Il mulino e il mugnaio

Il mulino e il mugnaio

Viaggiamo verso una società smembrata in una popolazione diffusa, senza identità, dove ci sono regole (pure troppe) ma non ci sono limiti morali
(che dovrebbero sentirsi ancor più delle regole)

Il mulino e il mugnaio

 Romeo abitava nella casa vicino al mulino da sempre. La sua famiglia aveva preso in  gestione macina ed edifici. Aveva da essere una famiglia benestante per potersi permettere, col tempo, di comprare mulino, bialera, chiusa, martinetto adiacente, campi di pertinenza, tutto quanto mio bisnonno, nei primi anni del Novecento, aveva comprato per assicurare una rendita ad un figlio invalido, a cui non interessava affatto fare il mugnaio.

Romeo, prima di approdare all’antica arte molitoria, era stato avviato agli studi religiosi. Si dice che avesse rinunciato ad un passo dalla consacrazione, portandosi via però una certa erudizione, una certa conoscenza di libri e citazioni, che però coltivava sobriamente, in privato, senza farne esibizione con nessuno.


Avendo egli rinunciato all’abito talare, s’era dovuto trovare una sposa, s’era dovuto “mettere a posto”, formare una famiglia, allinearsi insomma alla forma di una società del tempo in cui viveva. Tuttavia restò un tipo perlomeno strano: mentre i vicini si schiantavano di fatica nei propri campi e in quelli di padroni più facoltosi, lui si godeva i privilegi della macina: tanto per cominciare con quel che resta nella tramoggia e nei palmenti ci mangiava, lui e la sua famiglia. Poco importa che fosse farina di grano, di segale, di granoturco o di castagne. Pur sempre roba mangiativa era. E valeva quindi la pena di passare il tempo a caccia, o meglio ancora sprofondato nelle letture, nella coltura dell’orto presso la casa, addirittura nell’osservazione degli astri con un cannocchiale. Non riesco a immaginare, per l’epoca e per il luogo, quali reazioni possa aver mai destato nel vicinato l’osservazione della volta celeste: operazione improduttiva, incomprensibile, vagamente limitrofa alla stregoneria.

La moglie che si era trovato, o che gli avevano trovato, rispondeva alle prescrizioni dell’epoca: sana, solida, capace, resistente, feconda, economa ed economica. Gli diede un paio di figli sani, poi s’ammalò, disattendendo le aspettative e morì ancor giovane.

La sorella minore della moglie era da sposare, ed abitava ancora con i vecchi genitori. Romeo le propose di venire a stare lì con lui, avrebbe cresciuto i figli, suoi nipoti, ed avrebbe avuto una casa, una famiglia.

Il parroco del paese, saputo degli spostamenti, si fece presto vivo, approvando senz’altro la soluzione, interpretandola come un atto di carità tanto per la giovinetta sola, quanto per i bambini rimasti senza la madre. Ma un rischio gravissimo incombeva ora su quella casa: il concubinaggio, la convivenza “more uxorio”, di cui Romeo, erudito com’era, certamente sapeva. Si sposassero, dunque, i due concubini. La risposta di Romeo fu assai sintetica: no. Non per questo il parroco si lasciò disarmare: per più e più fiate il sacerdote si presentava, bene accolto da Romeo, e dopo aver ben parlato del tempo e delle noci, piuttosto che del grano, riproponeva la soluzione ad una situazione tanto scabrosa. Ma la risposta era sempre la stessa.


Passarono gli anni, e Romeo diede occasione di far parlare di sé facendo cose inusitate, come allevare conigli o concimare intensamente l’orto o darsi d’attorno per procurarsi semi diversi di ortaggi diversi. Ecco, oggi, mentre lo scrivo, queste cose ci paiono quantomeno coerenti con il mondo contadino, corrette, prevedibili, forse ordinarie. Non era così. Mi raccontavano che non si tenevano grossi allevamenti di conigli, preferendo crescerne pochi (uno o due) sotto una cassetta rovesciata, e venderli non appena fossero stati grandi a sufficienza. Il concime, o per meglio dire il letame (la parola richiama la sua radice: allietamento, rendere lieto, allietare i campi) andava nei campi estesi coltivati con i cereali. Mai nello stento orticello, semiabbandonato, dove si trovavano solo patate, rape, cavoli, cipolle, porri, pochi pomodori, un cespo di prezzemolo. Contavano i campi di grano, di segale, di biada, di mais. Non altro. Questa differenza di cura che Romeo portava verso il suo orto lo faceva bersaglio di acute critiche. Soprattutto perché sovvertiva un ordine non scritto, una consuetudine antica e accettata. I vicini scrollavano la testa mentre lo guardavano concimare l’orticello, vicino alla bialera del mulino, da dove avrebbe pescato tutta l’acqua che gli poteva servire. No, tutti a dire no, non si fa così. Salvo poi, nella prima estate, fermarsi sotto la finestra della casa del mugnaio, ad annusare il profumo di un buon minestrone completo d’ogni ben di dio: oltre agli ordinari ortaggi, come patate, cipolle, zucche o zucchine, Romeo aveva fagioli, piselli, fave, basilico, sedano, pure qualche pomodoro primaticcio. Mentre il passante era atteso al desco dalla solita scodella di polenta e latte.


