La felicità dei moderni

VARIAZIONI SUL TEMA DELLA FELICITA’
 
II. La felicità dei moderni
 

VARIAZIONI SUL TEMA DELLA FELICITA’
 
II. La felicità dei moderni

In che cosa il concetto di felicità dei moderni si differenzia da quello degli antichi?  E’ possibile trovare un denominatore comune alla concezione moderna della vita felice? In altri termini in che cosa e sotto quali aspetti, pur nella comune appartenenza al genere umano, i moderni sono diversi dagli antich? Che cosa è cambiato per l’umanità dalla fine del Medioevo  in poi? Perché non è più la stessa  dell’età di Pericle o di Cesare Augusto o di Costantino?

La felicità nominata nella “Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America”, del 4 luglio 1776, è uguale a quella di cui tratta Aristotele nell’ Etica nicomachea o assume un significato nuovo e specifico nel contesto storico e culturale di fine Settecento?  In quella  Dichiarazione, redatta dall’avvocato   Thomas Jefferson, formatosi sui testi di Francesco Bacone, Isaac Newton e John Locke, vengono enunciate alcune verità “di per se stesse evidenti”, che non erano tali né per gli antichi né per gli uomini dipendenti da altri uomini che formavano la struttura gerarchica della società feudale così bene descritta da Marc Bloch, né per la nobiltà parassitaria dell’Ancien Régime, e cioè “ che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”. Una enunciazione di questo genere sarebbe stata impensabile prima del giusnaturalismo di Ugo Grozio (De jure belli ac pacis, 1625), prima della rivoluzione scientifica seicentesca e senza la dottrina protestante dei puritani Quaccheri, molto diffusa in America,  del  ritorno all’annuncio evangelico della fratellanza universale tra tutti gli uomini in quanto  creature di un unico Dio-Padre, come ai primi tempi del cristianesimo. Dopo l’eudemonismo caratterizzante l’etica greco-romana, e dopo i mille  anni di felicità promessa sub condicione oltre la vita o come evasione fantastica nelle isole Fortunate o nel regno del Prete Gianni o nei canti goliardici del Medioevo, il  tema della felicità terrestre viene ripreso in grande stile nel XVIII secolo, cosiddetto  “dei Lumi” (e delle rivoluzioni), ma nella prospettiva  giuridica universalistica del diritto alla felicità per tutti. E’ significativo l’incipit della voce “Felicità” (Bonheur) nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert: “Tutti gli uomini concordano nel desiderio di essere felici. La natura ha reso legge, per tutti noi, la nostra personale felicità. Tutto ciò che non è felicità ci è estraneo: essa soltanto ha un potere rilevante sul nostro cuore”. E’ evidente la consonanza con il preambolo della Dichiarazione d’indipendeza americana: tutti gli uomini, nessuno escluso (in teoria, perché sappiamo che in pratica le esclusioni c’erano, ci sono e, se il mondo non cambia, ci saranno sempre; ma è importante l’affermazione del principio filosofico-giuridico) sono detentori fin dalla nascita di diritti inalienabili, tra questi anche quello di ricercare la propria felicità (naturalmente senza danneggiare il prossimo). Questa idea che a tutti gli uomini debba essere garantita la propria parte di felicità si affaccia anche nel preambolo della “Déclaration des droits de l’homme e du citoyen” emanata il 26 agosto 1789 dall’Assemblea Nazionale costituente. Val la pena di riportarlo per intero: “I rappresentanti del popolo francese, costituiti in Assemblea Nazionale, comprendono che l’ignoranza, l’oblio o la noncuranza dei diritti dell’uomo sono le sole sorgenti delle pubbliche calamità e della corruzione dei governi, decisero di esporre in una dichiarazione solenne i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa dichiarazione, sempre presente a tutti i membri del corpo sociale, ricordi ad essi continuamente i loro diritti e doveri, affinché gli atti del potere legislativo e dell’esecutivo, potendo essere ad ogni istante paragonato con il fine di ogni politica istituzione, siano più rispettati; e i reclami dei cittadini, fondati d’ora innanzi su semplici e incontestabili principi, giovino al mantenimento della Costituzione e alla felicità di tutti”.

Questa insistenza sul diritto di tutti alla felicità è rivelativa della convinzione dei costituenti dell’Ottantanove che la felicità non dovesse rimanere un privilegio di pochi fortunati o un semplice stato d’animo individuale ma dovesse considerarsi un bene pubblico – e quasi un dovere – come la salute, garantito dalle istituzioni politiche, cioè dallo Stato. Malgrado la solenne affermazione dell’uguaglianza di tutti gli uomni (le donne sono ancora considerate inferiori) di fronte alla legge, le distinzioni sociali non possono essere abolite per decreto, ma non sarebbe nemmeno conveniente abolirle, in quanto, come è detto nell’articolo 1 “le distinzioni sociali non possono che essere fondate sull’utilità comune”.

