Il ragazzo ribelle: (Il mio 25 Aprile)

Il ragazzo ribelle:
(Il mio 25 Aprile)

 

Il ragazzo ribelle: (Il mio 25 Aprile)

di Paolo Bongiovanni

Questa è la storia di un ragazzo di 18 anni che durante la seconda guerra mondiale, nella città di Savona è costretto a fare una scelta. E la sua scelta di campo, risulterà importante come quella di milioni di persone al mondo, per la vita e la sopravvivenza della propria famiglia, per tutte le persone attorno a lui. La scelta, quella di essere da una parte o dall’altra, fu precipua e come per ogni giovane, sofferta e ponderata, perché il ragazzo, Luigi, aveva la testa sul collo.

1943:

L’Italia è logora da 22 anni di dittatura fascista e la tempesta si avvicina, il 25 luglio del 1943, Benito Mussolini viene arrestato e confinato in Abruzzo, scortato dai Carabinieri e da un gruppo di militari sul Gran Sasso a Campo Imperatore, ma venne liberato poco tempo dopo dai paracadutisti nazisti e portato in Germania.
In città molti antifascisti ed insofferenti al regime, escono finalmente allo scoperto e manifestano liberamente per le vie e le piazze di Savona. Purtroppo per loro era solo l’inizio di tutto, e questi atteggiamenti tenuti per festeggiare la caduta del fascismo, si rivolteranno contro di loro.

I nazisti rimettono i fascisti al potere, dopo l’otto settembre giorno della firma dell’armistizio con gli alleati. Infatti dopo quella data per molte di queste persone, di ogni ceto sociale scattò una sorta di caccia. Molti di loro erano commercianti, avvocati ed imprenditori, molti altri semplici operai o disoccupati, tra le loro fila anche molte donne e giovani studenti. Dandosi alla macchia, in quei giorni molte persone, si ritrovarono sui fortini attorno a Savona abbandonati dai militari, per recuperare armi e munizioni, attività che tuttavia non durò molto, perché i nazifascisti poi a loro volta, ripresero il possesso di tutti quei luoghi.

 

25 luglio del 1943, la folla ammassata in Piazzale Saffi davanti alla casa dei Fasci di Combattimento, poco dopo entreranno e saccheggeranno il palazzo.

La guerra continuò quindi, e con essa i bombardamenti, che aumentarono di numero e di potenza, uno di questi nel settembre o ottobre del 1943, alle ore 12:00 circa, per cui in pieno giorno, fu tremendo. Gli scoppi aumentavano uno dietro l’altro e si protrassero per quasi due ore inarrestabili, era uno di quei bombardamenti a tappeto con obiettivo il porto e l’Ilva.
25 luglio del 1943, migliaia di Savonesi in Piazza Mameli per festeggiare la caduta del Regime Fascista.
Bombardamenti nella zona attuale di Via Gramsci
Durante quel bombardamento molte case della zona di Vecchia Savona davanti alla darsena furono colpite e distrutte. L’orologio della Campanassa si fermò per lo spostamento d’aria dovuto all’esplosione, alle 12:35 di quel giorno e rimase così fino alla fine della guerra.
Molti furono gli sfollati che dovettero lasciare negozi, abitazioni, i propri luoghi di vita ordinaria, la gente fu costretta a spostarsi nel basso Piemonte o nella Val Bormida per riuscire a non rimanere sotto ai bombardamenti, per salvare la propria vita e quella dei propri cari. Nel mentre, grazie al sostegno dei nazisti, fu costituita la Repubblica Sociale Italiana, che emano’ immediatamente le proprie leggi, a capo della Repubblica fu reinserito naturalmente Benito Mussolini. Per contrastare i ribelli che si opponevano alla RSI furono organizzati rastrellamenti e grandi retate. Vennero bloccati tutti i treni da e per Savona, istituiti i posti di blocco, alcuni fissi, ad esempio come quello in cemento presente ancora oggi lungo la strada per Cadibona in zona Stra’, verso Cima Monta’ e Conca Verde (Visibile ai bordi della strada, poco prima del cimitero di Cadibona).
 
Erano presidiati dalle milizie fasciste e dalla Wehrmacht tedesca comandate dalle Ss, che piantonavano 24 ore su 24. I treni venivano perlustrati armi alla mano alla ricerca di materiali e persone, le porte venivano bloccate, nessuno poteva scendere, per cui la gente era in trappola. I bambini piangevano e molti ignoravano cosa potesse avvenire in quelle tristi occasioni su quelle carrozze, carichi di sgomento e preoccupazione ognuno cercava di rincuorare e rassicurare il prossimo.

La retata si sviluppava più o meno così:

Le squadre di ispezione, carrozza per carrozza intimavano ai viaggiatori di mantenere la calma che non sarebbe successo niente (la stessa cosa che accade durante le rapine).

 

Le squadre di ispezione, carrozza per carrozza intimavano ai viaggiatori di mantenere la calma che non sarebbe successo niente (la stessa cosa che accade durante le rapine).

