La questione civile

DALL’ETA’ DEI DIRITTI ALL’ETA’ DEI DOVERI
Note su “La questione civile” di Roberta De Monticelli

DALL’ETA’ DEI DIRITTI ALL’ETA’ DEI DOVERI
Note su “La questione civile” di Roberta De Monticelli

Ci sono momenti nella storia in cui lo smarrimento personale coincide con lo smarrimento generale e in cui ci si chiede perché, a che scopo, per quale ragione valga la pena di continuare a vivere.

Oggi viviamo in uno di questi momenti. Si obietterà che questo non è un fenomeno mai visto o caratterizzante  solo questi  nostri tempi oscuri di basso impero mondiale della speculazione finanziaria e delle guerre “umanitarie”: l’umanità si trovò  smarrita in una selva oscura anche nella primavera del 1300, l’anno del primo Giubileo indetto da Bonifacio VIII, quando l’Alighieri, come egli stesso confessa all’inizio del suo poema, smarrì “la diritta via”. Sappiamo che la selva oscura rappresenta allegoricamente così il traviamento personale di Dante dopo la morte di Beatrice come quello universale dell’umanità rimasta senza guida, come un gregge senza pastore; dal momento che papa Bonificio, eletto con frode “successor del maggior Piero”, era interessato (e non solo lui) più ai beni temporali che a quelli spirituali, usurpando e deturpando “il loco santo” stabilito da Dio quale sede del papato. San Pietro in persona, infatti, dall’ottavo cielo del Paradiso – quello delle stelle fisse mosso dai cherubini –  lo fulmina con la sua invettiva contro i papi corrotti e simoniaci: “Quegli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio, che vaca / nella presenza del Figliuol di Dio, / fatt’ha del cimiterio mio cloaca / del sangue e della puzza; onde il perverso / che cadde di qua su, là giù si placa”. Ma  se l’alto seggio di San Pietro era allora vacante per l’indegnità, la corruzione, la simonia, l’avidità di potere e di ricchezze di alcuni papi, e quindi, mancando i buoni pastori, le pecorelle abbandonate a se stesse non potevano che smarrirsi, come spiegare il traviamento odierno di un’umanità che, malgrado lo strabiliante progresso delle scienze, della diffusione dei saperi e della volocità con cui le  informazioni viaggiano da un capo all’altro del pianeta, oltre che, naturalmente, la crescente

potenza dei suoi apparati tecnocratici, non sembra però in grado di governare se stessa secondo ragione e giustizia? Non possiamo certo attribuirne ancora, dopo la (quasi) scomparsa del loro potere temporale, la colpa ai papi: oggi la Chiesa cattolica, apostolica, romana è completamente ed esclusivamente  dedita alla sua missione salvifica, evangelizzatrice e catechetica, e non saranno certo le poche pecore nere che di quando in quando vengono scoperte entro il perimetro delle mura leonine (e talvolta anche fuori) a intaccarne l’autorità sacerdotale! D’altronde i cristiani sanno che lo spirito è forte ma la carne è debole, come attesta San Paolo; senza contare che oggi la stessa cristianità è divisa tra cattolici, protestanti, ortodossi, anglicani ecc., e che, nonostante la riaffermazione dell’ extra ecclesiam nulla salus da parte del cardinale Ratzinger nel documento dottrinale “Dominus Iesus” , emanato dalla Congragazione per la Dottrina della Fede nell’anno  2000,  non tutti i cristiani credono nell’unicità e nell’universalità salvifica della Chiesa cattolica. Dunque da dove viene questo smarrimento di senso, questa perdita di significato del concetto stesso di “valore” (in senso etico, non certo economico-finanziario), che immiserisce le nostre vite sempre più longeve ma anche sempre più lontane dalla natura e dal sentimento di valori assoluti come la bellezza e la giustizia, anzi, come la bellezza della giustizia?

 Roberta De Monticelli

Roberta De Monticelli tenta di rispondere a questa domanda con La questione civile, Raffaello Cortina editore, 2011. Nell’ultimo paragrafo del capitolo dedicato alla Filosofia del risveglio, con cui si chiude il saggio,  intitolato “Invettiva finale, l’autrice cita e commenta le “parole di colore oscuro” che il pellegrino Dante vede scritte sulla porta dell’Inferno, o meglio, sulla porta di tutto l’oltretomba, per la quale si entra “non solo nell’Inferno, ma nell’eterno in tutta la sua profondità e la sua altezza, che vanno appunto dall’Inferno a Dio”.

