Il vero Maestro

Il vero Maestro

Il vero Maestro

Sono sempre un po’ a disagio, quando, con una cultura limitata alle conoscenze Liceali, mi trovo a riflettere su temi fuori dal mio campo di expertise, però un ripasso di Storia della Filosofia fatto con mio figlio, mi ha indotto ad alcune riflessioni che proverò a condividere, con il rischio preventivato, consapevole e accettato, di critiche demolitrici.

Chi è un vero Maestro?

Tipica domanda fuori dal mio modo di pensare, per cui provo ad aggirare la difficoltà di una “definizione” riflettendo su alcune figure di cui la Storia e/o la Letteratura hanno lasciato una traccia e il problema è riproposto in: “cosa c’è di comune in alcune figure umane che hanno lasciato una traccia ancora oggi?”.

Possiamo iniziare in ordine temporale con la tradizione Buddista con una delle Storie Zen.

Oggigiorno si raccontano molte sciocchezze a proposito dei maestri e dei discepoli, e dell’insegnamento che il maestro lascia in eredità agli allievi prediletti, autorizzati così a trasmettere la verità ai propri seguaci. Naturalmente lo Zen dovrebbe essere comunicato in questo modo, da cuore a cuore, e in passato avveniva proprio così. Regnavano il silenzio e l’umiltà, non l’asserzione e la dichiarazione. Chi riceveva un simile insegnamento teneva segreta la cosa persino dopo vent’anni. Finché un altro, spinto dal proprio bisogno non scopriva che era disponibile un vero maestro, nessuno sapeva che l’insegnamento era stato impartito, e anche allora l’occasione si presentava in modo del tutto naturale, e l’insegnamento si faceva strada da sé. In nessun caso l’insegnante avrebbe dichiarato: «Io sono il successore del tale». Questa asserzione avrebbe dimostrato proprio il contrario.

Il maestro di Zen Mu-nan ebbe un solo successore. Il suo nome era Shoju. Quando Shoju ebbe compiuto i suoi studi di Zen, Mu-nan lo chiamò nella propria stanza. «Sto diventando vecchio,» disse «e a quanto ne so io, Shoju, tu sei l’unico che continuerai questo insegnamento. Qui c’è un libro. È stato tramandato da maestro a maestro per sette generazioni. Anch’io vi ho fatto molte aggiunte secondo il mio criterio. Il libro è molto prezioso e io te lo do come simbolo della tua successione».

«Se questo libro è una cosa tanto importante, faresti meglio a tenertelo» rispose Shoju. «Io ho ricevuto il tuo Zen senza scritti, e mi sta bene così com’è».

«Lo so» disse Mu-nan. «Tuttavia, sono sette generazioni che quest’opera passa da un maestro all’altro, così puoi conservarlo come segno che hai ricevuto l’insegnamento. Tieni».

I due stavano parlando davanti a un braciere. Non appena Shoju ebbe il libro tra le mani lo gettò sui carboni accesi. Non aveva nessun desiderio di possedere qualcosa.

Mu-nan, che sino a quel momento non era mai andato in collera, strillò: «Ma che cosa fai!». Shoju gridò di rimando: «Ma che cosa dici!».

(tratto da Nyogen Senzaki e Paul Reps, 101 Storie Zen (Adelphi, Milano, XXV ed. 1993).

Penso che il Lettore avrà facilmente arguito chi tra Maestro e Allievo ha meglio colto lo Zen.

Andando in ordine temporale, mi viene in mente Socrate. A differenza della personalità “barbosa” che ne dava il mio Manuale di Filosofia del Liceo, riscopro, sul Manuale di mio figlio,  un Socrate mezzo hippie; un vero rompiscatole a porre continuamente domande provocatorie al prossimo. Un antimaestro per eccellenza, ma coerente in vita e in morte. Non scrisse un solo rigo, a quanto mi risulta o, almeno, in quelli che sono i limiti della mia conoscenza. Di lui scrivono Platone e Aristotele.

Giusto a proposito di Aristotele e di Socrate.