Se eri un maschio di oltre 17 anni, e non eri arruolato nella milizia, venivi considerato disertore e rischiavi di essere imprigionato.

Nelle milizie a volte si poteva, durante questi rastrellamenti, avere brutte sorprese, magari si veniva imprigionati da cugini o parenti che ne facevano parte.

E questo accadde al protagonista della storia in questione, incontrò tra le fila della Guardia Nazionale Repubblicana proprio un suo cugino, che in questo caso però lo grazio’ ai superiori e alle Ss evitandone l’arresto.

Militi RSI

Dopo ogni controllo e rastrellamento venivano raggruppati i tanti giovani soprattutto i maschi, e una volta scortati, venivano accompagnati fuori dal treno.

Molto probabilmente il loro destino veniva suddiviso tra, arruolamento più o meno forzato o la deportazione in Germania nei campi di lavoro forzato.

Molti antifascisti che fuggirono da Savona si schierarono apertamente contro il regime e il nazifascismo.

Ma molti giovani invece ne fecero ancora orgogliosamente parte, arruolandosi nelle squadre e milizie organizzate dalla Repubblica di Salò.

Per i ribelli vi era la montagna e la dissidenza nelle file partigiane.

In quel periodo in tutte le città del nord Italia vennero tappezzati i muri di manifesti della propaganda del nuovo governo, dove sì richiedeva l’arruolamento come in una cartolina precetto, che recitava così:

– Chiamata alle armi delle classi 1923 – 1924 – 1925

– Obbligo per i militari in forza nell’ex Regio Esercito Italiano l’8 settembre 1943 di presentarsi immediatamente nelle sedi  dei propri distretti militari.

Tali ordini dovevano essere tassativamente eseguiti entro e non oltre il 28 novembre 1943.

E venne ancora il tempo delle scelte, molti amici, molti conoscenti del protagonista si presentarono.

Altri compresi il protagonista passarono alla clandestinità, vennero perciò considerati disertori ad ogni effetto, alcuni come il ragazzo trascorsero molti mesi nascosti in città, in casa di parenti o amici.

Ma quali furono le ragioni di quelle scelte?

Il protagonista ad esempio, negli anni della sua infanzia fu colpito in maniera negativa dalle esperienze sui banchi di scuola, dove la rigidità educativa dei maestri e dei professori la faceva da padrona, e successivamente nelle numerose adunate in cui già da molto piccolo (come imposto dal Regime) e come milioni di giovani italiani, si ritrovò intruppato, rigorosamente vestito prima da balilla, poi da avanguardista ed infine da giovane fascista.

In quel periodo tutti gli slogan portavano ad un solo scopo propagandare l’idea che:

-Il Duce aveva salvato l’Italia

-Il Duce aveva sempre ragione

-Il Duce era l’uomo della provvidenza

-Il Duce era l’uomo che un giorno disse;

Basta agli infiniti litigi tra i vari partiti e ripristino’ l’ordine…

(Togliendo tutti i partiti e non solo quelli).

Perciò la mente di ragazzino subì come tanti altri giovani, pro o contro, gli effetti di quella propaganda.

Fortunatamente i pensieri contrari a quelle dottrine non furono debellati del tutto e riuscirono a sopravvivere in clandestinità, nonostante che, il regime soppresse tutti i canali e i movimenti di opposizione.

Il Minculpop, Ministero della Cultura Popolare, forniva attraverso le famose veline, ogni giornale Italiano delle notizie da diffondere, profondamente edulcorate e cariche di propaganda littorica, tutto il resto fu impunemente censurato.

Cosa baleno’ nella testa di quei giovani in quel periodo e contesto storico per effettuare una scelta così difficile, così impegnativa?

Perché scegliere di stare da una parte oppure dall’altra?

Perché una scelta di Campo?

Tanti episodi che accadono attorno ad un uomo diventano significativi nella formazione di un ideale, ed è per questo che in molti ragazzi nati nella generazione tra le due guerre, si insinuo’ un pensiero palesemente contro il fascismo. Mentre a numerosi giovani della precedente generazione, coglie un desiderio di nazionalismo derivato dal risorgimento, colto in pieno dal fascismo.

Il ragazzo in questione, ad esempio,  nel pieno del periodo dittatoriale, viveva e giocava accanto alla vecchia sede della Questura, in piazza della Rovere, nei pressi di via Pia.

Nei luoghi dove Prefettura e Polizia, compivano arresti ed interrogatori dei dissidenti e oppositori al regime.

Le guardie ai portoni allontanavano quei bambini, ma nonostante ciò essi sentivano tuttavia ugualmente le urla provenienti dall’interno, presumibilmente per i maltrattamenti e le torture subite dagli interrogati, le chiacchiere e i passaparola, raccontavano episodi agghiaccianti.

