IL PATRIMONIO DEL TEMPO

IL  PATRIMONIO DEL TEMPO
 
Qualsiasi discorso sul tempo presuppone la sua esistenza

IL  PATRIMONIO DEL TEMPO
Qualsiasi discorso sul tempo presuppone la sua esistenza. Ma se, invece di presupporla come presupponiamo ad esempio l’esistenza dello spazio, provassimo a dedurla tramite prove e dimostrazioni, incontreremmo  non poche difficoltà. Che cos’è, infatti, il tempo? Come possiamo definirlo? Che cosa misuriamo, in realtà, quando diciamo che è passata un’ora, o una giornata o, addirittura un’epoca?
Se consideriamo le diverse risposte che sono state date a queste domande, ci rendiamo subito conto  della “relatività” e della soggettività del concetto di tempo  di volta in volta predominante nel contesto sociale e culturale in cui ciascuno di noi si trova a vivere e a lavorare (quando e se lavora). Per Parmenide il tempo è qualcosa di simile a un’illusione dei nostri sensi, illusione derivata dall’osservazione del mutare dei corpi e dal loro movimento; ma tutto quello che si muove e cambia, tutto quello che diviene e passa da un luogo all’altro, da una condizione all’altra, e, insomma, che nasce e muore, propriamente parlando non esiste, dal momento che l’essere vero è immobile ed eterno. Ma la prima definizione vera e propria del tempo la troviamo nel Timeo di Platone. là dove narra che il Demiurgo, dopo aver contemperato e armonizzato insieme i quattro elementi del cosmo, e dopo aver dato al mondo la forma di una sfera perfetta, gli impresse un movimento di rotazione e creò il tempo quale “immagine mobile dell’eternità” che “procede secondo il numero”. Questa immagine mobile è il cielo stellato che ci dà anche la misura della scansione temporale e del suo tracorrere dal passato al futuro attraverso il presente. Nella concezione platonica  del tempo (come, d’altronde, in quella di mondo) è assente l’idea di creazione ex nihilo. Con il cristianesimo e, in particolare, con Sant’Agostino, entra invece in scena proprio la creazione ex nihlio; sì, solo che non si è mai riusciti a spiegare  in modo convincente il significato dell’espressione ex nihlio: “Ecco come rispondo a chi chiede: ‘Cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra?’. Non rispondo come quel tale che, dicono, rispose eludendo con una facezia l’insidiosità della domanda: ‘Preparava la geenna per chi scruta i misteri profondi’. Altro è capire, altro schernire. Io non risponderò così. Preferirei rispondere: ‘Non so ciò che non so’, anziché in modo d’attirare il ridicolo su chi ha posto una domanda profonda, e la lode a chi diede una risposta falsa” (Confessioni, XI). Per Agostino, dunque,  la domada su che cosa c’era prima che ci fosse il tempo è senza senso, dal momento che sarebbe come chiedersi quale creatura ci fosse prima della prima creatura: non può esserci un prima e un dopo se non nel tempo, come non può esserci alcunché prima che ci sia qualcosa. Il tempo non è esterno ma interno all’anima, è distensio animi verso il passato e verso il futuro; ma il futuro ancora non c’è e il passato non è più, quindi sembra che ci sia solo il presente.
Nondimeno il presente non ha durata, perché cade immediatamente nel passato, quello che rimane nell’anima è la memoria del passato, non il passato in quanto tale, che, appunto, è passato. Così il futuro è tale finché non diventa passato attraverso il presente, venendo meno  come futuro. Per Agostino, non ci sono tre tempi ma tre modi di essere presente: il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro.

Kant, invece, distingue la percezione reale da quella immaginaria del tempo: la percezione reale è basata sulla categoria di causa: è legge necessaria della nostra sensibilità, e quindi condizione formale di tutte le nostre percezioni che il momento precedente determini il seguente, mentre nell’immaginazione è possibile invertire l’ordine di successione dei momenti e degli eventi.

 
Dunque il nostro modo di concepire il tempo, sia che ce ne rendiamo conto o meno, non è senza conseguenze  nella nostra vita pratica quotidiana; lasciando ora da parte il significato religioso del tempo, anzi, dei tempi della liturgia per i credenti e i partecipanti e gli officianti di un culto, pensiamo a come è per lo più concepito il tempo profano ai giorni nostri:  così la vita pubblica come quella privata è scandita dal tempo dell’orologio, vale a dire da una misura temporale meccanica e  convenzionale. Si tratta del tempo “spazializzato” della scienza che Bergson distingue e contrappone al tempo vissuto da ciascuno, cioè alla durata come è percepita dalla coscienza, e nella quale non ci sono separazioni tra uno stato e un altro, ma è un continuo fluire o scolorare trapassando da uno stato nell’altro. Invece la rappresentazione prevalente del tempo è quella geometrica della linea, ma la linea è immobile,  la durata invece è in perpetuo divenire; inoltre l’idea oggi dominante  è quella che  mette il tempo in relazione o al lavoro o al  cosiddetto “tempo libero”. Ma, tanto il tempo di lavoro quanto quello libero è predeterminato dal tipo di organizzazione sociale entro la quale si svolge la nostra vita, e difficilmente possiamo sottrarci all’idea, per esempio, che in certi casi “perdere tempo” ce ne fa guadagnare, e che non sempre vale l’equazione “tempo = danaro”. Per rendercene conto basterebbe chiederci se questa equazione è reversibile: si può forse dire  anche “danaro = tempo”? Considerando la lentezza e la fatica con cui si guadagna onestamente il danaro, e la facilità e la velocità con cui lo si può spendere, si dimostra subito l’infondatezza di quella equazione. Ma tant’è, il nostro tempo è caratterizzato – come osserva, tra gli altri, Salvatore Natoli – dalla frenesia del produrre e del consumare, secondo i ritmi imposti dalla concorrenza e, in ultima analisi, dal mercato; quindi non dalle nostre più autentiche e profonde esigenze. Che non sono certo quelle del produrre per consumare e del consumare per produrre (o di  vivere per lavorare anzi che lavorare per vivere) ma, caso mai, di realizzare le nostre potenzialità, anche riguardo alla dimensione estetico-contemplativa e poetica dell’esistenza. “Eppure – scrive Natoli – produrre è oggi un dovere, è l’imperativo moderno. Il moderno ha privilegiato l’ homo faber, vale a dire quel tipo d’uomo per cui l’attività produttiva prevale sul libero agire. Da questo punto di vista l’agire che si sottrae alle leggi del produrre è misconosciuto o comunque ritenuto inutile e irrilevante”. Ma, se si pensa che senza il libero agire non ci sarebbe nemmeno la possibilità, per ciascuno, di realizzarsi nel modo più corrispondente alla propria personalità, si comprende subito come è proprio il tempo che noi dedichiamo al nostro libero agire quello più necessario e importante. Ecco, questo potrebbe essere l’inizio di un discorso non solo teorico ma quanto mai pratico sull’uso migliore possibile del patrimonio-tempo.

 

 

 

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