IL gioco

IL GIOCO
 

è un ottimo rilevatore di spiritualità

IL GIOCO
è un ottimo rilevatore di spiritualità

Il gioco è una ulteriore prova della spiritualità degli animali. I quali hanno diversi gradi di spiritualità. I coccodrilli infatti non giocano come i gatti. Non tutti gli animali hanno raggiunto uno stesso grado di sviluppo. Tra essi, chi è più indietro non ha colpa del ritardo e non deve perciò subirne le conseguenze in termini di violenza.

 Tutti hanno la potenzialità di svilupparsi mentalmente; e l’uomo, che tra gli animali è quello cerebralmente (per lo meno dal punto di vista corticale) più sviluppato, ha raggiunto un punto tale da arrivare a capire che deve rispettare coloro che un tale grado di sviluppo non lo hanno ancora raggiunto.  In altre parole, l’uomo deve vedersela con il concetto, e la pratica, della responsabilità. La conoscenza, dal punto di vista del mero tornaconto edonistico, è freno, è impiccio, è danno. E crea sensi di colpa che mai compaiono, neppure pallidamente, in chi di conoscenza, nel senso di sviluppo spirituale, è privo.

Orbene, il gioco è un ottimo rivelatore e rilevatore di spiritualità. Si gioca per il gusto di giocare. Non per guadagno, non per potere o per gloria. Si gioca per gioco. E’ un’attività, a livello di chi gioca, autoreferenziale. Certo, la natura se ne serve funzionalmente, e la società umana e delle varie specie animali, anche. Ma l’individuo intenzionalmente non gioca per prepararsi ad una più adeguata vita futura; gioca perché gli piace. Ecco, una attività che ha ragion d’essere in se stessa, non finalizzata ad altro, dà il senso della pienezza, di un edonismo non egoistico. Lottare senza far male, vincere senza uccidere, obbedire a delle regole che divertono e che si è liberamente scelto e che sono tanto del leone quanto dell’uomo, tanto del delfino quanto della scimmia. Quando mai si potrebbe dire che praticare una attività come quella ludica non esprime intelligenza? Prima o poi, compresa profondamente la sua piccolezza, quasi la sua insignificanza, l’uomo avrà davanti due strade: scegliere di finire e scegliere di giocare. Ed entrambe saranno la prova che davvero egli ha raggiunto un grado di intelligenza straordinaria.
Elemento fondamentale che ci fa dedurre l’intelligenza e la spiritualità dell’animale che gioca, è la finzione. Il gioco è finzione. E’ una questione quanto mai complessa e paradossale. Per molti motivi. Uno di essi consiste nel fatto che contro l’opinione corrente, bisogna, dopo un minimo di approfondimento, constatare che la finzione una volta tanto ha valenza positiva. Travalica cioè l’idea immediata che le si associa puntualmente di falsità, inautenticità, doppiezza, calcolo egoistico o egocentrico, e ci introduce invece in un’ area spirituale di spontaneità, totale mancanza di interesse egoistico, pienezza emozionale. Quando il cane provoca il padrone fingendo di non volergli restituire il piccolo bastone che questi gli aveva lanciato lontano affinché lo andasse a recuperare e affinché glielo riportasse, e lo tiene ben serrato tra i denti, e in tale atteggiamento insiste nonostante il tentativo del padrone di riappropriarsene si faccia più consistente, ecco, sta giocando. Non per nulla se il padrone finge di rinunciare allontanandosi, il cane gli si para di nuovo dinnanzi e nuovamente lo sfida. Dunque vi è insieme un volere giocare che comporta un fingere di non voler cedere quel piccolo pezzo di legno che invece il cane vuole cedere proprio perché vuole che ancora gli sia lanciato lontano. Dopodiché sarà nuovamente suo compito mettersene alla ricerca e riportarlo per, un’altra volta, fingere di non volerlo cedere. Una situazione del genere implica facoltà intellettuali decisamente sofisticate. Potremmo dire che il discrimine tra l’animale intelligente e la macchina è proprio questo: la macchina può fingere, come fa il virus in un programma di computer; ma non può fingere col gusto di fingere. Oltretutto il cane (ma non solo il cane sa giocare, per cui non si tratta che di un esempio come un altro) ha una consapevolezza che ne innalza ulteriormente la spiritualità in questo pur strano contesto interessantissimo e complicato di finzione: capisce che il suo scherzo di non mollare la presa, di abbaiare perché una volta perdutala (in realtà ceduta) tutta la sceneggiata ricominci, di ringhiare e persino mostrare minacciosi i denti digrignati, è compreso come scherzo dal padrone. E’ un “Io so che tu sai che io so”, ovvero, io (cane) so che tu (padrone) sai che io (cane) nel mostrarmi pericoloso e testardo e arrabbiato, non ce l’ ho con te e anzi voglio proprio te come compagno di giochi. E ciò mi pare si possa senz’altro considerare come espressione di affetto. Di affetto non interessato all’ottenimento di qualcosa (per esempio cibo). Quello del gioco è forse allora il più eclatante fatto in cui la spontaneità coincide con la finzione. Non c’è opposizione tra le due. Non c’è reciproco annullamento. E i conti tornano proprio perché non è previsto nessun tornaconto.
Fulvio Baldoino
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