Oppure la disperazione di una donna che vede partire il proprio figlio in Spagna, nelle fila della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, istituita per combattere nella Guerra Civile spagnola al fianco del futuro dittatore Francisco Franco. Nei pressi, poco distante vi era la stessa disperazione, questa volta di una giovane sposa, che vide partire il proprio marito come Volontario Combattente, nelle fila antifranchiste, lasciandola senza ogni fonte di sostegno, ed era incredibile la cosa che, i due individui erano stati compagni di gioco da infanti e successivamente anche scolari assieme, oltre che italiani ed oggi avversari in guerra, in opposte fazioni politiche, in una nazione straniera.

E poi a scatenare la dissidenza, c’erano le imposizioni di forma e di comportamento, imposti dal regime, cosa che il ragazzo in questione non accettava. Il non potersi esprimere liberamente tra le persone in pubblico, l’obbligo di usate il “voi” o il “lei” e quel saluto a mano tesa, detto “saluto romano”, negli uffici, a scuola, sempre la stessa manfrina, con quella forma, così piena di stereotipi ad imitare un mondo paramilitare, che a lui in fondo proprio non piaceva.

E chiunque non approvava quei metodi, non poteva esporre liberamente il proprio dissenso e doveva tenere tale attività in maniera assolutamente clandestina.

L’antifascismo non era per cui contemplato e veniva assai colpito e ritenuto fuorilegge.

Il fascismo tolse e spostò la festa del 1 Maggio, tramutandola in una festa con diverso significato, il 21 Aprile.

In quei giorni, il dissenso si mostro’ in diverse maniere, una di queste fu l’assenza dal lavoro, i ferrotranvieri ad esempio facevano spuntare un fazzoletto rosso dalle divise blu, rigorosamente abbottonate fino al collo.

Dai tetti e dalle case, si potevano udire fischi di risentimento, ogni volta che vi erano adunate o discorsi del Duce, la polizia aveva il suo gran da fare nel rintracciarli.

Fu così che il risentimento aumentò giorno per giorno nella mente di questo diciottenne, fino al giorno in cui, ogni dubbio fu tolto sulla strada da percorrere nel suo cammino, così come lui centinaia di giovani savonesi.

1944:                                                                                       

Venne il 1944, nel mese di Marzo uscirono nuovi manifesti di propaganda fascista, uno recitava ciò:

– Amnistia totale per tutti quelli che si presenteranno entro…(data)

Coloro che non si presenteranno entro tale data, saranno denunciati alla Magistratura Militare per renitenza alla leva e diserzione dalle Forze Armate.

Ciò significava per cui Legge Marziale essendo tempo di guerra, e la condanna a morte dei fuggitivi.

Per scelta il ragazzo restò in fuga e come detto prima si nascose, in casa di amici e familiari, ma fu processato in contumacia (assenza) il 20 Dicembre con sentenza di messa a morte del Tribunale Militare di Sanremo.

Per cui la situazione divenne insostenibile e alquanto pericolosa, non solo per la sopravvivenza del ragazzo ma per tutte le persone che lo stavano aiutando.

Perciò egli decise di raggiungere la montagna e precisamente nella zona di Sale Langhe – Murazzano – Monesiglio, con lui molti altri ragazzi di varie parti d’Italia, erano pochi elementi disorganizzati, che sopravvivevano o vivevano alla giornata senza alcun collegamento con altri gruppi.

La zona in questione era troppo vicina alla linea ferroviaria tra Savona e Torino, ed altre grandi vie di comunicazione, sono quindi sottoposti a vari rastrellamenti di cui uno imponente in particolare, seguito da un presidio stabile nella zona.

I Nazifascisti e le Ss non davano tregua, dalle strade e nei posti di blocco, sparavano all’impazzata nei sentieri dove passavano i partigiani e i fuggitivi senza inoltrarsi nella boscaglia.

I fuggitivi dovevano vivere nell’ombra e nascondersi, nell’attesa che le milizie andassero oltre.

Il ragazzo con altri due compagni vissero tre giorni in una buca, nutrendosi di ghiande ed abbeverandosi terminata l’acqua, con le proprie urine.

Riuscì successivamente a rientrare a Savona e venne ospitato nella zona di via Torino, da una famiglia amica.

Poi per i bombardamenti si spostarono tutti durante la notte, compreso il ragazzo, nella zona sopra il Santuario di Savona e precisamente in contrada San Bartolomeo al bosco.

Su quelle colline sopra Savona, egli sopravvisse e attraverso i contatti con i GAP, per circa un mese tra la metà di settembre del 1944 e precisamente il 13 ottobre, assieme ad altri giovani fece da punto di collegamento con le formazioni partigiane che operavano nella zona di Altare.

Usavano un rifugio di fortuna, un capanno nel bosco e dopo una brutta nottata con tempo umido dove piovigginava fittamente, all’alba si sentirono diversi spari in lontananza

Erano raffiche di mitra, forti e chiare e provenivano dalla zona di Ferrania-Dego.

Immediatamente spostatisi dalla zona del rifugio, dopo un lungo cammino, verso le 9:00 del mattino si ritrovarono nel bosco nei pressi della casa dove viveva la famiglia che lo ospitava, in attesa che le acque si calmassero per poterli salutare.

