La città

LA CITTA’ E’ PER I CITTADINI O
I CITTADINI SONO PER LA CITTA’?

LA CITTA’ E’ PER I CITTADINI O
 I CITTADINI SONO PER LA CITTA’?
 

La questione posta dal  titolo non implica un’alternativa secca, anzi, in entrambi i casi, possiamo rispondere: così dovrebbe essere. Basta intendersi sul significato che diamo alla parola “città”. E’ chiaro, infatti, che se per “città” intendiamo l’insieme degli edifici, delle vie e delle piazze che la compongono, allora non c’è dubbio che debba essere al servizio dei cittadini; ma se invece intendiamo la parola “città” come l’insieme dei cittadini stessi e delle leggi che li costituiscono in una società ordinata, libera e civile, allora si può dire che i cittadini, mentre si servono della città anche la servono.

Diversa sarebbe la risposa a una domanda come: è concepibile una città senza giustizia? Oppure: viviamo in una città, cioè in una società perfetta? E se non lo è quali sono le cause e quali i rimedi? Sono le domande che si pone Platone nella Repubblica e, su di un altro piano, Sant’Agostino.  Lasciamo stare, per il momento, la Repubblica di Platone o la Civitas dei di Sant’Agostino, pensiamo soltanto alla nostra vita quotidiana e domandiamoci: è questa la città in cui possiamo esprimere al meglio la nostra essenza di esseri, o meglio, secondo la definizione aristotelica, di animali politici cioè di “cittadini”? Lasciamo in sospeso ora anche questa domanda, e cerchiamo di tracciare brevemente il quadro della situazione globale: il WorldWatch Institute di Washington ha intitolato il suo rapporto annuale sullo stato del mondo nel 2007 “Il nostro futuro urbano”; in questo rapporto si fa notare che le città coprono appena lo zero virgola quattro per cento della superficie terrestre, ma consumano risorse in modo sproporzionato rispetto ai bisogni reali e producono la maggior parte dei gas –serra che inquinano l’atmosfera. La crescita urbana non è una novità, ma le cifre fanno impressione: nell’ultima metà secolo la popolazione urbana è cresciuta di quasi quatto volte, da 732 milioni nel 1950 a oltre 3, 2 miliardi nel 2006. Oggi l’Africa ha 350 milioni di abitanti urbani, più di Canada e Stati Uniti insieme. Inoltre si calcola che circa 60 milioni di persone si aggiungono ogni anno agli abitanti delle città mondiali.

Ora l’aumento della popolazione urbana significa anche aumento della povertà urbana. Le città crescono soprattutto per l’arrivo di persone  in fuga dalla povertà e alla ricerca di una vita migliore. Sennonché queste persone vanno per lo più a ingrossare le zone più povere delle città, dove mancano o sono insufficienti i servizi essenziali come acqua potabile e fognature (per non parlare della luce, dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria). Da questo rapporto si deduce che tra le priorità della politica globale c’è quella di affrontare immediatamente l’urbanizzazione della povertà, aumentando gli investimenti in istruzione, assistenza sanitaria e infrastrutture.

Già nella Carta di Aalborg (Danimarca), del 1994, si denuncia la pericolosità del nostro stile di vita, dal momento che oggi l’ottanta per cento della popolazione europea vive in aree urbane, e si constata che gli attuali livelli di sfruttamento delle risorse naturali nei paesi industrializzati non possono essere raggiunti dall’intera popolazione mondiale, tanto meno dalle future generazioni, senza distruggere il capitale naturale. Dunque, di che cosa abbiamo veramente bisogno? Di altre colate di cemento? Annota Ermanno Rea nel suo libro-denuncia a futura memoria La fabbrica dell’obbedienza (2011): “In un libro a più mani (Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve, Giuseppe Salvaggiuolo, Ferruccio Sansa) intitolato La colata, edito da Chiarelettere, la ‘fotografia’ del grande ininterrotto massacro del paesaggio italiano mette i brividi. Mi limito a un’unica citazione. A pagina 7 si legge: ‘Secondo l’osservatorio nazionale sui consumi del suolo, in Lombardia tra il 1999 e il 2005 sono spariti 26.700 ettari di terreni agricoli, come se in sei anni fossero emerse dal nulla cinque città come Brescia”  Forse è il caso di fermarci a riflettere un momento sul nostro modello di sviluppo e sulle nostre responsabilità verso le generazioni future: oggi l’uomo, afferma Hans Jonas nel Principio responsabilità, è diventato più pericoloso di quanto un tempo la natura lo fosse per lui, così che alle tante fratture sociali che ostacolano il cammino verso un’umanità riconciliata si è aggiunta la contraddizione antagonistica tra gli uomini di oggi e quelli di domani. Sempre che ce ne siano ancora.

Fulvio Sguerso

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