Il lavoro degno

Il lavoro degno
Negli ultimi anni il mondo del lavoro si è complicato molto

Il lavoro degno

Negli ultimi anni il mondo del lavoro si è complicato molto. Sono cresciuto in un’epoca in cui trovare un posto era una questione di tempo e di adattamento. Si poteva dire che anche senza cercarlo, prima o poi ci saresti capitato. Magari lavori non facili, o non proprio ben pagati. Ma, sulla distanza, tutti trovavano lavoro. Ed era quasi sempre un contratto a tempo indeterminato. Nelle antiche gerarchie del lavoro dei nostri vecchi si partiva dal mezzadro (cioè quello che non possiede nulla, se non un diritto determinato a lavorare un certo appezzamento ed abitare la casa colonica relativa) per passare al lavoro “Sotto impresa” (lavori materiali, spesso di manovalanza, edili, di carpenteria, spesso all’aperto), oppure “in fabbrica” (dove il nome del paese sostituiva il nome dello stabilimento, si diceva infatti: “A Cengio” per dire all’ACNA, “A Ferrania” per dire 3M, “A Bragno” per dire cokitalia, “A Dego” o “Ad Altare” per dire in vetreria. Di un grado superiore ancora era il lavoro nell’amministrazione pubblica: fare il ferroviere, il bidello, il cantoniere, il sottufficiale dell’esercito, erano tutti lavori da gran signori, sicuri, protetti e consolidati.

   

Mentre scrivo mi rendo conto che non sto parlando di ere geologiche, ma di manciate di anni bruciati nel braciere della Storia in un attimo.

In ogni caso, quando alla fine degli Ottanta, finito il militare, ho potuto scegliere se entrare in una fabbrica o un’altra, o un’altra ancora, ho scelto la prima, la 3M, perché per comune conoscenza si trattava del miglior posto possibile, quasi al livello di un lavoro statale.

Allora Ferrania era ancora quel mostro potente e redditizio che amministrava un paese, una frazione di Cairo Montenotte. Uno stabilimento pulitissimo, dove anche solo per questioni di decoro pubblico si spendevano un sacco di soldi. Mensa, visite mediche, colonie estive e invernali, premi di produzione, premi per la campagna antinfortunistica, corsi di aggiornamento, dopolavoro, cene sociali parzialmente sostenute dalla direzione. Per contro, bisogna ricordarlo, la direzione dello stabilimento aveva un prodotto eccellente, un sistema di produzione tra i più elastici del mondo, un centro ricerche unico in Italia e forse in Europa, delle maestranze spesso legate affettivamente al lavoro, al prodotto, allo stesso stabilimento presso al quale abitavano e vivevano.

Non voglio qui fare la storia della crisi. Non ne sarei in grado. Mi sono reso conto che i motivi sono stati tantissimi, complessi. E che la crisi non riguardava solo la pellicola, ma il sistema industriale in genere, almeno QUEL sistema industriale.

In ogni caso, dopo le manifestazioni, dopo le speranze, dopo i fallimenti e le ricostituzioni, i rilanci, i progetti, le promesse dei politici, le sparate dei giornalisti, Ferrania ha cessato l’attività legata alla fotografia, e prosegue con molti meno dipendenti attività diverse, alcune di miglior sorte, altre in difficoltà.

 

Mentre vivevo i giorni della crisi mi sono chiesto più di una volta cosa potevo fare, come potevo risolvere il problema, visto che diventava sempre più chiaro che nello stabilimento non ci sarebbe più stato posto per tutti. Ma soprattutto, ascoltando le nuove politiche del lavoro (siano essere di centrodestra o di centrosinistra) di poteva percepire chiaramente che non saremmo mai più tornati a pensare al lavoro come un momento della nostra vita, al di là dello stipendio. E perciò fosse anche indegno, anche mero sfruttamento, fatica fisica o mentale, quasi sicuramente il lavoro stava diventando solo e unicamente produzione.