In un momento di tranquillità il ragazzo si avvicina alla casa per fare provvista di acqua da una fontana poco distante.

Per il cattivo tempo anche la famiglia era a corto di acqua, così egli decise di fare provvista anche per loro.

Fu proprio quel trattenersi più a lungo, che lo mise in pericolo, gli altri fuggitivi erano già andati via, lasciandolo solo nei pressi della casa.

Egli salutò tutti i componenti della famiglia, con la promessa che sarebbe tornato presto anche per dare notizie degli altri.

Ricevette in cambio come ringraziamento un sacco di ballotti (castagne lessate con la buccia),  qualche pagnotta di pane fatto in casa ed alcune mele.

Il tempo fu inclemente, continuò a piovere ed il ragazzo era bagnato da capo a piedi, sì copri con dei sacchi di juta tagliati a mo’ di vestito, mentre si appropinquiava a vestirsi con un sacco di juta come cappuccio, appena fuori dall’uscio della casa, sentì una voce tonante dietro di sé che gli intimo’:

“Mani in alto non fare una mossa!”

Nel mentre, decine di mani gli frugarono in ogni parte sfilandogli l’accetta, il coltello e tutti gli accessori che aveva con sé.

Erano un bel gruppetto di militi della Guardia Nazionale Repubblicana, assieme a San Marco e molte Brigate Nere, tutti lo tenevano sotto tiro con le loro armi, nel mentre un paio di loro lo interrogarono direttamente sul posto.

“Chi sei?

Come ti chiami?

Da dove vieni?

A che gruppo appartieni?

Dove stai andando?

Cosa facevi?

A chi porti quella roba?”

La risposta del ragazzo era sempre la stessa:

“Mi chiamo Luigi, sono del 1924”

Fortunatamente non aveva documenti con sé e quindi non poterono al momento risalire alle generalità.

Nella mente nel ragazzo in quel momento vi era solo un pensiero, la famiglia della casa doveva essere in salvo, i miliziani entrarono nella casa, la perlustrarono da cima a fondo, poi entrarono anche nella stalla e in ogni capanno.

Dopo la perquisizione vi fu una accesa disputa tra i componenti delle milizie, la causa fu l’intenzione di alcuni di loro, di bruciare un grosso capanno di proprietà della casa, dove erano conservati paglia, fieno e tantissimi attrezzi da lavoro.

Alcuni di loro erano molto determinati nel farlo, mentre altri temporeggiavano, sul posto erano presenti solo due donne e bambini.

E forse proprio mossi dalla commozione per la disperazione delle stesse, che cercavano di giustificarsi adducendo di non conoscere il ragazzo, che avevano solo dato il cibo per compassione, decisero di soprassedere.

Dall’altra parte della casa, vi era la nonna capofamiglia, con in braccio due nipotini piccoli, la donna conosceva molto bene il ragazzo, ma temerariamente fece finta di non conoscerlo e lo ignorò completamente nonostante la terribile processione in cui venne trascinato dalla milizia.

Il suo rimanere impassibile, senza il minimo segno o segnale facciale fu confermato anche nel successivo interrogatorio.

La donna rispose decisamente alle domande e per sincerarsi, chiese solamente:

“Cosa farete al ragazzo?”

L’ufficiale rispose:

“Mi divertirò assai, con lui”

Finito l’incubo per la famiglia le squadre della milizia si allontanarono, portando con sé il prigioniero.

La squadra era formata da una ventina di rastrellanti, non erano giovani ma tutti di mezza età, salirono al punto di ritrovo dove un ufficiale attraverso un fischietto richiamò altre squadre impegnate in altre zone.

Il drappello s’incamminò lungo la strada del Santuario verso Savona, a fianco del ragazzo vi era un San Marco alla propria sinistra.

Armato di tutto pugno, con un grosso fucile mitragliatore a cartucciera, che gli girava attorno al collo, scendendogli fino alle gambe.

Non era facile camminare con tutto quel peso per tutti quei chilometri, dopo un po’ il miliziano passò la tracolla al ragazzo, dicendogli di aiutarlo a portare quel gran peso.

Lo stesso cercava di sollecitare il ragazzo a parlare, suggeriva di dire a quale formazione partigiana appartenesse, dove era dislocata, ecc.

Cercava di convincerlo, dicendo che, parlando avrebbe avuto salva la vita o al massimo sarebbe stato condotto in Germania per lavorare.

La pioggia non smetteva di cadere, per proteggersi tutti avevano addosso una sorta di eskimo, un impermeabile mimetico senza maniche che raccolto in vita con una cintura, formava delle pieghe dove i militi infilavano le proprie mani alla ricerca di tepore.

Il sacco si juta  a cappuccio che il ragazzo aveva in testa era oramai zuppo, e mentre la strada curvava a sinistra in direzione Santuario, al ragazzo baleno’ un’idea in testa, non ci pensò molto, agì e con un sobbalzo sì sfilò il cappuccio e si tolse la cartucciera la buttò nuovamente addosso al San Marco con forza, il quale sorpreso si accascio’ a terra e non seppe altro che urlare a squarciagola:

“Fugge, fugge prendetelo!”

