Meglio i dazi del sovranismo che le guerre della globalizzazione

Ai tempi del Covid coi virostar abbiamo fatto il pieno di sciocchezze, aggravate dalla circostanza che non erano solo frutto di sprovvedutezza ma di occhiuti interessi.  Ora, con i dazi prima promessi poi annunciati e infine applicati ma in parte sospesi dal presidente americano, è il momento degli economisti, secondi solo ai politologi nel disputare sul nulla; se a guidare la più florida delle aziende si mettesse un economista in tre giorni la farebbe fallire. Detto questo non mi azzardo ad addentrarmi in un campo che mi è del tutto sconosciuto ma non mi posso esimere dal rimarcare delle evidenze. La prima è che nella storia si sono succeduti periodi di frontiere sigillate e rigidi vincoli commerciali e periodi  ispirati al principio del laissez faire, laissez passer.  I governanti, in considerazione delle condizioni del Paese di cui reggono il timone prendono la prima o la seconda strada.

Con questa consapevolezza è assurdo considerare in assoluto buono e giusto il protezionismo piuttosto che il liberismo. Nei rapporti fra gli Stati non si segue una tavola di valori ma l’interesse nazionale. Di sicuro non si è perseguito l’interesse nazionale dei singoli Stati europei né quello dell’UE quando si sono comminate sanzioni alla Russia in nome di improbabili principi e con la garanzia sottoscritta dai maestri dell’economia – vedi Mario Draghi – che in quattro e quattr’otto avrebbero fatto crollare la federazione russa. Manco a dirlo la Russia ci ha guadagnato, gli americani ci hanno guadagnato e aziende e consumatori europei hanno preso una tranvata che li ha annichiliti. Quando si è imparato a conoscerli non ci si sorprende che da quegli stessi che hanno sbagliato tutto  si levi ora un coro di condanna e di previsioni apocalittiche per tutto sommato lievi limitazioni all’interscambio commerciale fra Usa e Unione europea.  Trump è un pazzo se intende riequilibrare la bilancia dei pagamenti con l’Europa, dicono quelli che non solo non hanno rifiatato contro la chiusura al commercio con la federazione russa ma l’hanno convintamente sostenuta. È un pazzo che rischia di affamare i popoli europei e i suoi stessi connazionali; ma non ci dicono lorsignori che le nostre esportazioni sono destinate in larga misura a consumatori benestanti, per i quali se il made in Italy (moda o prodotti agroalimentari che siano) invece di 100 costa 110 non fa differenza. E soprattutto non ci dicono che ad aizzarli e ad aizzare i media sono gli esportatori di prodotti farmaceutici (toh, gli stessi del Covid) e di mezzi meccanici. Toccano in modo significativo il nostro Paese? No, a farne le spese è la Germania.

La seconda evidenza è che il produttore di un bene tenuto a corrispondere a chi lavora per lui il salario minimo imposto da un contratto garantito dallo Stato, che non può pretendere da lui un minuto in più rispetto all’orario stabilito per legge, che gli deve riconoscere congedi per malattia, matrimonio o cura dei figli e ferie retribuite soccombe di fronte al produttore dello stesso bene in un Paese in cui è libero di pagare ad libitum la mano d’opera senza alcun vincolo di orario e senza alcun obbligo di pagarla anche quando non lavora. Il primo è sottoposto alle leggi dello Stato e al controllo dei sindacati, il secondo a quelle del mercato, il cui paradigma è lo schiavismo. Per salvarsi il primo può solo sperare che il secondo non disponga delle competenze per produrre un bene della stessa qualità o che lo Stato lo tuteli intervenendo sulla libera circolazione dei beni.

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È banale riconoscere che il cittadino consumatore beneficia di un regime di concorrenza sleale, che di fatto ha una funzione di calmiere. Ed è altrettanto banale riconoscere che gli interessi del lavoratore e del consumatore non coincidono, come non coincidono gli interessi dell’imprenditore e quelli del lavoratore. Ovviamente mi riferisco a interessi immediati e tangibili; quegli di medio e lungo termine sono altra cosa, ma il loro impatto psicologico è nullo.

Anche in questo caso il moralismo è nemico della verità. I protezionisti di ieri che hanno scoperto i vantaggi della globalizzazione (e soprattutto della delocalizzazione) si sono scatenati contro le misure di Trump intenzionato a riequilibrare il rapporto fra capitale industriale e capitale finanziario,  a contrastare la contrazione di manodopera e a creare le condizioni per la crescita dei salari medi. Per farlo  fa quello che aveva promesso – o minacciato – in campagna elettorale: un freno alla concorrenza cinese e all’invadenza europea con un brusco ricorso ai dazi.  L’Ue, i media, la politica tutta, e con particolare animosità la sinistra, dimentichi del disastro delle sanzioni alla Russia, si sono scoperti fanatici del libero mercato, diventato sinonimo di libertà, democrazia e progresso. Trump da un momento all’altro non è più semplicemente il bisonte che ha fatto irruzione nella Casa Bianca ma un pazzo criminale, un imbecille, un demagogo incosciente che mette a rischio la sopravvivenza del pianeta.

Una reazione così isterica mi fa pensare che il presidente americano abbia agito con lucidità e raziocinio. Che poi una parte dell’opinione pubblica americana sia contraria  era scontato. La società americana è fortemente polarizzata a tutti i livelli. Lo è ai vertici del vecchio e nuovo capitalismo, nella middle class lacerata  e in buona parte scivolata verso la nuova povertà e lo è nella sua base, dove si scontrano, come in scala ridotta accade anche da noi, risentimenti, rivendicazioni, ribellismo e voglia di ordine e sicurezza. Ma su tutto prevale quella fiducia in una via americana di riscatto sociale incarnata da the Donald, una via che minaccia di sconvolgere equilibri e privilegi consolidati.