L’abbondanza della mano d’opera autorizzava questa visione. “Se non ti va, lì c’è la porta. Ce ne sono altri cento pronti a prendere il tuo posto”. Questa frase è sempre stata usata come una minaccia. Ora non è più un modo di dire. E infatti è diventata implicita, e non c’è più bisogno di pronunciarla. Il sistema industriale prevede, per il dipendente, di non avere un contatto diretto con il “padrone”. C’è sempre una enorme mole di emissari, impiegati, incaricati, addirittura avvocati, che si pongono in mezzo. Il proprietario (i proprietari) ti spostano, ti licenziano, ti vietano certe cose con un semplice tratto di penna. Dimezzano stipendi, rimandano pagamenti, impongono orari. Mi dicono di un’industria oggi, che vieta ai suoi dipendenti di bere, in modo che non debbano poi andare in bagno e quindi perdere tempo. Non so se sia vero. So che è verosimile, e non mi stupisce.


 

Queste cose si sono andate realizzando negli ultimi sei, sette anni. Ed io, qualche anno fa, ho preso la mia decisione. Incapace di salire sulle barricate e fare la rivoluzione, ho pensato che sarebbe meglio non rientrare nel mondo industriale. Perlomeno di questa industria, anonima e prepotente.

Ho trovato lavoro come garzone di panetteria. Lavoro fianco a fianco con il mio capo, con cui divido la fatica, il freddo e il caldo. Lui conosce il suo mestiere, lo fa coscienziosamente e con attenzione. È un lavoro molto duro. Sei notti a settimana, si corre per arrivare a portare in tempo pane e focaccia su e giù per le nostre colline. Nel caldo del forno e delle notti estive, nel freddo e nella neve delle lunghe notti invernali. Siamo sempre soli, io e lui. Parliamo poco, siamo abbastanza contrariati dal sonno, dalla fatica e dalla temperatura sempre troppo alta o troppo bassa. Non c’è una sedia nel forno. Non c’è per me, e non c’è per lui. Terminato il lavoro io carico il furgone e parto, lui si ferma in laboratorio, ripulisce tutto, e prepara per la notte che sta per arrivare.

 

 

Mi paga quel che è previsto, a tempo debito. Se c’è qualcosa che non va me lo dice. Se qualcosa non va a me, glielo dico. E ogni sera ci salutiamo semplicemente, guardandoci negli occhi, perché non abbiamo conti in sospeso di nessun tipo.

Ho incontrato un ex collega di lavoro qualche tempo fa. Era preoccupato perché non trovava nulla di decente. Gli era capitato di collaborare con una azienda che sembrava seria, anche se non si capiva bene cosa facesse. Tutti ben vestiti, cravatte, tailleurs, valigette. Lo stipendio era scarso, ma le provvigioni molto interessanti, per cui con poco si poteva guadagnare bene. Si sarebbe trattato di suonare il campanello delle case in una certa zona, convincere il capofamiglia a fare una “firmetta” su un contratto per cambiare gestore energia. Insomma, bisognava sapergliela raccontare un po’, dirgli delle cose magari non proprio vere, ma soprattutto bisognava cercare le persone anziane, sole, quelle erano più facili da convincere.

 

 

“E tu cos’hai fatto?”

“Quando ho capito che lavoro era – mi ha detto l’amico – me ne sono andato per funghi. Finché nascono, qualche chilo lo trovo, lo vendo. È sempre meglio che far firmare dei fogli a delle persone. Mi sembra più onesto”.

Si, è più onesto. Ed è atroce che una persona si trovi nella condizione di dover di fare un lavoro quantomeno indegno, per sostenere la propria famiglia.

Ed è bello, pensavo, che ancora una volta i nostri boschi, i nostri funghi, servano a qualcosa. Hanno fatto studiare mio padre e mia madre una volta. Oggi aiutano questo mio amico.

  Alessandro Marenco

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