Il ragazzo si gettò nel vuoto, nel fitto del bosco e volò via letteralmente, giù per la collina atterrando su arbusti ed alberi fino a terra, non seppe mai che volo fece e per quanti metri cadde giù, in mezzo alle spine, quasi fortunatamente illeso.

Dalla strada in pochi secondi si scatenò una fitta sparatoria in direzione della via di fuga, l’odore della polvere da sparo lacerava l’aria umida, il ragazzo sul fondo del baratro si dovette fermare e la sua pelle era lacerata dalle spine e dagli arbusti, la sua spalla sinistra era forse rotta e piena di dolore, ma la fuga non era finita e dovette dimenticare al più presto quel dolore.

Si infilò in un anfratto in mezzo al fango ed attese in silenzio, ascoltando in lontananza i miliziani che lo ricercavano assiduamente in una escalation di tensione.

La milizia non trovandolo e impossibilitata a lasciare la strada per paura di imboscate partigiane, arrestò poco dopo le ricerche, dandolo per morto.

Il giorno successivo il parroco del Santuario andò a cercarlo e non lo trovò, il ragazzo al fondo del baratro lasciò dietro di sé in quel groviglio di cespugli e di rovi lo zaino e la giacca, attese fino a che non smise di piovere e si incammino’ verso monte in direzione opposta a quella della milizia.

Dolorante, dopo un paio di ore raggiunse alcune famiglie di carbonai dove fu accolto, rifocillato e vestito, sostituendo i panni bagnati e strappati.

Rimase per due giorni su quelle piazzole dove i carbonai producevano il carbone di legna, da rivendere per scaldarsi.

Nel mentre le cose precipitavano ulteriormente su Savona, i partigiani in risposta ai vari rastrellamenti passarono all’azione e fingendo di essere contadini, chiesero l’intervento con una  telefonata ai vigili del fuoco del Santuario per spegnere un incendio che in realtà non c’era.

I partigiani avevano un piano preciso, era quello di far chiamare i rinforzi dal comando VdF di Savona per spegnere questo incendio poiché troppo esteso.

Tra tutti i vigili del fuoco presenti, solo uno si offrì di effettuare la telefonata, una volta arrivati i rinforzi da Savona i partigiani si fecero dare le divise dai vigili del fuoco e scesero fino al passaggio a livello ferroviario prima della Stazione del Santuario.

Fecero così prigionieri tutta la guarnigione di San Marco presente e requisirono ogni arma e munizione.


Vigili del Fuoco Savonesi Militarizzati 1944
 

Rientrati in sede, i Vigili del fuoco hanno poi stilato un rapporto di quanto successe, e l’autore della telefonata fu denunciato all’autorità militare ed incriminato per favoreggiamento, arrestandolo in attesa di processo. Il ragazzo rientrò a Savona e su di lui si ventilava l’ipotesi dello scambio con il pompiere, per varie ragioni non poté trovare rifugio presso la propria famiglia e si dovette appoggiare nuovamente ad altre famiglie amiche, trovò rifugio in un appartamento all’ultimo piano di Corso Italia.

Guardia Nazionale Repubblicana

A Savona si aggiunse in quei giorni un nuovo tragico episodio, dalla finestra di un palazzo di via dei Mille, nei pressi del rifugio dove risiedeva il ragazzo, spararono uccidendo un ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana, il soldato stava scendendo da via De Mari e fu colpito a morte.

Immediatamente fu circondata tutta la zona ed iniziarono le perquisizioni di ogni negozio, palazzo, portone, scala e appartamento

Il ragazzo non era a conoscenza del fatto e non fece a tempo a fuggire, per cui dovette scegliere di nascondersi dentro l’abitazione.

Furono le due ore più angosciose per quella famiglia, terrorizzata dalle eventuali conseguenze, se la milizia avesse trovato in casa il ragazzo.

Poi avvenne un impensabile capovolgimento di fronte, i militi che già stavano irrompendo nella scala furono richiamati dai propri superiori, perché da un controllo si  resero conto che il palazzo dove era il rifugio del ragazzo, era in un luogo troppo isolato a confronto di quello dove in realtà era accaduto il fatto.

Pertanto gli attentatori non potevano rifugiarsi in questo palazzo, e la milizia uscì e si riverso’ ancora in strada ed in altri luoghi alla ricerca di chi sparò.

Fu l’ennesima volta che il ragazzo uscì indenne da episodi del genere, si tratta di una vera fortuna che permise tuttavia di fare salva la sua pelle, salvo naturalmente quella maledetta spalla sinistra il cui dolore non diminuiva certamente.

Nel mentre anche la vicenda del pompiere dopo le le consuete indagini e molti interrogatori si concluse positivamente, egli fu scagionato e rimesso in libertà.