Ed è come se il Poeta indicasse anche a noi la strada da seguire se vogliamo ritrovare “la speranza dell’altezza”, se vogliamo risollevarci dal basso loco in cui siamo a poco a poco finiti per una sorta di “autoanestesia morale”, se vogliamo risvegliarci dall’ipnosi della coscienza mitridatizzata dalla banalità del male così bene descritta da Hannah Arendt, ipnosi morale ed estetica insieme, che ci fa considerare “normale” lo scempio paesaggistico per il profitto privato di pochi speculatori,  l’imbroglio e il raggiro tartufesco praticato en plein air (cioè in televisione e sui giornali di famiglia) dai cortigiani mediatici di un Principe corrotto e corruttore, che ci fa considerare “normale che un capo del governo dichiari che compra i voti dei parlamentari, anzi che è obbligato a ripagarli da precisi accordi scritti”. Ecco: se tutto questo è ormai considerato normale prassi “politica” significa che la banalità del male ha avuto la meglio sulla giustizia, cioè su quel valore assoluto in mancanza del quale la vita stessa, come dicevano Socrate e Kant, perde il suo senso e il suo valore. Ma come ritrovare, come ridare senso e valore a una vita alienatasi nel disprezzo di se stessa, nell’indifferenza per la bellezza, per la conoscenza, per l’amore vero, per tutto quello che un tempo si chiamava “virtù” e che oggi possiamo chiamare “dovere”? L’arduo cammino indicato dalla De Monticelli per ridare valore alla vita è quello che porta dall’età dei diritti all’età dei doveri, cammino già tentato – ma interrotto dalla morte precoce nel sanatorio di Ashford – da Simone Weil, come testimonia tutta la sua vita e, in particolare, la sua ultima opera, L’enracinement (1943). “La sua prima parte è un Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano. Questa prima parte è esattamente uno studio della giustizia nel senso di Kant: ciò la cui assenza dalla Città provoca  la perdita di valore della vita delle persone. E’ un’analisi serrata precisamente di quell’esperienza di svalorizzazione radicale della nostra vita che noi conosciamo bene, e che equivale a una specie di morte interiore”. Per la Weil, dunque, il dovere precede e fonda il diritto, il dovere (l’obbligo) è assoluto e categorico, mentre il diritto è relativo e ipotetico, strumentale a un fine, non fine egli stesso. Il dovere è tale anche se non è realizzato, in quanto valore in sé è un dover essere ideale, che vale sempre e comunque in quanto “trascendente” e non contingente. Ora possiamo comprendere meglio l’iscrizione di “colore oscuro” che leggiamo sulla porta dell’Inferno, e soprattutto il verso “Giustizia mosse il mio alto fattore”: qui c’è il senso del passaggio dal relativo all’assoluto. “E Dante ci indirizza subito verso il nome di questo assoluto: Giustizia. Giustizia è l’assoluto di un’Idea, cioè di un valore, di un Dover Essere assoluto, indipendente da ogni considerazione di fattibilità, utilità, interesse, conseguenze ecc.”. A questo punto la De Monticelli richiama l’invettiva di San Pietro contro i papi usurpatori, e ricorda che tutto l’ottavo cielo “diventa rosso, rosso di vergogna e di sdegno…”. La vergogna e lo sdegno di cui sono incapaci quelli che Dante definisce ignavi (che ‘nvidiosi son d’ogni altra sorte”) e che oggi si chiamano “terzisti”, genia verso la quale l’autrice esprime tutto il suo “dantesco” disprezzo: “Sono quelli che precisamente non vogliono distinguere il giusto dall’ingiusto, la vittima dal carnefice. Quelli che chiamano entrambi ‘estremisti’. Ce ne erano a bizzeffe durante i casi Welby, Englaro. Favoleggiavano di un partito estremista della vita e di un partito estremista della morte. Ce ne sono oggi, a predicare un moderato accordo con chi ha elevato il cinismo ad arte di governo…”.

No, il compromesso e l’accomodamento hanno poco a che vedere con la bellezza della giustizia come valore assoluto, il cui valore è del tutto ignoto alla “bella sofista” (inconsapevole) che dichiara senza arrossire che “Per avere successo devi passare sopra i cadaveri degli altri, ed è giusto che sia così…”.

“Giusto per chi? Anzi, giusto perché?” Comincerebbe con il chiederle Socrate…

Fulvio Sguerso

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