L’EDUCAZIONE DEL FILOSOFO E L’ALLEGORIA DELLA CAVERNA

L’EDUCAZIONE DEL FILOSOFO
E L’ALLEGORIA DELLA CAVERNA

L’EDUCAZIONE DEL FILOSOFO
E L’ALLEGORIA DELLA CAVERNA
Il tema iniziale della Repubblica – in che cosa consista la giustizia – enunciato e discusso nel libro I, dove Socrate cerca invano di confutare l’asserzione di Trasimaco, secondo cui la giustizia è determinata da ciò che conviene a chi detiene il potere, continua nel II, in cui prima Glaucone e poi Adimanto riprendono l’argomento di Trasimaco; Adimanto aggiunge inoltre che gli uomini non lodano tanto la giustizia in sé ma l’apparenza della giustizia; Socrate allora, sempre per  confutare la tesi di Trasimaco, colloca la giustizia nel contesto più ampio della polis, e comincia con il delineare una città semplice e primitiva, abitata da contadini, artigiani e commercianti e organizzata secondo una precisa divisione dei compiti di ciascuno.
 A Glaucone una polis siffatta sembra troppo limitata e auspica uno Stato più ricco; questo però comporta l’allargamento del territorio, il che implica la necessità di preparsi alla guerra, quindi ci vogliono dei guerrieri e dei difensori, o custodi, interamente dediti alla difesa della città. Questi custodi o guerrieri devono essere miti e coraggiosi a seconda del bisogno, e anche ben istruiti; si pone quindi il problema della loro educazione, che sarà soprattutto musicale e ginnica (così la musica come la ginnastica sono in funzione anzitutto del coraggio e dell’amore per il sapere, e in secondo luogo per l’educazione dell’anima e per l’armonia del corpo). Nel libro III Socrate distingue tre generi di poesia: narrativa, imitativa e mista. I custodi si asterranno dall’imitazione, sempre che non riguardi un eroe o un’azione virtuosa; ne consegue che, se venisse da noi un cantore  straniero in grado di imitare qualsiasi cosa, pur ammirandolo, lo bandiremmo dalla nostra città.  Tra i custodi verranno scelti, come  governanti della città,  gli uomini migliori, i più abili nella difesa della città e i più adatti a curare se stessi e gli altri. Nel libro IV  Socrate spiega che la città ideale è fatta per la felicità di tutti i suoi abitanti, non di una singola classe (e tantomeno di una singola persona). La giustizia è attestata dalla presenza delle tre virtù ad essa collegate: sapienza, coraggio, temperanza. La sapienza è propria dei governanti, il coraggio è la virtù propria dei custodi-guerrieri; la temperanza riguarda tutte e tre le classi dei cittadini (lavoratori, custodi-guerrieri e filosofi). La giustizia consiste, ormai possiamo definirla con maggior precisione, nell’assolvimento del proprio compito da parte di ciascuno, la giustizia della polis è anche quello di ogni singolo cittadino, in quanto la struttura tripartita dell’anima individuale (razionale, impulsiva e concupiscibile) è analoga a quella  tripartita della città. Al governo della quale, come al governo di ciascuno, è (o dovrebbe essere) la sapienza e la sapienza è la virtù propria dei filosofi.
Ma come possiamo riconoscere e definire il vero filosofo? E’ questo l’argomento dei libri V, VI e VII. Come il vero amante delineato nel Simposio, il vero filosofo ama la bellezza in sé, sa distinguere la realtà partecipata dalle cose che ne partecipano, si assoggetta infine di buon grado all’ascesi che lo porterà alla conoscenza vera della realtà. Il vero filosofo si conrappone ai filodossi, ovvero agli amanti dell’opinione. E’ questa una regione della conoscenza intermedia tra il non essere  e l’essere, dove vagano e fluttuano fenomeni e apparenze, cose che sono e insieme non sono,   che i non filosofi credono reali.