Fu così che il ragazzo decise incontrando numerose difficoltà e pericoli, schivando i vari posti di blocco, di raggiungere la montagna e si recò precisamente presso il comando della 6° Brigata, dove fu assegnato al distaccamento Astengo.

Erano mesi che, dalla fine di settembre, iniziarono le feroci azioni di rastrellamento alla ricerca delle formazioni partigiane, con le sanguinose stragi e le rappresaglie contro la popolazione civile.

Nei nascondigli si viveva in allarme 24 ore su 24, si facevano i turni per la guardia e per intervenire prontamente in caso di attacchi e imboscate.

Nei boschi e lungo le strade collinari era una guerriglia, fatta da entrambi le parti, sia tra i partigiani che le milizie Repubblicane.

Chi rimaneva al campo vigilava ed organizzava i capanni, molti seminterrati e provvisori, altri meno provvisori, più adatti a viverci per l’inverno che era oramai alle porte, tutto questo lavoro risultò però inutile a causa degli eventi successivi.

La fame attanagliava le squadre partigiane, molto più del bisogno di armi e munizioni.

Fu così che venne organizzata un’azione per colpire la guarnigione posta a protezione dello stabilimento Acna di Cengio, l’inverno era duro e non vi fu nessuna reazione da parte del presidio, anzi vi fu addirittura collaborazione, tanto che furono addirittura aperte liberamente la mensa e la cambusa, per il libero accesso e la raccolta dei viveri da parte dei partigiani.

Al ragazzo tutto parve molto strano, tanto da discutere su un eventuale accordo segreto tra le parti.

Naturalmente dopo questa breve pausa in cui le squadre partigiane si rifocillarono, le milizie nazifasciste ebbero il tempo di riorganizzarsi per la dura ed immediata reazione.

Fu un’altra vasta operazione, sicuramente programmata da tempo, e la mattina successiva furono avvistate tre colonne di San Marco in veloce avvicinamento da Cairo Montenotte, Dego e Sassello.

I partigiani si schierarono tutti in trincee preparate da tempo, armati di moschetto, bombe a mano e fucili mitragliatori, i portaordini andavano e venivano dal comando alla linea difensiva.

I San Marco da lontano iniziarono il bombardamento con mortai e mentre si avvicinavano sul luogo, sparavano senza sosta, fu così che il comando partigiano, ritenuto che resistere fosse impossibile, ordinò la ritirata dalle postazioni, in ordine sparso verso il paese di Stella Corona, Stella San Martino, tutte località a sud del Sassello.

 

Nella ritirata si contarono qualche ferito e anche un paio di morti, uno era il furiere del comando, che fu sorpreso ed ucciso sul posto, mentre stava cercando di bruciare quello che non era riuscito a far portare via.

Capanni e campi furono incendiati e il fuoco alimento’ anche incendi nel bosco, continuando fino al giorno dopo.

Poi rientrarono i partigiani, grazie al passaparola e alla collaborazione dei contadini del posto, che aiutarono con tanta fatica per quanto potevano fare, anche per spegnere gli incendi.

Il ragazzo era sempre lì, e fu testimone anche di un altro fatto, non era mai accaduto fino a quel momento, gli aerei alleati effettuavano numerosi lanci di rifornimento alle formazioni partigiane, nella zona di Levice/Prunetto, ma mai ne effettuarono uno per quelle Garibaldine (di matrice socialista e comunista).

Quella notte invece, l’equipaggio degli aerei che sorvolavano quei luoghi, forse traditi dal fuoco degli incendi, fecero un bel regalo alla 6° Brigata, un lancio completo di armi, munizioni, benzina, vestiti, calzature e tanti generi di conforto.

Nei capanni rimasti dagli incendi, furono sistemati come meglio si poteva, quei materiali preziosi appena recuperati.

I contenitori erano sparsi in un’area molto estesa, messi preventivamente al sicuro nel fitto del bosco, lontano appositamente da occhi indiscreti.

Fu un lavoro che impegnò la brigata per qualche giorno, poi il comando ritenne di lasciare quella zona per raggiungere un’altra brigata che operava sui monti sopra la zona di Millesimo, Montaldo e Calizzano.

Il ragazzo assieme alla propria squadra sì incammino’, ma non arrivarono mai a destinazione, il giorno dopo già dall’alba nella zona dove erano diretti, si scatenò un massiccio bombardamento, forse più massiccio del precedente.

È risaputo che le squadre partigiane per loro natura, per essere più veloci nello spostamento non avevano un equipaggiamento adeguato per sostenere qualsiasi scontro di posizione, o protratto nel tempo.

Quando una squadra si trovava costretta ad effettuare combattimenti del genere, in diverse occasioni subì immani perdite.

La tattica partigiana era classica, attaccare fugacemente, colpire e allontanarsi, il famoso mordi e fuggi, mentre per contro, la tattica delle milizie nazifasciste, fu quella attraverso i furiosi rastrellamenti, i posti di blocco o le imboscate, di sfaldare e sciogliere le formazioni partigiane.

