La tutela dell’ambiente e il falso problema …

La tutela dell’ambiente e il falso problema delle grandi opere
Come l’ideologia può screditare l’ambientalismo

La tutela dell’ambiente e il falso problema delle grandi opere

Come l’ideologia può screditare l’ambientalismo

Le piramidi della valle dei re sono forse i monumenti più celebrati, ammirati e visitati al mondo e con la loro presenza sottraggono all’oblio lo splendore della civiltà egizia. Eppure per molti sono la testimonianza di una crudele autocrazia, delle sofferenze e dello sfruttamento di un popolo ridotto in schiavitù. E invece di soffermare l’attenzione sulla prodigiosa capacità ingegneristica che li ha resi possibili spostano il focus sulle decine di migliaia di uomini sfiniti dalla fatica e destinati a morire sotto il peso degli enormi massi da trascinare e posizionare. Si tratta, non ci sarebbe bisogno di ricordarlo, di una ricostruzione fantasiosa e assolutamente falsa, alimentata da una letteratura di derivazione anarco-marxista, purtroppo rappresentata anche in qualche testo scolastico. La verità è che quelle grandi opere davano occupazione e sostentamento, impegnavano maestranze con diversi gradi di specializzazione e dettero vita alla creazione di veri e propri villaggi, come accade ora a fianco delle grandi industrie. 


Ci sarebbe solo da sorridere dei pregiudizi e dell’ingenuità di una certa tradizione socialisteggiante, che poi coincide con quella luddista, misoneista, reazionaria, se non fosse che essa è ben lungi dall’essersi esaurita nel diciannovesimo secolo. Al contrario, vuoi nella versione culta e ideologica vuoi nella versione rozza e violenta, essa è ancora presente e si ripropone nell’idea che i grandi monumenti sono espressione del potere e di conseguenza sono il male, il segno dell’oppressione sociale e in buona sostanza non servono a nulla. Nelle forme più radicali questa posizione sfocia nel mito del buon selvaggio, della natura incontaminata, nella formula ora di moda della decrescita felice.  E se nel suo punto di origine si alimentava alla sorgente del marxismo, in queste conclusioni lo rovescia completamente e lo sovverte proprio in nuce, in quel principio fondamentale della storicizzazione dell’uomo, che si realizza nel frutto del suo lavoro, vale a dire nelle sue opere e nella trasformazione dell’ambiente.


Le idee sono produzione della mente umana ma sono un po’ come il robot di Odissea nello spazio: si rischia che, alienandosi,  acquistino una loro coerenza e una loro corposità che le fanno diventare un ostacolo alla comprensione della realtà, sostituendola con degli Idola. È questa l’origine delle “ideologie”, che passano per strumenti di lettura della realtà mentre, come appunto gli idòlabaconiani, la deformano. L’inquinamento è una brutta cosa e da ciò consegue che un mondo senza inquinamento è un obiettivo da perseguire. Se un’industria siderurgica è una minaccia per l’ambiente e per la salute delle persone, l’industria siderurgica è cattiva e bisogna eliminarla. Ma la produzione di acciaio  è strategica per il Paese e, al di là dell’occupazione e del ritorno economico, consente di chiudere il ciclo delle attività industriali di base senza il cappio della dipendenza dall’estero.  In più bisogna considerare che un certo grado di inquinamento è inevitabile anche indipendentemente dalle attività umane. Insomma: bisogna fare i conti con variabili di segno opposto e ciò richiede razionalità, assenza di pregiudizi e di interessi nascosti. Ma chi guarda alla realtà con gli occhi dell’ideologia elimina le variabili che non riesce a integrare e conclude che non ci debbano essere industrie siderurgiche, ci pensino gli altri a produrre acciaio  e a fare i conti con l’inquinamento.


Se per ecologismo si intende una “ideologia” ostile a priori a qualsiasi tipo di antropizzazione, siccome obbiettivamente essa non può che agire selettivamente, finisce che, anche fatta salva la buona fede, diventa un criterio discriminante sospeso come una spada di Damocle su qualunque iniziativa imprenditoriale, un altro ostacolo da aggirare al pari delle pastoie burocratiche. Ed è anche il caso di aggiungere che la pretesa di ergersi a difensori dell’ambiente contiene un vizio di origine comune a tutti i fanatismi: l’idea di essere migliori degli altri, l’illusione di essere testimoni del Verbo, depositari della Verità. La tutela dell’ambiente è interesse di tutti, e d’altro canto nessuno è immune dalla tentazione di conciliare il proprio tornaconto con la sua tutela.  Tutti vogliono usare il telefonino, scaldare le proprie case quando fa freddo e raffreddarle quando fa caldo, pochi si adattano a circolare a piedi o in bicicletta o a rinunciare a dare il proprio contributo all’inquinamento anche solo per diporto: nella mia città chi ama il mare appena se lo può permettere si fa la barca e non gli passa per la testa di usare il vento o le proprie braccia come forza motrice.

