Immoralità della vivisezione

UN HABEAS CORPUS ANIMALE
CONTRO LA VIVISEZIONE

UN HABEAS CORPUS ANIMALE CONTRO LA VIVISEZIONE

Statisticamente, se ci si confronta con un sostenitore della vivisezione, si vede che per la sua tesi quasi sempre utilizza il medesimo argomento che utilizza la Chiesa. O perché egli lo ritiene una valida guida, o perché autonomamente è giunto ad esiti identici o molto simili. Pertanto dirà che  vivisezionare è una pratica accettabile in quanto la si esercita su esseri senza anima. Obtorto collo, certo, perché anche gli animali soffrono; ma è un male minore rispetto a chi un’anima ce l’ha.

Orbene, molte sarebbero le obiezioni da sollevare davanti ad una affermazione del genere. Compresa quella, nota generalmente anche ai meno informati, relativa alle differenze nella fisiologia, nell’anatomia, nel metabolismo, che sussistono tra gli animali e gli umani. Tuttavia poiché al riguardo è stato già detto molto ed è una questione spesso affrontata da giornali e intellettuali, preferisco battere una strada nuova, che focalizza non sulla scienza ma sulla morale. E’ in ambito morale, infatti, che si palesa in modo netto la contraddizione insita nella tesi vivisezionista; è lì che si trova la prova principe della inaccettabilità della vivisezione stessa.

Ma per capire perché si possa caricare questa prova di una tale importanza, bisogna richiamare il fatto che per la Chiesa chi ha un’anima è un essere immortale, nel senso che non finirà con la morte, ma vivrà un’altra vita, e sarà una vita in cui se gli è stato tolto, sarà risarcito; e le sofferenze subìte saranno riconvertite in beatitudine e felicità.

Ebbene, la prova, più esattamente la prima parte della prova, della inaccettabilità morale della vivisezione, consiste semplicemente in questo, cioè nel dedurre che un risarcimento come quello sopra prefigurato non ci può essere. Non per chi non ha un’anima. Come potrebbe essere dato un risarcimento nell’altra vita a chi di vita ne ha una sola? Da ciò il paradosso per cui in linea di principio gli uomini, i quali avrebbero la garanzia di essere risarciti, vengono tutelati; mentre non vengono tutelati gli animali che questa garanzia non ce l’hanno affatto, e anzi vengono precipitati nella situazione di subire qualsiasi violenza.

Eppure questa, che già di per sé evidenzia una contraddizione nell’impalcatura morale della Chiesa, è da considerarsi una prova necessaria e sufficiente soltanto per una certa categoria di persone. Quelle che non intendono l’essere fatti ad immagine e somiglianza di Dio come uno status speciale che dia il diritto di cancellare ogni diritto a chi non appartiene al genere umano. Per le altre, bisogna ricorrere alla seconda parte della prova. E allora si dovrà aggiungere che se ci sono animali che vengono vivisezionati e altri no, si avrà contezza di come la sperequazione morale nell’attuale etica della Chiesa si evidenzi anche in un discorso intraspecifico. Il dolore del coniglio cui gli occhi vengono ridotti a gelatina durante gli esperimenti atti a validare un nuovo tipo di collirio, non sarà compensato da nulla, mentre non si vedrà togliere nulla la lepre che liberamente ha trascorso la sua vita saltando tra l’erba dei prati.

Alla fine, pertanto, l’enunciato di questa che abbiamo l’immodestia di considerare la dimostrazione morale dell’inaccettabilità della vivisezione, può essere espresso nel modo seguente:
se anche la sperequazione in termini di sofferenza destinata ad essere definitiva tra uomo e animale avesse una giustificazione nella superiorità dell’uomo data dall’essere fatto ad immagine e somiglianza di Dio, non sarebbe comunque possibile ipotizzare nessuna giustificazione per la sperequazione tra animale ed animale.

La Chiesa, insomma, sostenendo che gli animali non hanno un’anima e perciò possono, sia pure in extrema ratio, essere vivisezionati, avalla un concetto filosofico bene espresso, pur nella sua formulazione popolare, dalla massima partenopea: “chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto”, il quale però proprio non può coesistere con il concetto del Dio morale della giustizia e dell’amore così come lo concepisce il cristianesimo.

In effetti, che cosa c’è di sostanzialmente differente tra questa massima e la affermazione che tra due animali, cioè tra due esseri privi di anima, chi è martoriato non acquisirà mai nessun diritto, nessun credito su quell’altro che ha continuato indisturbato a vivere la sua propria vita?

L’antropocentrismo di cui la Chiesa è paladina, ci mette così di fronte al paradosso per cui a chi ha di meno, è lecito togliere; e a chi ha di più, è lecito dare a scapito di chi ha di meno.

L’altra idea, opposta, per cui chi ha di più dovrebbe proporzionalmente essere più responsabile, e, per esempio, dare voce a coloro che non possono parlare (ed eventualmente neppure guaire, se vengono devocalizzati), sembra non avere nessun posto nella visione della Chiesa formalizzata nel catechismo. La quale Chiesa neanche sembra rendersi conto che in questo modo contraddittorio, cioè mettendo l’essere umano al centro del mondo e insieme, nel senso sopra esposto, deresponsabilizzandolo, fa tutt’altro che accrescerne la dignità.

Negare l’anima agli animali, così come il concedergliela, non sortisce dunque l’effetto voluto. L’uomo non può comunque liberarsi dal peso della responsabilità di comportarsi con rispetto e senza violenza verso di loro. Se essi hanno un’anima, perché essa ce li rende simili; se non la hanno, perché il loro dolore  irreversibile e inemendabile, sarebbe insieme la denuncia di un Dio ingiusto. La Dottrina infatti non prevede nulla che riequilibri questa disparità di dolore, nonostante ammetta che non avere un’anima non significhi non provare terrore, fatica, sofferenza, emozioni.

Sta in questa ingiustizia radicale la prova principe della intollerabilità morale della vivisezione. Che perciò non mostra più di fondatamente potersi rifare all’assenza di anima negli animali. Se c’è l’anima, la sofferenza del corpo, nella sua tragicità, può avere un senso. In nome di una speranza, di una ragione, di un’idea. Se non c’è anima, no. Se non c’è anima il dolore non è mitigato dalla speranza, da una ragione o da un senso. E’ il male assoluto, nella sua etimologia di sciolto: dalla punizione, dalla pena, dall’espiazione, dalla scelta, dall’amore, dalla colpa, dalla ricompensa, dal perdono, da una vita oltremondana e  luminosa, da un Dio che non può più essere insieme buono e onnipotente.

 

Fulvio Baldoino

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