L’etica illuminista nel terzo millennio

 Nei millenni che ci hanno lasciato tracce delle umane attività è invariabilmente invalsa la legge della penuria: l’uomo si adeguava giocoforza a ciò che la natura gli offriva in ricompensa della sua fatica. Lavoro e fatica erano sinonimi. Così come lavoro e dovere, biblicamente intesi.

L’Encyclopédie e il suo principale autore, Denis Diderot   

Quando i raggruppamenti tribali si riunirono a fondare le varie civiltà, la fatica fu gentilmente addossata dalle caste reali e sacerdotali sulle spalle dei relativi popoli, le prime attribuendosi poteri dispotici, le seconde ammantandole di sacralità; tanto che alcuni re o imperatori si spinsero a farsi considerare dèi da adorare. L’avvento del cristianesimo abrogò, almeno di nome, questa idolatria, ma la protezione divina sui capi coronati fu dura a morire, se pensiamo che la formula “per grazia di Dio e volontà della nazione” giunse fino ai Savoia (e taccio qui della “volontà della nazione”, mai interpellata attraverso libere elezioni).

 

 

Ho infiorato questo articolo con qualche disegno su Arti e Mestieri dall’Encyclopédie, per meglio rendere l’idea della vita lavorativa nel secolo dei lumi 

A prescindere dall’ineguale distribuzione della fatica, fu la mancanza di adeguate tecnologie a frenare sia l’abbondanza che la conseguente crescita demografica. (Un parallelo che la modernità ha soppresso, salvando popoli ridotti alla miseria, eppure sconsideratamente prolifici).

Scienza e tecnica fecero capolino attraverso le intuizioni e le scoperte di personaggi anonimi o i cui nomi sono giunti fino a noi, ad esempio Archimede in era precristiana; ma furono casi isolati, senza alcun seguito pratico. Nel Medio Evo cristiano prevalse l’afflato spirituale, e si dovette attendere il genio di un Leonardo per ridare sboccio a studi non frenati da preconcetti magico-religiosi. Anche perché l’effervescenza culturale del Quattrocento consentì di uscire dal coro a quanti, nel secolo successivo, per le stesse idee, avrebbero dovuto affrontare i roghi dell’Inquisizione. E Niccolò Cusano è certamente annoverabile fra questi.

 

L’Encyclopédie, opera monumentale e manifesto dell’Illuminismo, richiese uno sforzo ciclopico e 30 anni di lavoro, anche per i continui ostacoli frapposti dai circoli religiosi, che fecero desistere molti collaboratori, come D’Alembert

Ma, alla fine, la scienza riuscì ad imporsi, e le scoperte di Copernico, Bruno, Galileo e tanti altri scienziati, nel senso moderno della parola, non trovarono più troppi ostacoli sulla loro strada, grazie al potente impulso della corrente di pensiero illuminista e alla sua estremizzazione nell’Ottocento positivista. 

L’Illuminismo settecentesco aveva finalmente abbattuto la formidabile diga della religione all’avanzamento della scienza e alle sue mirabolanti applicazioni. Si guardò al passato con lenti tra il paternalistico -salvandone i resti con cura museale- e l’iconoclastico, qualificando i secoli medievali come “bui”.

Il senso di onnipotenza che la scienza infondeva in un uomo ormai intento a “dare la scalata al cielo” a colpi di frusta sulla Terra, si riverberò anche nei suoi atteggiamenti verso il mondo: si era riscoperta la mitica età dell’oro, non più in un perduto Eden, ma in un futuro a portata di mano: bastava coglierlo. Ed era dappertutto, con immense risorse da sfruttare per far progredire l’umanità lungo un luminoso cammino.

Il progresso scientifico e materiale permetteva finalmente l’emancipazione delle masse da un’esistenza di stenti e fatica ad un comodo soggiorno su una Terra sottomessa ai nostri voleri. Chi osava non accucciarsi ad una simile visione del “bicchiere tutto pieno” veniva qualificato come reazionario, retrivo, oscurantista. Ma era un’esigua minoranza, di contro alla nuova cultura progressista, che del nuovo corso scorgeva solo i vantaggi immediati. 

 

Nonostante la distanza temporale dai processi a Bruno e Galileo, l’Encyclopédie fu bersaglio della censura religiosa, per il suo taglio ateo e anticlericale: la Chiesa avvertiva con sgomento l’avanzata della scienza e il parallelo declino della religione in un rapporto di causa-effetto

Guardando la storia moderna “a volo d’uccello” si nota, a partire dalle guerre napoleoniche, l’enorme capacità distruttiva delle guerre, grazie ai nuovi armamenti, sino alla tragedia della guerra nucleare; anche se la guerra è solo il risvolto più visibile della distruzione che procede strisciante sotto il labaro dell’avanzamento tecnologico e delle “magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria. L’uomo non sembra minimamente toccato dal pensiero che ogni affermazione nasconde in sé il seme del suo contrario: intuizione approfondita dal già citato Niccolò Cusano nel XV secolo, prima della richiusura dei confini mentali, di cui fecero le spese Bruno e Galileo.

