La tragedia di Avetrana

UNA TRISTEZZA SENZA FINE
Tristi riflessioni sulla tragedia di Avetrana

UNA TRISTEZZA SENZA FINE
Tristi riflessioni sulla tragedia di Avetrana
 

“Chi conosce un poco, solo un poco l’animo umano, non si stupisce di fronte alla storia di Sarah, si impara e non ci si stupisce più di nulla. Purtroppo io non mi sono stupita, scossa sì ma stupita no, non della fine di Sarah. Di fronte a quei bimbi che sorridono a fianco dei giornalisti quasi fosse una festa sì, io mi sono stupita, forse non tanto per il comportamento dei piccoli quanto per l’insensibilità di chi li ha lasciati fare. Una tristezza senza fine.”

Così finisce il bell’articolo di Giovanna Rezzoagli apparso su “Trucioli” della settimana scorsa sulla tragedia di Avetrana

 (la “città dei veterani”) su cui non è certo ancora calato il sipario, e dove non sembra nemmeno possibile parlare di “catarsi”, dal momento che non viene rappresentata in un teatro dell’antica Grecia, ma giorno dopo giorno quasi in diretta televisiva e nella miriade di social networks dove, più che meditati contributi a riflettere su quello che è accaduto, che accade e che può per colpevole disgrazia accadere ovunque e in ogni momento, si dà libero corso ai peggiori istinti che albergano nell’animo umano; come a dimostrare che, malgrado i mirabolanti progressi della tecnica e del dominio sulla natura a cui è giunta la nostra civiltà, in molti, in troppi casi, è l’agire umano, anzi disumano a essere dominato da pulsioni a tal punto cieche e distruttive da far perdere, oltre al lume della ragione, anche quello del sentimento e della pietà naturale che, in teoria, dovremmo tutti provare per la sofferenza dei nostri simili, e non parliamo nemmeno per quella dei nostri cari.

 

Giustamente la Rezzoagli non si stupisce che delitti così orrendi possano essere e siano commessi persino all’interno di quel “nido di affetti” chiamato famiglia, e sulla cui inderogabile funzione educativa, etica e religiosa insiste e ammonisce di continuo, per esempio, la Chiesa cattolica, ma che da tempo – anche qui in molti, in troppi casi – assomiglia più a un groviglio di vipere che a un’intima unione di vita e d’amore “ordinata alla comunione e al bene dei coniugi e alla generazione ed educazione dei figli”, secondo il dettato del Catechismo ; si stupisce invece della frivolezza di quegli avetranesi che non hanno impedito ai loro bambini di mostrarsi sorridenti vicino ai giornalisti, e del modo da reality show con cui i media, la televisione soprattutto e certi giornali di pochi o di nessuno scrupolo, raccontano la tragedia di Sarah e delle due famiglie di Avetrana, che ogni giorno sembra spostare più in là il confine del verosimile e del dicibile.

E continua a stupire   non solo il sensazionalismo amorale con cui i media trattano una simile vicenda,   ma anche, e forse più, l’uso strumentale che le persone coinvolte hanno fatto dei media medesimi. Come è possibile arrivare a tanto? Non ci sono dunque limiti al male in (e di) questo mondo? E come è possibile sopravvivere e continuare la propria vita quotidiana fingendosi preoccupatissimi per la scomparsa della cara nipotina e dell’amata cuginetta, rilasciare interviste e partecipare ai talkshow televisivi con quel peso sulla coscienza? Uno psichiatra, probabilmente, direbbe che sono stati messi in atto i meccanismi difensivi della scissione, del diniego e della rimozione per poter sopportare sentimenti, ricordi e “voci” interiori altrimenti intollerabili. Ma per quanto ancora potranno reggere? Le difese della zio Michele, il personaggio più fragile di questa tragedia familiare, sono state le prime a vacillare sotto il peso di una colpa che non poteva più tenere tutta per sé.

 Ora accusa la figlia Sabrina che, almeno fino a questo momento (giovedì 21 ottobre), continua a protestare la propria innocenza, mentre le due madri non vogliono più parlare con i giornalisti né comparire in televisione. Certo è che tutta questa atroce vicenda avrebbe bisogno di un Dostoevskij o di un Pirandello per essere raccontata in modo adeguato e in tutti i suoi risvolti e le sue dinamiche soggettive e relazionali: di fronte allo sgomento che (ancora) si prova per simili tragedie, i Salvo Sottile e i Bruno Vespa rivelano tutta la loro inadeguatezza. , che è poi l’inadeguatezza del mezzo di cui si servono: i tempi e i salotti televisivi non sono fatti per scandagliare le profondità dell’animo umano, profondità in cui, come negli abissi dell’oceano, nuotano quei terribili mostri che preferiremmo non dover mai guardare negli occhi, ma che, quando affiorano, sembrano esercitare uno strano potere fascinatorio, un potere che quasi ricorda il mysterium tremendum di cui parla Rudolf Otto nel suo saggio sul Sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione con il razionale (1917). L’unica cosa di cui non si può dubitare infatti è che, in questa tragedia dove una vittima innocente viene sacrificata non si sa bene in nome di chi e di che cosa, il male si presenta in tutta la sua irrazionalità, mettendoci di fronte, oltre che al dolore e alla pietà per le sue vittime (non si sa fino a che punto suoi inconsapevoli strumenti), al suo insondabile, tremendo e, ahimè, fascinans mistero.

Questo non toglie che ciascun “attore” della tragedia debba assumersi fino in fondo le proprie responsabilità davanti alla giustizia umana e, se crede che ci sia, davanti a quella divina. E anche noi spettatori dobbiamo domandarci quanto ci lasciamo irretire dallo “spettacolo del dolore” allestito quotidianamente dai media, che vorrebbero trasformarci tutti, se non ci stiamo attenti, o in esibizionisti o in voyeurs. In questa tragedia familiare tuttavia un personaggio è come rimasto sullo sfondo, un personaggio che non parla, che non può più “recitare” la sua parte nel dramma, ma che continua a guardarci ancora incredulo e a interrogarci con i suoi stupendi occhi azzurri di fanciulla che, come la Silvia del Leopardi, “lieta e pensosa, il limitare di gioventù” saliva, e ancora ci chiede quale colpa sia stata mai la sua per finire così. Quale colpa? Essere giovane e bella e piena di vita e di speranza di felicità? Anche tu, come Silvia, “All’apparir del vero, misera, cadesti, e con la mano / la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano.”

Fulvio Sguerso   21 ottobre 2010

 

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