La Grecia in terapia intensiva

  La Grecia in terapia intensiva 

  La Grecia in terapia intensiva 

È ormai chiaro che la Grecia è sottoposta da un paio d’anni ad un accanimento terapeutico decisamente più a rischio di una guarigione autonoma. I medici che l’attorniano sono in realtà le sue sanguisughe, tutti tesi a prelevarle le ultime gocce di sangue per salvare i propri interessi, le proprie banche.

 

Oggi, dopo averla caricata di legna verde -come l’obbligo di acquistare armi francesi e tedesche- insieme a condizioni economiche da fame, freddo e stridor di denti, annunciano soddisfatti che anche qualora fallisse non sarebbe poi un gran disastro: non per la Grecia, ma per i loro affari.

Eppure, la storia insegna che la cura migliore, in casi simili, è molto più prossima alla selezione naturale che allo stato sociale: chi deve fallire fallisca. Tanto prima tanto meglio.

C’è un movimento di pensiero, trasversale alle diverse convinzioni politiche e sociali, che considera quello greco come un caso da manuale, poiché quando le nazioni, dopo anni di gestioni fallimentari, non vogliono o non possono pagarne il prezzo, si trascinano come zombie per tempi indefiniti; se, al contrario, vanno incontro alla conclusione naturale, dopo un periodo più o meno lungo di turbolenza, rinascono a nuova vita.

 

 

 

Vorrei qui far presente che, con la fine delle ideologie e delle loro chiare ricette, il mondo attuale non è più “né carne né pesce”: né comunista né capitalista. Sulla fine del comunismo reale, a parte qualche nazione emarginata, sono tutti d’accordo; mentre il mondo occidentale (più il Giappone) professa di essere ancora capitalista, ma si tratta ormai di un capitalismo residuale, come lo è il comunismo cinese; ed entrambi vanno confondendosi l’uno nell’altro, in un appiattimento delle differenze.

L’essenza del capitalismo, infatti, è la libera concorrenza, mentre viviamo in un mondo in cui: a livello aziendale, dominano cartelli economici che impongono prezzi di monopolio -o di oligopolio- di stampo sovietico; a livello finanziario, si fanno salvataggi di banche e assicurazioni con i soldi dei contribuenti, in quanto too big to fail; e a livello di Stati, se stanno per asfissiare, si pratica loro la respirazione artificiale, anche se è chiaro che il loro destino sarà il default. Che fine ha fatto dunque il capitalismo duro e puro?

Guardiamo ora più da vicino l’affaire greco, con l’ausilio di uno stimolante articolo di Eric Fry su The Daily Reckoning. Cominciamo dal grafico qui sopra, che indica il numero di default sovrani in Europa a partire dal 1800. L’Italia spicca, a fianco dell’Olanda, come la più virtuosa: un solo default! Mentre la Grecia è passata attraverso cinque fallimenti dal 1821, anno della sua dichiarazione d’indipendenza, passando circa la metà di questi quasi due secoli in stato fallimentare. Nonostante ciò, è riuscita a racimolare i fondi per posare un dignitoso sistema ferroviario e stradale, e arrivare infine alle Olimpiadi del 2004 con uno sforzo tale, tuttavia, da incrinare drammaticamente la sua economia.

 

 

Ora Fry si chiede perché non si lascia fallire il debitore insolvente, lasciando che un sano capitalismo faccia il suo corso, invece di torturarlo con continue iniezioni di soldi, condizionati da richieste di comportamenti insostenibili. L’economista Joseph Schumpeter chiama “distruzione creativa” il lasciare che la natura faccia il suo corso, e i fatti gli danno ragione, come vedremo tra poco. Questo atteggiamento è valso sino all’avvento del Welfare State, che si è esteso dagli individui alle aziende e alle nazioni, anche se le condizioni per durare sono venute meno nel giro di soli pochi decenni.

 

L’articolo esamina come test i diversi destini di due nazioni che, nel 1990, dovettero entrambe affrontare una profonda crisi finanziaria. Una, il Giappone, entrò in una fase di stagnazione che dura tuttora; l’altra, il Brasile, scoppia di salute. Vedi il grafico qui appresso, con l’indice Nikkei (Giappone) in rosso e il Bovespa (Brasile) in blu.

 

Il motivo? Il Giappone applicò la cura del medico pietoso, coccolando a non finire banche ed aziende insolventi con protratti salvataggi (e ha oggi il debito pubblico più alto del mondo, al 230% del PIL). Il Brasile, al contrario, ricorse alla “distruzione creativa”. Va detto che il differente comportamento fu una scelta per il Giappone, che aveva le risorse per “viziare” i suoi pazienti; mentre al Brasile quelle risorse mancavano e fu una non scelta, insomma una decisione obbligata. Sembra che chi è più temprato per le cure drastiche riesca a superare le crisi e tornare in pista, mentre chi adotta comportamenti troppo pietosi scivola lungo una china di cui non vede il fondo. “Chi strappa decisamente la benda sulla cancrena alla fine se la cava; chi usa invece la morfina ne diventa dipendente”, dice Fry senza mezzi termini. Come il primo grafico insegna, il Brasile è tutt’altro che un caso isolato. Per restare solo negli ultimi 20 anni, altri prominenti esempi sono la Russia, il Cile, l’Indonesia e, ultima, l’Islanda; tutte cadute e risorte con le proprie forze. Si veda nel 3° grafico l’agonia greca (in rosso) vs. la vigorosa ripresa islandese.

 

       [Il GDP, Gross Domestic Product, equivale al nostro PIL]

 

Ma i falsi medici, in primis l’asse franco-tedesco, non vogliono andarsene dal capezzale greco, per loro esclusivi interessi; e la Merkel finge persino di impietosirsi, dicendo che il 20, domani, concederà l’ulteriore dose di morfina alla Grecia.

Ultima considerazione: quando si dice Grecia si dice la sua classe politica, responsabile del dissesto, ma non si vuol dire greci: a loro è stato negato il referendum sull’uscita dall’euro e dall’UE; e vedremo se le elezioni promesse per aprile si riusciranno a tenere.

 

Chi più potrà parlare di democrazia in questa Europa, che boicotta la volontà popolare?

 

 

 

Marco Giacinto Pellifroni                                               19 febbraio 2012

 

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