L’Illuminismo riaprì quei confini, e l’umanesimo quattrocentesco sbocciò in umanitarismo. Del resto, come sarebbe possibile contraddire o avversare idee e azioni così condivisibili come il sollevamento dalla fatica del lavoro, la facilitazione dello scambio di merci e di viaggi per conoscere altre civiltà, il salvataggio di vite umane grazie ai progressi della medicina, la “moltiplicazione dei pani e dei pesci”, non già miracolosa, ma frutto di nuove tecniche agricole, e via di questo passo?

 

 

Vedo come esito scontato dell’illuminismo i principi fondanti del capitalismo: la sostituzione delle mani con le macchine, dei laboratori con stabilimenti a basso impiego di manodopera, dell’economia di scala e del gigantismo, della parcellizzazione del lavoro, dell’agricoltura industriale, del consumo forzato per garantire la produzione: la loro combinazione ha condotto alla tenaglia sociale e ambientale che stiamo dolorosamente sperimentando

L’insidia sta proprio nell’accettazione di ragionamenti che suonano così umanitari da rasentare la solida evidenza di assiomi. Umanitari! Qui sta la limitatezza di una simile visione del mondo. Un mondo fatto su misura per l’uomo, che non si pone più limiti di spazio, accecato dalla credenza nella sua superiorità rispetto a tutto ciò che è altro da lui. Frutto dell’etica illuminista, i cui principali connotati sono l’umanitarismo e l’utilitarismo. Ne discende che tutto ciò che non è –o non appare-utile all’uomo non ha valore, è materia bruta, che sia inerte o vivente, poco importa. Tutto ciò che è altro dall’uomo, quindi, si deve scansare o piegarsi al suo passaggio, per rendergli la vita più comoda e piacevole. E il capitalismo fu il perfetto interprete di questo atteggiamento predatorio, degradando però l’uomo stesso a mero strumento per l’arricchimento materiale di una ridotta casta, dapprima imprenditoriale e poi finanziaria.

Ma il conto da pagare alla fine arriva, magari dopo che l’opera di distruzione di tutto quanto è non-uomo è giunta al suo compimento: chi di lama ferisce di lama perisce.

Scorcio della foresta amazzonica. Per l’utilitarismo tutto quanto non è traducibile in quotazioni di Borsa va “valorizzato”, e cioè carpito, mercificato, venduto e tassato

A pagare sono chiamate per prime, ovviamente, le classi più deboli, nelle quali sono scivolate porzioni sempre più ampie della classe media, col compiaciuto plauso degli “umanitari” di sinistra. Ma col tempo nessuno può scampare al disastro, perché l’inquinamento non conosce confini ed è, ironicamente, democratico, colpendo sia in alto, seppur meno e in ritardo, che in basso. 

E siamo arrivati all’oggi. L’etica illuminista ha mostrato, senza più ombra di dubbi, dove va a parare. E l’etica emergente ha tutti i connotati del suo rovescio: l’uomo viene ora guardato come minaccia, e quindi le malattie, la fame, le guerre sono viste, magari inconsciamente, come implicite soluzioni a lungo e largo raggio della moltiplicazione degli umani come conseguenza di quella “dei pani e dei pesci”: i deserti che avanzano, i mari sempre più avari, i terreni sempre meno produttivi, la progressiva estinzione di migliaia di specie animali e di insetti, sono il risultato della frenesia produttiva e consumistica consentita dalla corsa tecnologica. Un’etica che si risolve nel suo contrario, insomma. E se le avversità sopra dette non saranno sufficienti, si ricorrerà a metodi più mirati: è implicito nell’amoralità utilitaristica, che in prospettiva constata la crescente inutilità, e anzi pericolosità, dell’uomo in quanto esubero

 

Il Covid, con l’esigenza di selezionare chi abbia più “numeri” per aver diritto alla terapia intensiva [VEDI],  è una spia del futuro, quando le bocche da sfamare saranno superiori alle risorse disponibili e si dovrà scegliere in base all’età, allo stato di salute, al censo

 

Non suonano più come vaneggiamenti risibili certe posizioni religiose dei “secoli bui”, come il guardare alle catastrofi in chiave di punizione divina per la nostra superbia, la βϱις(hybris) stigmatizzata da Agostino d’Ippona e da tanti suoi epigoni. Ciò che sino a ieri ci sembrava un bene è oggi guardato come un attentato alla propria salute; e la natura, vista sin qui come un serbatoio di materie prime, minerali e organiche, nonché come un avversario da combattere con eroiche gesta degne di encomio, assurge a Madre Natura, da proteggere, anche a scapito di un’umanità eccedente in numero e pretese: l’umanitarismo finirà col cedere il passo all’ambientalismo, con l’uomo nei consunti panni di un re detronizzato.

