Insulto, quindi sono

INSULTO, DUNQUE SONO

Va subito detto che i lazzi scurrili, il turpiloquio ingiurioso, il dileggio volgare nei confronti degli avversari politici non sono un’esclusiva di questa epoca nichilista 

INSULTO, DUNQUE SONO

 Va subito detto che i lazzi scurrili, il turpiloquio ingiurioso, il dileggio volgare nei confronti degli avversari politici (o del nemico contro cui si combatte in guerra, o anche, in tempo di pace, dei tifosi di squadre di calcio diverse dalla nostra) non sono un’esclusiva di questa epoca nichilista in cui gli unici “valori” dominanti, al netto della retorica sul rispetto reciproco e sulla dignità di ogni essere umano, sono  il danaro e il potere.


Basti ricordare l’uso del turpiloquio nella satira di Aristofane, i graffiti osceni sui muri di Pompei o le “pasquinate” nella Roma del Papa Re, o le invettive di Marat contro i (presunti) falsi  rivoluzionari come La Fayette e Mirabau, o quelle dannunziane contro il Giolitti neutralista o, si parva licet, i violenti attacchi alla magistratura  da parte dell’inquisito  Silvio Berlusconi. L’attuale turpiloquio in politica è diventato uno stile da esibire con orgoglio per merito – diamo a ciascuno quello che gli spetta – da Umberto Bossi, subito seguito (e superato) dai colleghi di partito Mario Borghezio, Gianluca Buonanno e Roberto Calderoli (l’autore della legge elettorale che lui stesso ha definito  “una porcata” e che si è distinto per il suo fair play con gli islamici e nei confronti della ex ministra di colore Cécile Kyenge).  Non v’è dubbio che la Lega Nord, con il suo vantato “celodurismo” , è il precedente più significativo del “vaffanculismo”  coniato dall’attore comico Beppe Grillo, sceso anch’egli – o, se preferite, salito – in politica, o meglio, in antipolitica, che tanto strepitoso successo ha raccolto per le piazze reali e virtuali di un Paese in spasmodica attesa di un leader che finalmente chiamasse le cose, pardon, gli attributi, con il loro nome, e fosse in grado di parlare non solo al cuore e alla testa ma anche al basso ventre di un popolo nauseato dal politicamente corretto e affamato di espressioni magari un poco rozze ma comprensibili da tutti: democrazia diretta, scelta dei candidati in rete, reddito di cittadinanza, i partititi sono morti, zombie,  salme, morti che camminano, tutti a casa, solo noi i puri e gli onesti, PD = PD meno L, giornali e giornalisti asserviti ai poteri forti, il parlamento  una fogna, la Boldrini  incompetente e faziosa (per tacer di altri epiteti irriferibili), e, cronaca di queste settimane, i fautori del sì  al referendum costituzionale  equiparati a  serial killer, Renzi a una scrofa ferita, e via di questo passo…

  

Quando e dove si fermerà questo climax ascendente? Certo è che quando s’imbocca la via dell’insulto sistematico si rischia la banalizzazione del medesimo e quindi la necessità di spararle sempre più grosse per scandalizzare i moderati  ben e malpensanti, e mandare in visibilio i fedeli seguaci  (Di Maio: perché scusarsi? E’ il nostro linguaggio, e non vedo perché dovremmo cambiare stile, dal momento che piace tanto ai giovani e ci fa riconoscere, grazie alla rete, in tutto il mondo come gente che non ha peli sulla lingua.. .”. Nella lunga estate che ci siamo lasciati alle spalle il politicamente scorretto ha in un certo senso superato se stesso: penso alla bambola gonfiabile presentata  da Salvini  a una platea di leghisti non esattamente sobri come la sosia della Boldrini, alla vignetta del “Fatto quotidiano”  sulla ministra Maria Elena Boschi, disegnata in abito succinto e sotto, come didascalia, la scritta “Lo Stato delle cosce”, a Virginia Raggi definita dall’estroso e intemperante presidente della regione Campania Vincenzo De Luca “Una bambola, bambolina imbambolata”, definizione che  appare quasi un complimento se paragonata all’ “infame che dovrebbe  essere uccisa” espressione rivolta in un fuori onda, sempre dall’ineffabile De Luca, alla presidente della commissione antimafia Rosy Bindi.


Quest’ultima lepidezza ci introduce al tema degli insulti sessisti che imperversano in rete, una delle cui principali vittime è ancora Laura Boldrini, la quale, nella giornata mondiale per la difesa delle donne (il 25 novembre) ha deciso di pubblicare i nomi di chi la aggredisce verbalmente sul web e i relativi insulti osceni su cui il tacere è bello. Ma perché pubblicare i nomi? “E’ un gesto pensato – risponde la presidente della Camera alla giornalista de La Stampa Francesca Sforza – in nome e per conto di tutte quelle donne che non hanno la possibilità o non si sentono di farlo. Ho voluto prendere solo alcuni dei commenti, perché tutti non c’entravano (nella pagina Fb)…Sono commenti disgustosi, violenti, quasi tutti a sfondo sessuale, dove chi scrive non motiva un dissenso né esprime una critica, ma butta fuori odio e ferocia”. Laura Boldrini ha inteso richiamare ciascuno alla propria responsabilità e a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni. Intenzione lodevole ma, temo, destinata a rimanere tale; la personalità di chi si diverte a scrivere oscenità più o meno sgrammaticate e si serve della libertà che la Rete offre a tutti senza distinguere tra maturi e immaturi, pensanti e decerebrati, spiritosi e arrabbiati per offendere una donna (come chiunque altro, sia chiaro!) è così fatta che questi richiami, invece di far vergognare gli autori ( non autorizzati) delle offese tanto da indurli a desistere da questa loro perversione e coazione a ripetere le  oscenità verbali all’indirizzo della vittima designata, li eccitano ancora di più a dare libero (?) sfogo al loro  sadismo latente o esplicito. Ma perché tanto accanimento contro la Boldrini? “Se stessi zitta e buona vivrei meglio, nessuno ce l’avrebbe con me: sorride, non dà fastidio, è mansueta, tutto bene.  La donna che sta al posto suo va benissimo, diventa un disturbo quando dice la sua, è il protagonismo che viene mal sopportato”.


Da chi? Evidentemente da chi vuol farla da padrone, non solo sulle donne ma anche sulle minoranze, sui migranti, sui musulmani, sui neri, insomma sui dannati della terra cari a Papa Francesco. ”Che se li porti in Vaticano!”, tuonano leghisti, neofascisti e razzisti vecchi e nuovi. Già, in Vaticano, come se il papa non avesse in casa fin troppe gatte da pelare!

FULVIO SGUERSO

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