Ma non c’è solo l’inquinamento chimico o quello, che può essere devastante, biologico. L’illuminazione, i rumori, gli odori sono anch’essi fattori inquinanti, per non dire dell’inquinamento estetico e dell’aggressione fisica all’ambiente e all’assetto idrogeologico. L’ecologista, l’ambientalista, il no-Tav, il no-Tap, il guai ponte sullo stretto, il no al nucleare, alla larga gli inceneritori e i ripetitori, hanno dato un pur minimo contributo per il controllo di tutti questi fattori di inquinamento? Mai. Il fatto è che l’ideologia non serve: ci vogliono intelligenza, razionalità e, lo ripeto, onestà.  Ci si scandalizza, giustamente, per gli abusi edilizi di Ischia, dove è rimasti impigliati nel nodo dei risarcimenti a chi ha subito i danni del terremoto, ma non si è mosso un dito per impedirli.  Perché gli abusi veri sono sempre altrove, stanno sempre in alto, non si può infierire sui piccoli, sul legittimo desiderio di avere una casetta sulla collina o in riva al mare  e soprattutto non è bello pestare i piedi agli amici e amici degli amici. 

 
Cementificazione all’isola d’Elba

In sintesi: teniamo distinti due piani. Quello della compatibilità fra le esigenze di una grande potenza industriale e la salvaguardia della salute delle persone e si agisca tempestivamente, coerentemente e con raziocinio per evitare che  intere comunità paghino per presunti interessi nazionali che celano  gli interessi di pochi. Ma facciamolo senza pregiudizi, non per spirito di parte ma avendo in mente il bene comune, senza alterare le statistiche sulle patologie o la mortalità e con l’obiettivo della compatibilità prima dei divieti. L’altro piano non riguarda la salute ma i valori estetici, il benessere psicologico e lo stile di vita. Borghi e città storiche possono – e debbono – crescere ma la loro crescita richiede un’eccezionale sensibilità e profonda cultura umanistica oltre che tecnica da parte degli organi di controllo. Qualche giorno fa mi è capitato di tornare a Marina di Campo, nell’isola d’Elba, dove avevo soggiornato per la mia prima esperienza di insegnante. Altro che ecomostri. Una distruzione totale del passato, della storia, della bellezza. Ne hanno fatto un’anonima, se vogliamo linda, cittadina turistica, tutta accuratamente pavimentata, con un fronte spiaggia che non ha più niente di naturale, in un succedersi di stabilimenti balneari e di palazzine tutte uguali e tutte parimenti avulse dall’antico paesaggio. Una devastazione che i liguri conoscono bene, contro la quale la Cassandra Cederna (ovviamente Antonio, non Camilla)  tanti anni fa predicava inascoltato. E, per rimanere a casa mia, quotidianamente ho sott’occhio la devastazione del sacro colle di Montenero. Qualcuno ha fiatato durante lo scempio (che continua allegramente)? No. 


Gli ambientalisti non l’hanno fatto, non avevano gli strumenti culturali per farlo; i politici e gli amministratori di sinistra, qui come altrove, sono andati in direzione contraria, chi ci ha provato, come Sgarbi che ha sollevato il tema, era inaffidabile: è ora di bandire una crociata per la bellezza, per rientrare nel solco della nostra tradizione, che nelle grandi città come nei borghi più sperduti mostra come il tocco dell’uomo non deteriori ma esalti il paesaggio. E, se vuol essere per davvero quello del cambiamento, il governo giallo-verde dovrà farsene banditore. In ogni epoca delle nostra Italia, dall’antichità greco-romana ai secoli tutt’altro che bui del medioevo, dal rinascimento al barocco al neoclassicismo, la bellezza si è materializzata negli edifici pubblici, nelle cattedrali, nelle piazze, nei vicoli e nelle spianate, nell’armonia dei volumi e delle prospettive. Il regime democristiano e cattocomunista ci ha lasciato solo enormi periferie senza la luce dello spirito e con tutti gli architetti da salotto che si sono succeduti non c’è un solo edificio in tutto il Paese che, dal dopoguerra ad oggi, possa rimanere come lascito alle future generazioni.  Insomma il problema non è grandi opere sì o grandi opere no: il problema è come si costruisce, quale impronta viene lasciata; se si cerca di inseguire il mito, e la luce, di Atene o  si vuol perseverare nel grigiore , nel disordine, nella bruttura importati dal “socialismo reale”, quello realizzato nella Germania est e nelle altre repubbliche popolari, dove batteva il cuore degli inquilini del civico 4 di via delle Botteghe Oscure 

  Pier Franco Lisorini

    Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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