 

INAM e INPS furono l’encomiabile prodotto dello spirito illuminista. Oggi però lo stress di un sistema economico basato sull’iper-sfruttamento della natura, l’inquinamento dilagante, il moltiplicarsi di vecchi over 80 e di malati cronici, il restringersi del supporto contributivo della classe lavoratrice, hanno scosso dalle fondamenta l’intera impalcatura assistenziale, alla quale il Covid sta sferrando il colpo ferale 

 La gente vive con fastidio e sospetto le rassicurazioni delle sfere alte, viste come discorsi di maniera, sempre più divaricati dalla realtà; e cerca le cause nascoste di quanto viene deciso sopra le sue teste. Sentimento che, se esternato, viene bollato come farneticazione, “complottismo”. 

D’altronde, per chi il disagio non lo vive sulla pelle propria, è facile rassicurare e dare del complottista a chi vede i propri risparmi, il proprio reddito, il proprio ambiente di vita peggiorare di giorno in giorno, mentre nei vari consessi internazionali personaggi con robusti conti in banca predicano grandi piani per il futuro, sui quali magari lucrare in prima persona. Non mi soffermo qui sui sospetti “complottistici” di rapporti incestuosi tra OMS e Big Pharma/Bill Gates, che sostengono finanziariamente un’Organizzazione senza fini di lucro, che però di fatto fiancheggia i loro piani di medicalizzazione e spedalizzazione globale, facendo dell’uomo un malato perenne e quindi farmaco-dipendente.

 

The Great Green Wall: il sogno africano di portare il rigoglio della vita dove non c’erano che rocce e sabbia

 Voglio invece restare in campo ambientale e citare l’esempio del faraonico quanto lodevole progetto della Grande Muraglia Verde. [VEDI] Partito nel 2007, dovrebbe terminare nel 2030; ma, dopo 13 anni, soltanto il 4% dell’opera è stata realizzata. I soldi, come troppo spesso accade quando sono tanti e arrivano da lontane organizzazioni internazionali, in gran parte prendono vie diverse, sia per tamponare esigenze di più breve termine che per la corruzione endemica dei governi ricettori. Col tempo e di fronte agli scarsi risultati, l’entusiasmo si affievolisce e il tutto finisce in una delle tante opere incompiute di cui l’Italia fornisce tristi esempi.

Eppure, l’intento era pienamente condivisibile: salvare dalla desertificazione un territorio lungo 7600 km e largo 15, contribuire al miglioramento del clima, contrastando temperature sempre più torride, salvare dalla fame milioni di persone, creando altrettanti posti di lavoro. Si pensi che è da questa fascia di Africa Centrale che origina la gran parte di coloro che noi chiamiamo migranti. E l’idea era una fattiva messa in pratica della nostra generica esortazione “aiutiamoli a casa loro”.

 

Questo non è che uno dei tanti fallimenti a conclusione di roboanti progetti che, col passare del tempo, finiscono nel nulla. Del resto, c’è da aspettarselo in un mondo così dinamico e ricco di eventi in frenetica successione, che, contraddittoriamente, pretende di prevedere e pianificare un futuro che è incerto a soli pochi giorni/mesi di distanza. I cambiamenti epocali e imprevisti degli ultimi decenni stanno lì a dimostrarlo.

Ecco, in un contesto simile, non c’è più spazio per i principi che l’illuminismo aveva solennemente sanciti come inderogabili e consoni alla natura dell’uomo, che in verità è pronto a rispettarli soltanto in tempi di vacche grasse e a ripudiarli quando la penuria puntualmente si ripresenta.

Concludo citando la previsione, questa purtroppo fondata, di raddoppio della popolazione del Sahel entro il 2050. In un territorio in via di inarrestabile desertificazione, che già ora è punteggiato di campi profughi da questo o quel disastro ambientale o conflitto tra bande rivali, come si può pensare che ne ospiti il doppio senza che si verifichi un esodo biblico verso un‘Europa già alle corde? Come si collocano in un simile scenario le esortazioni di sapore illuminista di sinistre e Vaticano sull’accoglienza di nostri simili privi delle più elementari doti di previdenza, capaci solo di figliare senza sosta, come non vedessero in quali condizioni mettono al mondo nuovi nati con la previsione certa di fame, stenti, malattie? 

 

Una domanda, questa sì ispirata alla ragione illuminista: come si può mettere al mondo senza sosta bimbi destinati alla miseria, alla denutrizione, alla sofferenza, per poi affidare a noi l’onere di provvedere al loro sostentamento?

Quanto a noi occidentali, quando capiremo che il motto ‘aiutiamoli a casa loro’ non deve tradursi nell’elargizione di fondi di dubbia destinazione finale, bensì nella prospettiva di una nostra graduale ritirata dal continente africano, adeguandoci ad una vita diversa, senza i prodotti derivati dal saccheggio di quel continente da parte delle nostre multinazionali, senza i prestiti pelosi delle varie World Bank ed FMI? La deriva assistenziale a cui abbiamo condannato l’Africa non è forse proporzionale al nostro sfruttamento di un continente che non deve diventare un clone dell’Occidente? La passata autodeterminazione di alcune nazioni africane è stata eterodiretta, a imitazione del nostro modo di vivere: un errore pari alla pretesa di esportare democrazia in Paesi non pronti ad accoglierla.

  Marco Giacinto Pellifroni                  25 ottobre 2020 

 

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