Il vero filosofo oltrepassa questa regione intermedia, e per questo è superiore ai più che non sono capaci di oltrepassarla per attingere i modelli eterni degli oggetti percepiti dai sensi, cioè le idee intelligibili solo dall’intelletto. Ora avviene che, una volta conosciuta l’idea, egli prova ripugnanza per le immagini fallaci delle cose, e desidera dedicarsi del tutto a comprendere le relazioni  che intercorrono tra idea ed idea e tra le idee e le cose di questo mondo.
 Il vero filosofo non si limita a contemplare le idee; il suo compito è di mettere a confronto la natura umana e le opinioni correnti con le idee di Giustizia, di Bellezza e di Sapienza, allo scopo di capire quale immagine di uomo possa piacere di più agli dei. Ma ecco presentarsi un secondo problema: come può il vero filosofo educare gli altri uomini se prima non avrà educato se stesso? La meta da reggiungere è l’oggetto supremo del sapere, l’idea del Bene, dalla quale tutto ciò che è bello, buono, utile deriva il proprio essere e senza di cui ogni altra conoscenza è vana. Il Bene, a cui ogni anima tende e per cui agisce come agisce, non è né il piacere né l’intelligenza; sapremo più tardi quel che esso è, per il momento accontentiamoci di considerarne un frutto o una creatura: il Sole. Se raccogliamo sotto l’unità intelligibile di un’idea tutte le cose visibili, oggetto della vista, da una parte, e, dall’altra, tutte le cose intelligibili, oggetto dell’intelletto, dovremo riconoscere che il Sole è, nell’ordine delle cose visibili, quel che il Bene è nell’ordine delle cose intelligibili, cioè delle idee. Questi i termini dell’analogia. E tuttavia, così come la luce e la vista non sono il Sole, la verità e la scienza non sono il Bene: gli assomigliano soltanto. Il Bene è qualcosa di molto più bello: simile al Sole che non si limita a illuminare le cose, ma le fa nascere e crescere, il Bene non genera soltanto l’intelligibilità delle cose intelligibili, ma conferisce loro l’essenza e l’esistenza. Dà l’essenza ma non è egli stesso essenza, è al di là dell’essenza che oltrepassa in dignità e in potere. In sintesi, tra il Bene e le altre idee possiamo scorgere una discontinuità analoga a quella tra gli oggetti della sensibilità e le idee, ovvero tra il Bello in sé e l’ultimo dei gradi dell’ascensione erotica descritta nel Simposio. Tra le varie relazioni gerarchiche dell’essere e del conoscere esiste un preciso parallelismo: nell’uno come nell’altro caso ogni grado nell’ordine ascendente è un’imitazione o un’immagine del grado superiore. Tra il non-essere assoluto dell’ignoranza totale e l’essere assoluto del sapere supremo si svolge tutta una serie di gradi intermedi: incontriamo copie fittizie degli oggetti sensibili prodotte dalle arti, copie delle realtà ideali rappresentate dagli oggetti sensibili; tra queste copie e i loro modelli troviamo gli oggetti simbolici della scienza; infine, oltre il gradino più alto della scala, il Bene, che domina sul mondo intelligibile e lo fa vivere. Tutte queste relazioni sono rappresentate per immagini nell’allegoria della caverna (Libro VII, 514-5179). Con la nostra anima condizionata da fattori congeniti, familiari, ambientali e culturali, noi siamo simili a prigiomieri immobilizzati fin dall’infanzia in fondo a una caverna, con gli occhi rivolti alla parete.
Il sentiero scosceso e pietroso che sale verso l’apertura della caverna significa la difficoltà di scorgere la natura e l’origine delle nostre opinioni. Il grande fuoco che arde all’esterno, il cui riflesso illumina la parete della caverna, è il Sole; le statue e i manufatti che passano sporgendo sopra a un muro che si trova davanti all’imbocco della caverna e le cui ombre sono proiettate sulla parete rappresentano gli oggetti fisici, concepiti come artificiali.
