La focaccia ci salverà!

La focaccia ci salverà!
Negli ultimi anni i panifici artigianali hanno accusato l’invasione del pane surgelato

La focaccia ci salverà

 Un tempo pensavo anch’io, come molti, che i panettieri avessero un bel margine di guadagno. Per quel che costa la farina, il pane lo si vendeva sempre ad un prezzo piuttosto consistente. Poi ho cominciato a fare il garzone di un fornaio, e mi sono ricreduto.

Si, la farina non costa poi così cara, ed è vero che da un chilo di farina si produce più di un chilo di pane, ma il lavoro è davvero molto pesante, tanto per gli orari, quanto per la fretta e la mole di prodotto pronto al consumo all’ora convenuta.


 

Tanto più in Liguria, che siamo affezionati alla focaccia per colazione, non potremmo mai sfornarla alle undici del mattino… La focaccia, buona, croccante dal cuore morbido, giustamente oliata e lucida nonché salata, deve essere pronta per le sei, anche prima se possibile.

Non c’è giorno e non c’è festa in cui non si mangi pane. Anzi: proprio durante le feste se ne consuma di più. Come se non bastasse il mercato si è complicato, siamo diventati tutti sofistici (come direbbe mia nonna) e vogliamo cento pani diversi, con cento farine diverse e cento lievitazioni diverse. Nel complesso: una babele di prodotti e metodi di lavoro che assorbono tempo e risorse al poco tempo a disposizione.

Come se non bastasse il consumo di pane è crollato. Nei primi decenni del secolo scorso il pane era al centro dell’alimentazione, raggiungendo il chilo, addirittura chilo e mezzo procapite al giorno: nero e composto dalle farine disponibili per i poveri; bianco raffinato per i ricchi. Ma pur sempre pane.

Oggi siamo forse sui duecento, trecento grammi al giorno procapite, considerato che a colazione (i pochi che la fanno) preferiscono prodotti da forno industriali (biscotti e fette biscottate) e pranzo spesso si mangia fuori casa, in mensa o al bar, dove molto spesso il prodotto più comodo ed economico è di nuovo quello industriale (toast, pane preconfezionato).


La produzione si riduce, i costi di gestione aumentano, il lavoro si complica. Resta comunque un lavoro degnamente retribuito o onorevole, cosa non da poco quest’ultima, in tempi in cui pare che appresso a un mensile si possa accettare qualsiasi condizione.

Negli ultimi anni i panifici artigianali hanno accusato l’invasione del pane surgelato. Sempre più spesso i supermercati propongono prodotti accattivanti e “appena sfornati” ad un prezzo stupefacente. Ho avuto anche occasione di assaggiare alcuni di questi prodotti, e devo dire che non sono sgradevoli al gusto. Anzi: essendo un prodotto industriale è evidente che chi si prende cura di seguire il processo produttivo deve rispondere a degli standard precisi di colore, croccantezza, gusto, fragranza. A farla breve, si trovano al supermercato certi panini a meno di due euro al chilo, mentre in panetteria (in media) troviamo il pane a quattro euro al chilo.

Si tratta del cento per cento di differenza… Come dire che se dovessimo scegliere tra due distributori di benzina, e uno la vendesse a due euro al litro, e l’altro a uno, non ci sarebbe niente da dire: tutti a far benzina da quello da un euro.

Subentra qui la perfidia di alcuni cronisti, che non potendo dire peste e corna del pane industriale (per evidenti motivi di responsabilità penale) fanno intendere che tutto sommato “quel pane lì” non è poi così buono, così sano. Che la farina verrebbe da lande detestabili, che subirebbe processi detestabili, che si tratterebbe infine di un alimento sicuramente latore di malattie.


Non ci credo. Ovvero: credo senz’altro che il prodotto industriale alimentare (TUTTI i prodotti industriali alimentari) sono igienicamente perfetti, di una qualità misurata e ripetuta, verificati regolarmente dal punto di vista batterico e tossicologico. Ma sono certo altrettanto che un prodotto industriale non potrà mai sostituire un prodotto famigliare, mentre quello artigianale si. Spiego meglio: il massimo dell’alimento si ottiene coltivando o allevando le materie prime vicino a casa nostra, lavorarle nella nostra cucina, cuocerle sulla nostra stufa, nel nostro forno, mangiarle prima possibile. Il fine della gastronomia casalinga è sfamare la famiglia con piacere.

La produzione industriale trova le materie prime più convenienti, anche lontanissime (trasporto, conservazione, logistica, antimicotici, antibatterici), le lavora nelle industrie dove energia e lavoro costano meno (sfruttamento della mano d’opera, utilizzo fonti non rinnovabili) e le trasporta, semilavorate (refrigeramento, surgelamento, sottovuoto) nei posti dove si possono vendere a un prezzo migliore. Il fine della gastronomia industriale è il profitto.

Non è una questione di pane. Non solo di pane. Tutti i prodotti che finiscono nella nostra dispensa, nel nostro frigo, sottostanno a queste regole non scritte, ma imprescindibili.

Devo far notare che il pane era rimasto l’ultimo baluardo, l’ultimo prodotto legato alla produzione locale. Infatti, in ogni paese, in ogni borgata, si mangia il pane secondo le proprie consuetudini. Solo a spostarsi di pochi chilometri notiamo come ognuno conosca e consumi un certo tipo di pane: grisse, rosette, pasta dura, filoni, biove… Ogni paese il suo panettiere storico, al contrario di altri specialisti, tutti ormai scomparsi (o quasi), fagocitati dalla logica del supermercato: tutto, a tutte le stagioni, ad un prezzo accessibile.


La baguette, buonissima e croccante, è quella che ha spianato questi gusti: va bene a tutti, è croccante e morbida, comoda da conservare.

La focaccia ci sta salvando: è un alimento caratteristico, esageratamente buono, magari un po’ troppo condito, ma tutto nostro, ligure, che non possiamo demandare completamente all’industria. Per ora (e non sappiamo per quanto ancora) la nostra focaccia si può fare solo sul posto: ai voglia a cuocerla a Roncofritto e trasportarla per venti ore su veloci camion. Niente da fare: uno ne fa a meno della focaccia. Arriveranno anche lì, ma per ora no. Ci prova il noto mugnaio Banderas, mi dicono (ma se è un mugnaio, perché fa il fornaio?) con certe “focaccelle” morbide, che da noi sono gradite come il pesto fatto salvia e cipolla…

Il bello della focaccia è infatti che conserva quella caratteristica locale che il pane sta perdendo, proprio a causa di un mercato sempre più aggressivo e capace di copiare l’estetica dell’artigianato.

La focaccia di Carcare non è più buona (o meno) di quella di Cengio, di Altare o di Savona. È solamente diversa, e merita il rispetto delle altre focacce.

Teniamo sempre a mente che il prodotto artigianale non è il prodotto industriale. Teniamo a mente che la differenza di prezzo è motivata. Ricordiamoci che non siamo motori alimentati dalla benzina, ma organismi complessi che vivono in un mondo complesso.

Pare incredibile: ma la focaccia ci salverà!

 

Alessandro Marenco

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