Inconciliabile

Inconciliabile
Il presidente di Nomisma Energia ha raccontato che il modello di società prossimo e auspicabile, sarà quello in grado di operare in più campi contemporaneamente, facendo convivere realtà che ci apparivano in contraddizione.

Inconciliabile

Il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, ha recentemente raccontato in una intervista radiofonica, che il modello di società prossimo e auspicabile, sarà quello in grado di operare in più campi contemporaneamente, facendo convivere realtà che ci apparivano in contraddizione.


Una società industriale, ma anche agricola con produzioni di alta qualità. Una produzione energetica scelta per convenienza e praticabilità, ma il più possibile sostenibile. Immagino io: una estesa grande distribuzione (e quindi una produzione industriale di beni), affiancata a un commercio diffuso sul territorio, con una produzione di nicchia e di qualità.

Insomma, nelle intenzioni degli economisti la nuova società deve essere sempre più organica e inclusiva (dal punto di vista delle attività produttive e commerciali). Naturalmente questo fa prevedere che sia particolarmente elastica anche dal punto di vista della disponibilità al lavoro e al consumo. Più ancora il secondo che il primo.

A livello economico si tratta probabilmente di un’analisi azzeccata. Le persone come Tabarelli fanno per mestiere previsioni, disegnano contesti, lanciano segnali. Difficilmente sbagliano. E probabilmente l’economia vincente del futuro sarà quella che insiste su una società disposta a tutto, ma tutto quello che il sacro profitto gli chiederà. E questo a me non piace.

Il modello informativo attuale ci spinge a credere che sia possibile far convivere tutto, a qualsiasi condizione. Mentre non è vero, e lo sappiamo bene con la pratica quotidiana. Le cose inconciliabili esistono, e talvolta si deve arrivare allo scontro e al confronto per far nascere un compromesso. E il grado di civiltà di una società non si misura con la tolleranza, ma con la capacità di far nascere un nuovo modo di convivere. Più difficile immaginare la costruzione di rapporti umani, quando uno dei due fattori del rapporto non è umano. Mi spiego: tra industria e agricoltura, secondo l’insigne economista, si dovrebbe trovare una sorta di inclusione, in modo che sia possibile praticare un processo industriale e, nello stesso luogo, coltivare frutti della terra di qualità. Ma mentre il primo è un sistema impersonale, congegnato per la massima resa (e il miglior fatturato possibile), il secondo è relazione col territorio (escludiamo da questo quadro l’imprenditoria agricola intensiva o estensiva, che può essere peggio dell’industria).


 

Chi coltiva lo fa su quella terra dove vive, consumando per primo il frutto del suo lavoro, facendo dunque circolare meno soldi di chi ha un lavoro dipendente. Coltiva e alleva senza orario, costruendo una relazione solida con i vicini, una forma di società, una presenza costante e una protezione del territorio, una prevenzione addirittura, contro gli incendi, le inondazioni, la presenza di parassiti, animali nocivi, insetti infestanti.

L’industria ha bisogno di immobili ben piazzati, serviti da svincoli e da strade, con acque ben irreggimentate, con personale presente e flessibile, disinteressato alla complessità del lavoro, ma ben concentrato sugli obbiettivi di volta in volta prefissati. L’industria ha bisogno di credito e di sistemi di trasferimento di capitali, agili ed economici. Deve “far girare” molti soldi.

Non ne sto facendo una questione morale per cui dire: questo è meglio o è peggio, anche se si capisce da che parte sto. La questione è che ci sono cose inconciliabili. E la Val Bormida ne è una dimostrazione pratica. Da terra di piccola agricoltura, boschi, vetrerie e carbone di legna, nel giro di pochi anni è diventata un polo chimico di rilevanza quantomeno nazionale. È durata un secolo, più o meno, e in questo secolo abbiamo (hanno) distrutto quasi completamente un sistema agricolo (peraltro poverissimo). Le pianure fertili e ampie, vicino ai fiumi, sono state occupate dalle grandi industrie. Le povere cascine perse fra i boschi sono state abbandonate. L’allevamento possiamo chiamarlo “superstite”; le coltivazioni sono quasi sempre dilettantistiche, per il piacere di farlo, o tutt’al più su scala famigliare. Ci sono, è vero, alcune poche fiammelle che riscaldano la buia notte valbormidese. Speriamo non si estinguano. Ma il territorio potrebbe sopportarne altre? E se si, quante? Possiamo conciliare la buona volontà di pochi agricoltori con la frenesia della nuova costruzione? Del nuovo capannone, rotonda, svincolo? Hanno (i nostri amministratori), o abbiamo la forza di fare scelte coraggiose, poco remunerative nel tempo prossimo?

   

Nell’ultimo censimento dell’agricoltura si dice chiaramente che il terreno fertile nel territorio della provincia di Savona sta diminuendo a grandi balzi. Quale coabitazione sarà mai possibile tra industria e agricoltura?

Intendiamoci: in uno scontro del genere non c’è partita. L’industria ha costruito una società di consumi, ha mezzi economici e informativi per convincere chiunque che tutto si può fare. Ma il buon senso ci dice di no.

Così come la pastorizia e la diffusione del lupo; così come la grande distribuzione e il negozio di vicinato; come l’allevamento domestico e l’allevamento intensivo; come l’aria pulita e l’aumento di autovetture incontrollato; come il richiamo alla vocazione turistica e l’installazione di piattaforme o di centrali a carbone.

Ripeto: io non so dire quale sia meglio. Dico che dovremmo renderci conto che ci sono cose inconciliabili. Ma le questioni che non si possono comporre, tra le persone, trovano una soluzione o un compromesso, anche attraverso dei contatti o degli scambi violenti; non possiamo immaginare la stessa cosa quando a scontrarsi solo livelli economici diversi: una bottega di paese non può far niente contro la grande distribuzione. Il sistema agricolo consolidato, antico, non può far niente contro l’industria o contro l’agricoltura intensiva.

Quella che il grande economista citato all’inizio potrebbe chiamare società multitasking, in realtà non è che l’atavica capacità dell’uomo di adattarsi all’ambiente, scendendo a compromessi talvolta faticosi, dolorosi e insoddisfacenti, ma che gli permettono di vivere. L’industria, l’economia, ha si capacità di adattarsi, ma non per venire incontro all’uomo, piuttosto per seguire il fatturato, e non potrebbe fare diversamente.

È qui che la politica dovrebbe entrare, e farsi carico di quel che all’uomo manca, proteggendo, fuori dalle regole del mercato, il paesaggio, la salubrità dei luoghi, i diritti pubblici, la forma di una società acquisita, la dignità del lavoro, il diritto ai sogni.

Ma se la politica consente di essere sostenuta dall’economia, allora possiamo anche immaginare il risultato. 

Alessandro Marenco

 

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