La conseguenza fu lo sbandamento, piccoli gruppi di pochi uomini, molte volte disarmati, si ritrovarono isolati senza sapere cosa fare, la cosa migliore fu nascondersi in attesa di eventi positivi o migliori.

In uno di questi gruppi anche il ragazzo, cercava di sopravvivere nuovamente nascosto.

L’unico sistema di comunicazione che funzionava ancora, era il passaparola, circolava una voce, dapprima in maniera frammentaria e non sicura, per poi a mano a mano essere data per certa.

                                                                       1945:

Come quella che arrivò alle sue orecchie, fu emanato un decreto di indulto per tutti i giovani che si fossero presentati alla costituita organizzazione di lavoro “Todt”.

Fu così che nel 1945, il ragazzo si presentò spontaneamente grazie a questo indulto e non subì alcun interrogatorio, anzi fu assunto immediatamente da un’impresa savonese che gestiva alcuni cantieri per quell’organizzazione.

L’organizzazione Todt fu creata per assistere i giovani in difficoltà, e voluta dal comando nazifascista alla costante ricerca di consensi.

Nel cantiere al lavoro, il ragazzo  incontrò altri sbandati, e riuscì a concertare col datore di lavoro una sorta di amnistia sulla propria condanna.

Tra i dissidenti presenti al lavoro molti erano provenienti dalle formazioni garibaldine sfaldate, il ragazzo aderì assieme a loro, alla piccola squadra SAP (squadra azione patriottica) che fu segretamente costituita all’interno del cantiere.

Il compito della ditta fu quello di effettuare scavi per camminamenti e trincee lungo le colline attorno Vado, Quiliano, Savona e Albissola.

Inoltre un altro compito fu quello di sbullonare e recuperare per fonderle, le rotaie inutilizzate nel parco merce della Stazione Marittima al porto di Savona.

La strategia del SAP invece, fu quella di ritardare attraverso vari sotterfugi, il lavoro di recupero rotaie e scavi, facendo di fatto atti sovversivi.

Uno di questi ad esempio, era quello di svitare quei grossi bulloni arrugginiti, per estrarre le rotaie, ma l’inesperienza e e il dolo fecero si che il lavoro procedette molto lentamente.

Per quanto riguarda i lavori di scavo accadeva che alcuni tratti venissero trovati nuovamente riempiti, per poi ricominciare.

Durante un operazione di scavo roccioso in quel di Quiliano, il ragazzo si procurò un leggero e serio infortunio che si aggiunse alla sempre dolorante spalla sinistra e che lo tenne lontano dai cantieri per un breve periodo.

Al proprio rientro, i compagni gli riservarono i lavori meno duri, e nel mentre si arrivò a Marzo del 1945.

Gli alleati erano alle porte e in città ricominciarono assiduamente i rastrellamenti alla ricerca di partigiani e disertori.

Una mattina di lavoro, mentre la squadra si spostava sulle colline sopra Lavagnola, incapparono in un posto di blocco, tutti avevano il tesserino dell’organizzazione Todt, tutti passarono ma il ragazzo no, a lui quel tesserino non servì.

Il sottufficiale che comandava il blocco, gli chiese nonostante il tesserino e le rassicurazioni dei compagni, di presentarsi all’ufficiale che si trovava aldilà del fiume, vicino ad un passaggio a livello ferroviario della vecchia ferrovia dove già vi erano diverse persone.

Anche lì successe qualcosa di inspiegabile, come nelle altre occasioni, ogni qualvolta che il ragazzo si trovò in una situazione critica, come sempre intervenne una persona o un caso fortuito che lo aiutò ad uscirne fuori.

Stranamente nessuno accompagnò il  ragazzo, che fatto un centinaio di metri incontrò una persona conosciuta.

Dall’altra parte del fiume, vicino al muro della ferrovia c’era una segheria con una grande catasta di legna che dava sulla strada, girato il muro lontano da occhi indiscreti il ragazzo saltò sulla catasta e finì nel cortile della segheria.

Quella zona era conosciuta da lui e fortunatamente conosceva anche i proprietari della segheria, che lo nascosero diverse ore in mezzo alla segatura e ai trucioli.

Passato il tempo ed oramai al sicuro, ritrovati alcuni compagni al cantiere, sospesi i lavori, lasciarono passare un paio di giorni e decisero poi di passare nuovamente in clandestinità.

Per fortuna tale situazione durò solo pochi giorni, arrivarono il 24/25 aprile del 1945 e finalmente arrivo’ la liberazione, Radio Londra comunicò che l’offensiva di primavera più volte annunciata con i famosi messaggi, ebbe come conseguenza lo sfondamento da parte degli alleati, della linea fortificata che dal Tirreno arrivava all’Adriatico.

Navi affondate in porto a Savona

Correva voce che tra gli esponenti del Comitato Liberazione Nazionale, i rappresentanti degli industriali e del clero, su Savona vi fosse un patto col comando nazista.

Questi ultimi non avrebbero fatto saltare le strutture portuali comprese quelle della funivia Savona-San Giuseppe di Cairo, lo stabilimento dell’Ilva e tutti gli altri stabilimenti fino a Vado Ligure, purché potessero evacuare la città senza essere attaccati.

