IPNOSI

Dopo la tragica morte del giovane George Kenney, suicidatosi il giorno successivo ad una seduta di  ipnosi
PUO’ UCCIDERE L’IPNOSI?

PUO’ UCCIDERE L’IPNOSI?

 

E’ la domanda che negli States molti studiosi si rivolgono dopo la tragica morte del giovane George Kenney, suicidatosi il giorno successivo ad una seduta di  ipnosi cui era stato sottoposto dal Preside della sua scuola.

Pur non sussistendo alcun legame diretto apparente tra il drammatico gesto e la terapia ipnotica, il dubbio sembra avvelenare il mondo scientifico, diviso tra chi elogia la procedura e chi invita alla prudenza. Cerchiamo di fare un minimo di chiarezza per ciò che attiene all’applicazione dell’ipnosi come terapia nel nostro Paese. Innanzitutto, chi è abilitato ad esercitare l’ipnosi-terapia, altrimenti conosciuta come ipnoterapia? Risposta concreta: un professionista laureato in Psicologia Clinica od un Laureato in Medicina con relativa specializzazione, da sottolineare che un professionista serio deve necessariamente essersi sottoposto egli stesso ad un percorso di ipnoterapia prima di poter esercitare questa metodologia sui propri pazienti.
Ciò per sgomberare il campo da equivoci e per tutelare i possibili pazienti dall’affidarsi a personaggi che non hanno titolo (e quindi competenza) per applicare una tecnica che presenta anche alcuni rischi. Quali, in particolare? Soprattutto di slatentizzare problematiche sino ad allora silenti, o di contribuire a portare a livello cosciente ricordi e/o percezioni rimaste inconsce. Se il paziente non è affidato alle cure di uno specialista ben preparato a riconoscere i segnali di allarme derivanti da traumi che riaffiorano, i pericoli possono essere anche gravi. Nel caso dello studente statunitense, va sottolineato come il suo terapeuta fosse in possesso di tutti i requisiti di legge per applicare l’ipnoterapia, per cui non è da escludersi il malaugurato verificarsi di una triste coincidenza.
Nel nostro Paese non sempre ai pazienti vengono adeguatamente esplicitati i rischi ed i benefici di un trattamento sulla Persona, sia esso di natura medicale che psicologica. Il cosiddetto consenso informato si riduce sovente in una mera formalità burocratica in cui si chiede al paziente di apporre una firma sotto uno scritto.

Forte è ancora, nella nostra cultura, il potere suggestivo dell’Autorità, incarnata via via da diverse figure professionali. Molti soggetti restano in condizione di soggezione di fronte a chi rappresenta l’autorità, non chiedono o, se chiedono, si accontentano di risposte anche non ben articolate. Ciascuno di noi possiede il sacrosanto diritto a ricevere esaurienti e chiare informazioni su qualsiasi tipo di terapia cui possa essere sottoposto, col diritto di rifiutare ciò che non si ritiene giusto.

 Nel Counseling, per citare la mia diretta esperienza, si è deontologicamente obbligati a spiegare questo tipo di approccio alla Persona, spiegando chiaramente che trattasi di intervento socio-educativo di tipo relazionale senza alcun tipo di implicazione psicologica. Nel Counseling nulla viene imposto, si rispettano i tempi dell’utente, si ascolta e si supporta. Nessuna diagnosi (ovviamente: il counselor non è medico e non è psicologo), rapporto alla pari, massima trasparenza. Può sembrare poco rispetto ad altre tipologie d’intervento, in realtà non è così. Culturalmente siamo abituati a ricercare soluzioni e risposte più che ad essere sostenuti nell’interrogarci e nel trovare autonomamente le “nostre” risposte, e ciò rappresenta un deficit alla libertà individuale. Tornando all’ipnosi, personalmente credo che come tutti gli interventi psicologici abbia grandi potenzialità, ma anche molti punti oscuri, essenziale per chi opta per questa via rivolgersi ad uno specialista e non ad un ciarlatano (tanti ve ne sono) ed essere convinti dell’utilità per la propria persona di questa metodologia.

Giovanna Rezzoagli Ganci

 

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