Come dire: l’uguaglianza assoluta è una chimera, e i talenti naturali non sono equamente distribuiti, ma non per questo i più dotati hanno il diritto di sfruttare e umiliare i meno dotati, in una Costituzione ideale, secondo il progetto elaborato dall’abate Sieyès, gli uomini dovrebbero considerarsi reciprocamente strumenti di felicità, e non ostacoli al raggiungimento della medesima. Ma un conto è l’utopia, un altro la realtà: tra i diritti naturali inalienabili figura  anche la  proprietà  privata; rimane ad ogni modo fermo il principio dell’uguaglianza dei diritti e il convincimento che L’objet de l’union social est le bonheur des associés. Questa idea viene riaffermata  con solennità da Robespierre nel preambolo alla Costituzione dell’anno I della Repubblica, il 24 giugno 1793, il cui primo articolo stabilisce che il fine della società è  le bonheur commun. Purtroppo sappiamo quanta infelicità individuale è stata generata con l’intenzione di ottenere la felicità generale con qualunque mezzo e a qualunque prezzo: “l’Europa sappia che non volete più un infelice né un oppressore sul territorio francese; che questo esempio produca i suoi frutti sulla terra; che vi diffonda l’amore per le virtù e la felicità. La felicità è un’idea nuova in Europa” (Sain-Just, Discorso davanti all’Assemblea, 1794);  ma una felicità pubblica imposta anche con il Terrore non è una contraddizione in termini? Non per niente nella Costituzione dell’anno III del 22 agosto 1795, quindi dopo Termidoro, non si fa più parola del bonheur commun e i diritti dell’uomo en société richiamati nel nuovo articolo I sono soltanto la libertà, l’uguaglianza, la sicurazza e la proprietà privata.

Nel suo discorso Sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, del 1819, Benjamin Constant   condanna l’interventismo statale e sociale delle repubbliche antiche e del Comitato di Salute pubblica nella sfera privata, rivendica il diritto alla fruizione individuale dei propri beni ed esalta il potere del danaro, destinato a dominare sempre più anche sul potere politico. In questo discorso la felicità generale e collettiva è del tutto assente. E’ chiaro che per  Constant, come per tutti i liberali, l’infelicità  non si può abolire per decreto e che la “felicità generale” e il nuovo paradiso terrestre sognato dai rivoluzionari   è meglio  rimangano  nelle fantasie letterarie di utopisti come Cabet o Fourier o Saint-Simon, considerati i disastri e le tragedie provocate  dai tentativi di metterle in atto e di imporle con la forza.  Il problema però rimane: è possibile una vera felicità in un mondo in cui prevale l’infelicità? La felicità di pochi privilegiati non si basa forse sull’infelicità del maggior numero? Sarà mai possibile, almeno, invertire il rapporto tra i felici pochi e gli infelici molti?  E’ proprio quello a cui mirano  J. Bentham (1748- 1832) e il suo allievo  J. S. Mill (1806- 1873), i principali esponenti   moderni dell’utilitarismo, la cui tesi fondamentale è che l’utilità è il criterio di ogni agire umano e insieme  il fondamento della felicità e del bene inteso come “star bene” , come massimizzazione del piacere e minimizzazione del dolore, questa massimizzazione, come dice la parola stessa, comporta un calcolo quantitativo circa l’intensità, la durata, la certezza, la vicinanza, la fecondità, la purezza e l’estensione  dei piaceri, ma non distingue tra piaceri più o meno degni; l’utilità comunque non sarebbe  tale se non fosse sociale; la formula di Bentham è: “la massima felicità  per il maggior  numero di persone”. Anche per J. S. Mill vale il criterio del massimo benessere possibile distribuito tra il maggior numero di persone, ma nel benessere di ciascuno è compreso il piacere altruistico e di livello superiore derivante dalla felicità degli altri. Come si vede, il calcolo dei piaceri per Mill si basa su   un criterio più qualitativo che quantitativo: ci sono piaceri migliori di altri, e quindi chi è abituato a ricercare i piaceri più elevati è anche più idoneo a educare i suoi simili e a stabilire quali piaceri siano più adatti alla felicità generale. Una morale antitetica all’utilitarismo è quella kantiana, rigorosamente basata sul “tu devi” e non sul “mi piace”. Ma sulla Fondazione della metafisica del costumi di Immanuel Kant discorreremo magari in un prossimo incontro al “Caffè filosofico” di Albenga (o di un’altra polis in cui ci siano ancora cittadini disposti e interessati a dialogare sui massimi o sui minimi sistemi…)

FULVIO SGUERSO

 

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