La paura in città restò nella zona della stazione ferroviaria, presidiata da diversi gruppi di nazisti, si pensava che potessero far saltare alcuni ponti per tagliare in due le comunicazioni della città.

Il ragazzo insieme alla sua squadra decisero, di presidiarne un paio nella zona dalla vecchia stazione.

I soldati nazisti si muovevano protetti da postazioni di mitragliatrici, alcuni di loro da un gruppo all’altro gesticolando concitatamente, poi d’improvviso saltarono in aria due locomotori e i militari fuggirono via.

Durante la notte i nazisti avevano evacuato la città lasciando intatti quasi tutto quanto era stato convenuto, ma dietro di loro fecero saltare in aria e un ponte dell’Aurelia e una galleria ferroviaria tra Savona ed Albissola, un grosso sperone di roccia tra Albisola e Celle Ligure, in modo che si interrompesse la viabilità sia sulla strada che sulla ferrovia.

Il ragazzo con altri giovani partigiani, partecipò alla presa di alcune batterie di artiglieria contraerea, presidiandole per sorvegliare armi e munizioni abbandonate con l’impegno di provvedere poi ai vari cambi in attesa di organizzarne il recupero.

Alcune squadre di nazisti restò ancora a sorvegliare alcuni depositi ferroviari nell’attesa che gli ultimi convogli andassero via, fu così che nella zona tra le Fornaci e la stazione di Savona avvennero alcuni scontri a fuoco con le forze partigiane.

Proprio nelle ultime ore dell’invasione nazista ci furono numerose perdite soprattutto di giovani partigiani savonesi, un epilogo triste nel quale persero la vita molti amici e compagni del ragazzo.

Savona fu liberata e così tutta l’Italia, i fatti precipitarono quel 25 aprile e l’invasore fu scacciato.

Questo racconto non è una visione personale del  sottoscritto, ma invece è un racconto in terza persona di un’esperienza familiare vera e vissuta, una delle tante dei miei tanti parenti che mi hanno raccontato e che si è tramandata fino ad oggi.

 

Il ragazzo non sarebbe stato altro che un mio parente, esattamente un mio zio, Luigi come anche il pompiere Pietro, che telefono’ per l’imboscata del Santuario fu un altro zio, un giovanissimo 14enne che consegnava dispacci tra le squadre partigiane a Gorzegno rischiando la vita, era mio padre Giulio, un altro zio Emanuele fu molto impegnato nelle squadre partigiane tra Calizzano e Garessio, fu ferito ma sopravvisse.

 La lotta di liberazione fu per me quello, con quei valori di libertà assoluta senza faziosità ma con impegno diretto, a rischiare la vita per un ideale la libertà lo ripeto, per liberare la propria terra da un invasore straniero, da un oppressore. Questo è quello che ho imparato dai racconti diretti di chi lo ha vissuto, questo è quello che vorrei si ricordasse, esperienze personali e scelte, non sempre dettate da un’ideologia, non sempre dettate dallo stomaco. Oggi più che mai si perdono quei valori nei meandri dalla faziosità e dell’ideologia, ma bisogna analizzare il perché di quelle scelte, perché un giovane di poco meno di vent’anni possa scegliere da che parte stare, sono scelte oculate e non categoriche. A volte una scelta sofferta che divide in due molte famiglie, dove da una parte vi è un fratello partigiano e dall’altra un altro fratello militante nella Repubblica di Salò. Questo fu la guerra civile, una guerra intestina che spacco’ in due il paese e che ha generato con reazioni violente la nostra nazione odierna.


Il 25 aprile per me, non deve essere il simbolo di quella spaccatura ma deve per sempre ricordarne gli eventi con lucidità, allo stesso tempo, riconoscendo i valori della Resistenza che hanno portato decine di migliaia di ribelli a liberare un paese, dall’oppressione nazifascista.

Per contro, dall’altra parte altre decine di migliaia di militi per diversa scelta hanno vestito una diversa casacca, italiani anche loro tutti vittime in qualche maniera di sistemi e ideologie, ma non per questo privi di valori.

Purtroppo furono anche molti i casi di vendetta, molte volte anche a livello personale effettuati da pseudo partigiani come molti furono i casi di brigantaggio.

Episodi vergognosi, indegni, che dovrebbero essere riconosciuti da ambo le parti per una Concordia dopo 70 anni e più.

Non mi soffermerò più parlare di ciò, in  quanto ritengo che i valori della Resistenza sono inossidabili, la nostra nazione è rinata grazie alla lotta di liberazione, le vergogne di un ventennio dittatoriale e di un’invasione da parte di una nazione ostile, non potranno mai essere messe sullo stesso piano ideologico.

Ma sia chiaro da ambo le parti se si vuole far cessare veramente questa fase di stallo, bisognerà riconoscere che i morti di una guerra civile non hanno né colore né bandiera, ma sono morti italiani.

Paolo Bongiovanni

 

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