Dopo tanti anni Romeo si era avvicinato alla fine della vita. Come tutti gli uomini fatti di terra e di vento, si mise a letto, consapevole. Accettò la visita del parroco, che gli spiegò ancora una volta la necessità del matrimonio. A questo punto, se non per la sua anima, avrebbe dovuto farlo per sua cognata, che le aveva governato la casa, cresciuto i bambini e non di rado fatto andare il mulino. Lei non avrebbe avuto nessun diritto da far valere, e si sarebbe ritrovata letteralmente in mezzo alla strada, proprio ora che non era più tanto giovane nemmeno lei. Romeo acconsentì, e la sposò in “articulo mortis”.

Questa è una storia vera, alla quale ho naturalmente cambiato i nomi. Chi vuol vedere nel mondo contadino un idillio rassicurante fatto di casupole carine, gente povera ma onesta, duro lavoro e sano mangiare, bontà d’animo e sobrietà di gusti e pensieri, quasi sempre sbaglia. Come sbaglia chi costruisce generalizzazioni solo per sentirsi in pace con sé stesso, per far finta di capire, finendo per credere al folklore, ovvero alla ricostruzione viziata e colorata di una realtà assai più complessa. Questa piccola storia mostra come, cercando un poco, anche solo nella memoria dei nostri ascendenti, vengano fuori delle vicende famigliari complesse, non lineari, fatte di uomini e donne di buona fama, ma che vivevano “contromano” (a loro modo, per il loro tempo) dimostrando nei fatti che si poteva provare a fare diverso, a scardinare delle convinzioni, a non dare retta sempre e comunque al: “Si è sempre fatto così”, e questo è forse l’unico sistema per introdurre innovazioni, per sperimentare alternative, per aumentare l’apprendimento: “The advancement of learning”, come diceva il filosofo.


Oggi abbiamo la possibilità di vivere ancor più in controtendenza, anzi: pare sconveniente criticare chi non si comporta in maniera allineata, per cui ogni cosa è ammissibile, e finisce per passare in quella zona per cui si dice: “Ognuno ha diritto di vivere come vuole, finché non lede i miei diritti”.

Non si possono fare leggi che ci dicono come dobbiamo vivere (lo fanno solo i regimi di impronta morale, quelli fideistici, religiosi o politici) però sono convinto che ci sia bisogno di una morale comune, un senso delle cose, un modo – anche sbagliato – a cui, teoricamente, far riferimento. La cosa importate è essere tutti convinti che questo modo non è inciso sulla pietra e inviolabile. Può essere discusso e cambiato. Però non può essere facile, non può essere rapido. Le innovazioni in una struttura sociale devono passare per un quanto di scontri (anche solo verbali), di emozioni, di difficoltà. Sarebbe triste vivere in una società in cui è sempre valido tutto, in onore di una mal interpretata libertà. Il paese, il villaggio, la comunità (non inteso come gruppo di case, ma gruppo di uomini) ha la sua utilità, perché l’uomo è gregario, ed ha bisogno di vivere in gruppo e il gruppo è utile alla vita dell’uomo. Rompere le consuetudini talvolta coincide con la rottura del gruppo. Ed anche questo è buono, se serve per crescere, per imparare, per educare, per allargare il gruppo.

Diventa una pratica meschina e suicida, se rompere o destabilizzare un gruppo serve solo per soddisfare un bisogno superficiale, estetico, vanesio.

Viaggiamo verso una società smembrata in una popolazione diffusa, senza identità, dove ci sono regole (pure troppe) ma non ci sono limiti morali (che dovrebbero sentirsi ancor più delle regole). Siamo così inerti, facili preda di prodotti che non ci servono, politici che non ci ascoltano, media che ci formano, pregiudizi clinici e farmaceutici alla ricerca di una giovinezza eterna, di uno stato di salute perfetto, con giudizi e visioni nette, chiarissime, inconsapevoli della dimensione del mondo e del nostro posizionamento nel mondo stesso.

Romeo sapeva chi era, cosa voleva e dove andava. Forse sapeva persino il suo posto nel sistema solare. E quando faceva qualcosa di contrario alla morale comune lo faceva consapevolmente, non per distruggere o per sfidare. Forse solo per provare, sollecitare quella società. Sempre disponibile a cambiare idea fino all’ultimo giorno.

ALESSANDRO MARENCO

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