Il pero di casa
Il pero di casa
Un tempo si andava a far spesa piuttosto di rado e si compravano solo cose indispensabili, cose che la terra o le bestie non avrebbero potuto dare
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IL PERO DI CASA |
Un tempo si andava a far spesa piuttosto di rado e si compravano solo cose indispensabili, cose che la terra o le bestie non avrebbero potuto dare. Si comprava il sale, i fiammiferi, l’olio, le acciughe. Nei giorni di fiera si comprava addirittura qualcosa di più: un bene durevole, come un paio di braghe, un grembiule, un utensile.
Nei negozi dei nostri paesi non si trovava frutta. O era molto raro trovarne. Ognuno mangiava la sua, quella che era riuscito a portarsi vicino a casa in forma d’albero. Oggi mangiamo la frutta come alimento salutare, come chiusura del pasto. Quasi un dessert, un vezzo goloso: ci godiamo ogni tipo di frutta, volendo anche fuori stagione. È consigliata e promossa anche per lo spuntino intermedio, fra un pasto e l’altro. È sempre bella, sana, grossa, colorata. Ma sempre più raramente viene dalla nostra terra, spesso da fuori regione. Questa premessa serve per dire quanto sia cambiato il valore della frutta sulle nostre mense. Secondo le memorie delle persone più anziane, chi possedeva vicino a casa uva, fichi, cachi, peschi da vigna, era quasi un signore. Ma anche prugne o ciliegie. Voleva dire avere un companatico da presentare in tavola insieme alla onnipresente polenta. Voleva dire avere variabilità di gusto. Voleva dire persino dolciume, dacché non c’era possibilità di accedere ai dolci propriamente detti (tanto per motivi economici, quanto per accessibilità). Fichi, uva e cachi sono dolcissimi. Per questo nutrienti, per questo degni di essere consumati come fossero companatico. Alcuni si possono pure conservare: i fichi si seccano, l’uva pure si secca o si trasforma in vino. I cachi si raccolgono anche acerbi, e durano abbastanza. Le nespole (pucio, in dialetto) si raccoglievano acerbe, e si facevano maturare nella paglia (“Tranquillo come un pucio” si dice di persona a suo agio). Meli e peri, più duraturi, potevano stare anche un poco più lontano, magari su un pezzo di terra marginale, un praticello non particolarmente redditizio, o scosceso. Si aspettava fin dopo San Matteo (21 settembre) per poi raccogliere le mele e metterle al riparo, fra la paglia della soffitta, pronte per il consumo invernale. Poi, lentamente, è arrivata l’industria, è arrivato il benessere, è aumentata la popolazione. La cascina non poteva bastare per una famiglia, che da centro di produzione è diventata solo più centro di consumo. Le condizioni generali sono oggettivamente migliorate, ma quelli come me non possono fare a meno di notare che non è tutto bello e perfetto, e non tutto quello che abbiamo lasciato meritava di essere scartato. Qui vi parlo di un pero in particolare, e di un ragazzo, padre di famiglia di Dego, Corrado Ghione, che ha una passione viscerale per la sua terra. In questi tempi molto estetici e superficiali, sono in molti a protestare la propria passione per l’alimentazione sana, l’autoproduzione, la riscoperta degli antichi sapori. Spesso tutto questo si condensa in numerose fotografie pubblicate su social network. Insomma: molto di sovente si celebra l’agricoltura, ma nei fatti ci si tiene opportunamente alla larga da zappe, vanghe, ed altri ordigni faticosi. La prima scoperta che fa chi “torna” alla terra è la sua scomoda locazione: troppo in basso, lo han sempre detto anche i vecchi. Le scuse per starne lontani sono sempre le stesse: mi piacerebbe, ma non ho tempo. Dove abito io, non c’è terra. Volevo farlo, ma con gli orari del lavoro, la famiglia, sai… E allora ci si accontenta della vuota celebrazione, della nostalgica visione di un mondo perfetto. Tutto mentre si degusta magari un aperitivo, roteando un bicchiere, ingoiando tartine confezionate in Nuova Zelanda. Corrado, come dicevo, fa eccezione. Certo, celebra la terra e pubblica spesso fotografie anche lui. Ma questa è una conseguenza, non il fine. Da qualche anno è venuto alla ribalta perché ha speso tempo e risorse nella valorizzazione di uno di quei frutti dimenticati, un frutto fuori moda, inadatto per il mercato convulso e affrettato dei market. Nel territorio fra Giusvalla, Dego, Spigno Monferrato e Pareto, ha scoperto (o ri-scoperto) un certo numero di peri antichi, alcuni centenari, produttori di piccole pere profumate e dure, che passano in un attimo dalla troppa durezza alla morbidezza che annuncia il deperimento. Sono buone in quei pochi giorni in cui sono “nizze” (questo il termine in dialetto). Prima sono inattaccabili, dopo sono marce. Come potrebbe un supermercato gestire un prodotto del genere? Il mercato stesso vuole solo roba stabile, sicura, duratura, possibilmente di plastica…
Questo pero è invece l’esatto contrario della frutta del supermercato, poco duraturo e delicato, come spesso in natura accade. Cogli l’attimo: mangia la pera al momento giusto! Insomma, è un pero da avere in giardino, o nella terra dietro casa. Se si vuol godere di questa pera bisogna aver la pianta a portata di mano. Non ho ancora detto il nome di questo frutto. È il “pei buccun”, dove “boccone” sta a suggerire la dimensione del frutto, tale da poter essere mangiato quasi in un sol boccone. Corrado ha vagato in ogni stagione tra i vari comuni, ha parlato con anziani, passanti, casalinghe, contadini. Si è informato, ha valutato, assaggiato, prelevato frutti, campioni di rami e di foglie, parlato con esperti (perché servono anche gli esperti) di botanica, di territorio, di frutticoltura. Ha parlato anche con le istituzioni che sono state ad ascoltarlo, come il comune di Giusvalla. Come Slow Food. Alla fine sono riusciti ad organizzare un evento: “Salviamo il pei buccun”, un pomeriggio di primavera, a Giusvalla, quasi per scommessa, un mercatino, un punto di distribuzione per le marze da innesto di questo pero. Ne avevano preparate un centinaio. Sembravano troppe, mi ha confidato Corrado. E invece in un attimo sono andate esaurite! E intorno al mercatino e all’evento cresce l’interesse per i frutti tradizionali, sulle tecniche d’innesto, di potatura, non solo del pero.
A pochi chilometri Lucrezia Decerchi, titolare dell’agriturismo La Molina di Pareto recepiva la questione, ne avvertiva la valenza, e avviava una produzione sperimentale di confetture e nettare di questo pero, profumatissimo e adatto per questo tipo di preparazioni. Corrado può essere contento: ha avviato un volano molto grande, forse neanche lui, neanche noi suoi contemporanei sappiamo quanto. Ma non basta: ha portato un esempio di come l’agricoltura sia questione che ci riguarda, e non solo vuota celebrazione dei bei tempi andati, o vana rappresentazione di quel che si potrebbe fare (e non si fa). Questa campagna, questa terra, non è (e non lo è mai stata) solo un seme che germina e che viene raccolto, ma persone che parlano e si scambiano informazioni, recuperano, imparano e insegnano, scambiano semi, sperimentano, coltivano, vendono e comprano, partecipano attivamente insieme, costruiscono, faticano, si sporcano le mani e a volte sbagliano anche. Poi dopo, solo dopo però, fotografano e mettono su facebook il loro bel risultato. E noi possiamo solo imparare.
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