

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Ma che non sia così ce lo dicono i numeri: in questo momento nel mondo sono in corso una ventina di guerre; se si includono anche le rivolte, i colpi di Stato, i conflitti minori e quelli interni nonché le guerre tribali, sono un migliaio.
Svariati i motivi alla base di esse: in Colombia per colmare la disparità sociale; in Somalia per la spartizione del potere tra i “Signori della guerra”; in Congo per diamanti, oro e coltan; in Siria per rovesciare il Governo; in Eritrea-Etiopia per ridisegnare i confini territoriali; in Kurdistan per il riconoscimento dell’ autonomia; in Libia per il controllo delle riserve petrolifere. E avanti…
Non c’è mai stato un anno a memoria d’uomo, e quindi grossomodo a cominciare dalle prime testimonianze di cinquemila anni fa, in cui non si siano combattute guerre. Perchemmai le cose dovrebbero cambiare proprio adesso?
Con quali scuse, visto che non ci sono ragioni, dovremmo mentire e mentirci, e dire a Mia che da domani cambierà, che abbiamo imparato per sempre la lezione, e che lei è nata proprio per questo: per cambiare il mondo? A Mia e a questo suo nome, che non le è stato dato perché è parso eufonico ai genitori, ma perché in ucraino significa Pace, e voleva essere beneaugurale o, con più pretesa, profetico?
In italiano da sostantivo si trasforma per un caso singolare in un aggettivo di possesso. Mia di ognuno, e quindi Mia di tutti: Nostra. Questa Pace ideale che rappresenta, la possiamo sentire come condivisione, o, di più, come comunione. Ma non possiamo farne verità.
La storia non è, non può permettersi di essere fino in fondo maestra.
I suoi insegnamenti, quando ci sono discepoli attenti, al massimo superano precarietà, tamponano situazioni, conquistano agi e comodità. Ma se dovessero guidarci a comprendere il suo messaggio ultimo, più radicale e perciò più vero, si vedrebbe che la garanzia della pace la storia non la può dare, e scommetterci sopra è un andare contro la storia stessa, è negarla, perché essa per sua essenza  vive nella dialettica della contrapposizione.
Di conseguenza è un azzardo cui siamo disposti a causa del nostro naturale egoismo di comunque andare avanti, e credere che le guerre e le catastrofi, le malattie, le tragedie collettive o individuali, saranno di altri e di altri luoghi e, se nostre, di un indeterminato futuro oltre l’orizzonte.
Perché non sappiamo pensare superando il desiderio.
Invece è certo il contrario. Basta uscire dal guscio e guardarci dentro, e uscire dall’uscio e guardarci attorno. Vedremo che non c’è bisogno di attendere: sta già accadendo.
Non volevamo filosofare prima, e non vogliamo poetare adesso; ma è difficile sfuggire al ronzare insistente  che  ad ogni foto, notizia, filmato o racconto che arrivi dal fronte si impone sotto la forma dei versi scarni e definitivi di chi la disfatta dei corpi e delle coscienze l’ha vissuta nel fango e nel sangue della trincea sulla propria pelle:
“Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie”.
Parole che abbandonate le antologie, ora si aggirano tra macerie, cadaveri e cani macilenti.
E nelle urla non meno che nel silenzio, uno sbuffo più forte di vento è in agguato. E l’ansia sale.

FULVIO BALDOINO

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