Si ode  anche  l’eco delle voci di persone che rimangono nascoste dietro il muro, e i prigionieri credono che sia il linguaggio della verità. Quando uno dei  prigionieri riesce a liberarsi dalle catene  e a risalire faticosamente fino all’uscita della caverna, subito rimane abbagliato dalla luce del giorno e i suoi occhi non discernono alcunché. Per assuefarli egli deve, per il momento, limitarsi all’immagine riflessa degli oggetti. Quello che vede poi gli fa comprendere l’illusione e l’inganno dei sensi che scambiano le ombre degli oggetti e l’eco delle voci per gli oggetti veri e le voci vere. Purtroppo, quando ritorna nella caverna per comunicare agli altri prigionieri la sua scoperta, non viene creduto e, forse, viene ucciso. Perché gli altri prigionieri non credono a chi  è riuscito a libersi dalle catene e dall’inganno dei sensi, preferendo le ombre alle “cose salde” (come dirà l’Alighieri? Semplice: perché non sono filosofi. Ma come si diventa filosofi? Un tutti c’è la facoltà di apprendere, ma solo pochi riescono a raggiungere lo stadio supremo della contemplazione dell’essere nella sua purezza e luminosità, che, come ormai sappiamo, è il Bene che illumina tutto il mondo intelligibile; e solo pochi vi riescono perché non è facile, appunto, liberarsi dalle illusioni dei sensi e dalle credenze consolidate, in modo da uscire dalle apparenze del divenire per approdare alla verità dell’essere eterno. Ma come si può uscire dall’apparenza del divenire? Non certo, spiega Socrate a Glaucone, con la ginnastica o con le tecniche, pur meritorie, che devono essere apprese per l’esercizio di una qualunque arte; no, per risalire dall’opinione alla scienza è necessario studiare l’aritmetica, disciplina  di cui ogni arte e ogni scienza, compresa quella della guerra,  non può fare a meno. All’aritmetica, però, è strettamente connessa la geometria, necessaria, oltre che per l’arte strategica, per avvicinarci alla contemplazione del mondo delle idee. All’aritmetica e alla geometria va aggiunta l’astronomia, scienza utile al filosofo-governante, per considerare le giuste proporzioni della polis rispetto al cosmo. Un’altra disciplina che deve far parte del curriculum del filosofo è l’armonia, non però come la studiano i musicisti, a cui interessa solo la misura tra gli accordi e i toni sensibili all’udito, ma semmai come la intendono i pitagorici, che  indagano quali numeri siano armonici e quali non lo siano, così da predisporre alla comprensione dell’idea del giusto e del bello. Nondimeno lo studio delle discipline fin qui passate in rassegna ha senso soltanto come preparazione allo studio e all’applicazione della scienza delle scienze, cioè della dialettica. E’ solo con la dialettica, infatti, che è possibile trascendere i limiti della sensibilità ed elevarsi di grado in grado fino all’intelligenza del bene in sé e raggiungere la contemplazione della pura forma intelligibile o idea. A questo punto Glaucone chiede delucidazioni sul potere che ha la dialettica, sulle sue forme e sulle sue vie; al che Socrate risponde che solo chi è divenuto esperto nelle discipline prima passate in rassegna può spiegare in che cosa consista il potere della dialettica e che non c’è altra via (metodo) se si vuol comprendere l’essenza delle cose. Solo il metodo dialettico, dunque, si eleva, tramite quelle discipline,  al principio in sé per fissarlo stabilmente; la dialettica non è un’opinione che riguarda divenire, ma scienza (episteme) che si occupa dell’essere che non muta. E così non si potrà arrivare alla definizione del Bene per mezzo dell’opinione ma tramite il procedimento razionale della dialettica. Ed è proprio la conoscenza del Bene in sé il fine a cui tende la dialettica, e  questa è la ragione per cui  è superiore a tutte le altre discipline.
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