In passato, chiunque possedesse un segreto in un’arte correva il rischio d’esser considerato uno stregone; ogni nuova setta era accusata di sgozzare i bambini nei suoi misteri; e qualsiasi filosofo non osservasse alla lettera il gergo delle scuole era accusato d’ateismo dai fanatici e dai cialtroni e condannato dagli sciocchi.

Anassagora osa pretendere che a guidare il sole non è Apollo dall’alto di una quadriglia? Lo chiamano ateo, ed è costretto a fuggire.

Aristotele viene accusato d’ateismo da un prete e, non potendo far condannare il suo accusatore, si ritira a Calcide. Ma la morte di Socrate è quanto la storia della Grecia ha di più odioso.

Aristofane (quell’uomo che i commentatori ammirano perché era greco, senza pensare che era greco anche Socrate), Aristofane fu il primo che abituò gli ateniesi a considerare Socrate un ateo.

Da noi questo poeta comico, che non è né comico né poeta, non sarebbe stato ammesso a rappresentar farse nemmeno alla fiera di Saint-Laurent; mi sembra molto più volgare e spregevole di quanto non lo dipinga Plutarco. Ecco ciò che il saggio Plutarco dice di questo buffone: « Il linguaggio di Aristofane è quello di un miserabile ciarlatano: tutto battute oscene e ributtanti; non è nemmeno divertente per il volgo, ed è insopportabile per l’uomo di giudizio e d’onore; la sua arroganza è intollerabile, e la sua malignità detestata dalla gente perbene ».

Questo è dunque, sia detto di passata, il guitto che madame Dacier, ammiratrice di Socrate, non si vergogna di ammirare; è questo l’uomo che preparò di lontano il veleno con cui giudici infami fecero morire l’uomo più virtuoso della Grecia.

I conciapelli, i calzolai e le sarte di Atene applaudirono una farsa in cui si rappresentava Socrate che, sollevato in aria dentro un paniere, annunciava che non c’era nessun dio e si vantava d’aver rubato un mantello insegnando filosofia. Un popolo intero, il cui cattivo governo autorizzava licenze tanto infami, si meritava proprio quel che gli è accaduto, di finire schiavo dei romani, e di esserlo oggi dei turchi. […]

 

(Voltaire, Dizionario filosofico, Rizzoli, Milano,  VI ed. 2007)

Sì, riprendere in considerazione un Socrate in una veste così nuova, è stata per me una riscoperta sorprendente. Ecco un altro vero Maestro (in vita e in morte) che non ha lasciato scritta una sola riga. Ci hanno pensato altri a scrivere per lui.

Il terzo vero Maestro è un uomo che Giuseppe Flavio (a parte una rozza pia frode) colloca nella Palestina di poco più di 2000 anni fa. Non troverete un solo rigo scritto da lui preoccupato probabilmente, da Ebreo osservante, a cercare di rendere meno dura (e misogina) la Legge Mosaica. Non ostante non abbia scritto una sola riga, nonostante non possa essergli attribuito nessun pezzetto di papiro scritto in Aramaico, su di lui c’è una immensa letteratura. Dai quattordici Vangeli pervenuti di cui solo quattro furono accettati come “ufficiali” ai fiumi d’inchiostro sprecati (?) dai Padri della Chiesa, dai vari commentatari. Insomma una persona alla quale hanno messo in bocca (mediante tanti pii) anche il supporto razionale per sterminare gli “eretici”. Non fu Luis de Paramo quel “ragioniere di morte” che sostenne, stando a Voltaire, ovviamente, che il primo inquisitore fu proprio Gesù? Mi auguro prima o poi di rinvenire in qualche biblioteca numerica quella splendida opera “De origine et progressu Officii Sanctae Inquisitionis, eiusque, dignitate & utilitate (1598)”. Così, solo per controllare se il bugiardo era Voltaire o coloro che hanno evitato troppa pubblicità a quanto ne risulterebbe. Spero su ciò di potervi indicare presto un link.

Salvatore Ganci

http://www.salvatoreganci.ssep.it

museodellascienza.s.ganci@gmail.com

http://www.restaurostrumenti.ssep.it

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.