Non sono un economista e non ho mai messo piede negli Stati Uniti ma so per certo che il cuore pulsante dell’Occidente alimenta un ircocervo.  Se la più giovane delle mie figlie, che come anestesista in un ospedale pubblico guadagna poco più di un operaio specializzato, si fosse fatta convincere dalla sirena americana ora avrebbe un reddito annuo fra i tre e i quattrocento mila dollari l’anno lavorando meno e in un ambiente più stimolante. Ma la mia biscugina, americana di seconda generazione, che pure come tanti italo americani ben radicati nel Paese è distante anche fisicamente dai gruppi sociali marginali di latini e afroamericani delle periferie e dei piccoli centri , con un impiego decoroso vive sì senza preoccupazioni ma è però chiusa in una dimensione di povertà relativa che non la protegge dal rischio di scivolare nella povertà assoluta mentre la priva di ogni possibilità di agganciare livelli sociali superiori. Sanità pubblica, scuole pubbliche, supermercati con prodotti dozzinali, grandi magazzini infestati di merce importata dalla Cina, tavole calde: questo è il suo orizzonte di vita. Per carità, si vive anche così. Ma della più grande economia mondiale, dell’enorme ricchezza del suo Paese non gli arriva nulla. Tutta la ricchezza e il relativo benessere è distribuita in un altro mondo, che si stende dalle professioni più prestigiose fino ai magnati della finanza. E se da noi, chiunque abbia un reddito si può permettere almeno una volta al mese un ristorante di qualunque livello, l’americano medio non si sogna nemmeno di varcarne la soglia perché con moglie e due figli ci lascerebbe non meno di cinquecento dollari. Questi squilibri in Europa sono un’eccezione, in America sono la regola.

Trump è la promessa di una società più omogenea, autenticamente americana.-  che non vuol dire razzista – realizzabile solo se si pone un freno all’immigrazione e al proliferare di sacche di criminalità e povertà estrema e si assicura la protezione dello stato sociale ora sbilanciato verso quelle sacche. Una società che produce ricchezza dal lavoro e che quindi deve ricostituire il suo tessuto produttivo, compromesso da un patologico disavanzo commerciale. Il mostruoso livello delle importazioni ha infatti polverizzato interi settori produttivi, con conseguenti licenziamenti, aumento della disoccupazione, contrazione salariale.

Con Trump diventa drammaticamente evidente che ci sono due Americhe, che l’America di cui Biden difendeva gli interessi non è quella di cui Trump difende gli interessi. Da questa prospettiva bisogna guardare ai dazi. Gli americani, repubblicani o democratici che siano difendono i propri interessi contro amici e nemici ma lo fanno in modi diversi e contrastanti. E come l’America è una solo in astratto anche l’Europa cambia secondo l’osservatore. L’Europa di Prodi, di Bruxelles, della borsa, di Leonardo non è la stessa di chi timbra il cartellino o dei pensionati e questa ha sofferto molto più le sanzioni che i dazi, per quanto possano far male

Gli americani, repubblicani o democratici, difendono i propri interessi e rispondono alla aggressività e all’invasività della produzione industriale cinese. Ma la risposta può essere rabbiosa, tesa a tutelare i vertici dell’economia e affidata al potere economico-finanziario, che prevale sulla politica e la indirizza. Quello è il potere del dollaro, un mostro cieco e brutale, il cui luogo naturale è la globalizzazione, nuova versione dell’imperialismo, e i suoi strumenti di attacco e di difesa sono le guerre. L’amministrazione Biden ne è stata una plateale dimostrazione, una miscela esplosiva di interessi personali, potere decisionale di gruppi finanziari e massonici, controllo su governi, partiti, mezzi di informazione, riconversione militare della grande industria e della tecnologia. Prima l’America, con l’Europa al guinzaglio come un cane fedele ma viziato e ben nutrito.

Trump risponde duramente all’invasione commerciale cinese. Ma lo fa senza rabbia, senza paraventi ideologici e riconoscendo che Xi Jinping è, come Putin, un leader intelligente e col quale è impensabile non collaborare. Prima l’America anche con Trump, ma è l’altra America, quella che non si identifica col dollaro ma col popolo, l’America di chi lavora e produce, non quella della finanza, l’America di chi il lavoro l’ha perso o non riesce a trovarlo, l’America di chi non sopporta più l’invasione di latinos, il dilagare della delinquenza, la perdita di sicurezza e di fiducia. E soprattutto un’America che per imporsi non ha bisogno di guerre. Se poi anche con Trump l’Europa è un cagnolino al guinzaglio che deve rigare dritto e tenuto a stecchetto e se i governanti europei – Meloni in testa – si prostrano davanti al dominusamericano, prima Biden ora Trump, non ce la possiamo prendere con gli americani . Prendiamocela con chi in nome della democrazia e sventolando la costituzione più bella del mondo ci ha messo nelle mani di un regime sovranazionale di kalokagathoi, in realtà né belli né buoni né intelligenti, che tirano i fili delle marionette della politica e dell’informazione, la politica che avrebbe dovuto incarnare la sovranità del popolo e invece lo ha asservito, l’informazione che avrebbe dovuto esserne la voce e invece lo ha ammutolito.

Pierfranco Lisorini

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