IL DECLINO INGLORIOSO DI UN GIORNALISTA

IL DECLINO INGLORIOSO
DI UN GIORNALISTA

 

    IL DECLINO INGLORIOSO DI UN GIORNALISTA

    Leggo e rileggo il “Dubbio” (che, in realtà,  è una  certezza), rubrica settimanale di Piero Ostellino sul Corriere della Sera, di sabato 20 luglio, intitolato “La sciocchezza di Calderoli”, senza riuscire a coglierne la vantata  ispirazione  liberale, o la pretesa dimostrazione di “correttezza professionale” a fronte di tanti esempi di scorrettezza e di ipocrisia provenienti da “certo giornalismo” indignato, secondo Ostellino in modo strumentale, per l’ormai planetaria gaffe razzista dell’attuale  vicepresidente del Senato della Repubblica Italiana, né il suo intrinseco significato. E mi chiedo: che cosa può aver spinto uno storico ed emerito giornalista del Corriere – che nel corso della sua lunga carriera ne ha viste  tante e di tutti i colori –  ad arrampicarsi sugli specchi nel tentativo di derubricare l’insulto di chiara matrice razzista, che un rappresentante delle istituzioni ha creduto bene di profferire nei confronti del ministro Cécile Kyenge nel corso di un comizio, a banale “battuta”, volgarotta finché si vuole, ma non poi così grave e intollerabile come l’hanno subito giudicata i soliti “moralisti di professione”? Tanto più che, argomenta tartufescamente il poco dubitante e molto supponente giornalista emerito, “la signora insultata si è comportata in modo esemplare”; come se il comportamento esemplare e civilissimo del ministro Kyenge attenuasse e non aggravasse invece, mettendola ancor più in evidenza, l’inciviltà del vicepresidente del Senato. Ma vediamo, prima di tutto, che cosa ha detto esattamente Calderoli  dal palco della festa della Lega Nord a Treviglio, il 14 luglio scorso: “Fa bene a fare il ministro, ma forse lo dovrebbe fare nel suo Paese. E’ anche lei a far sognare l’America a tanti clandestini che arrivano qui. Io mi consolo quando navigo in Internet e vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango”. Notare la finezza della precisazione “anche se non dico che lo sia”; ora, va bene che Calderoli parlava a un pubblico primitivo e incolto in una festa di “barbari sognanti” e non all’Accademia dei Lincei (ammesso e non concesso che un Calderoli possa mai mettervi piede), ma questo non giustifica in nessun modo il tono sprezzante da lui usato verso il ministro Kyenge per lisciare il pelo a una base leghista già fin troppo incline alla diffidenza per il diverso e timorosa di perdere chissà cosa.


Per di più l’insulto dell’improvvido Calderoli – non nuovo a gesti clamorosi e oltraggiosi, oltre che pericolosi, come quelli contro gli islamici – viene ad aggiungersi a quelli di Borghezio, della pasionaria leghista padovana Dolores Valandro, poi espulsa malgrado le scuse, dei militanti di Forza Nuova, ecc. Di fronte a queste espressioni di ignoranza  e degrado valoriale e culturale che danneggiano in primo luogo chi le usa, abbiamo la risposta “esemplare” di Cécile Kyenge: “Ascoltando queste parole provo rammarico. Bisogna usare la propria visibilità per trasmettere messaggi costruttivi. Chi siede nelle istituzioni deve cercare di utilizzare la propria posizione per confrontarsi; ben vengano le critiche costruttive purché basate sui fatti, non sulle offese”. Che dimostra al di là di ogni possibile dubbio, la superiorità culturale e morale della ministra di colore rispetto a chi la insulta a motivo della sua provenienza geografica e del suo fenotipo. A me pare che ci sia ben poco da aggiungere, se non che, dopo le sue goffe scuse obbligate e la sua finta e strumentale contrizione coram populo (“le invierò un mazzo di rose”; ma mi faccia il piacere, direbbe Totò!), Roberto Calderoli avrebbe dovuto rassegnare le sue dimissioni, data l’evidente incompatibilità tra il suo ruolo istituzionale e la sua assoluta mancanza di decoro e di rispetto per il medesimo: il vicepresidente del Senato (come  qualunque parlamentare o cittadino) non può permettersi di mettere alla berlina un ministro per il colore della sua pelle, o, se lo fa, ha l’obbligo morale di lasciare l’incarico a persona più degna. Il paragone di Calderoli ha infatti provocato una reazione di condanna da parte dell’Alto commissario Onu per i diritti umani e ha fatto sì che il Financial Times esortasse la classe politica italiana a espellere i razzisti dal suo seno. Altro che “sciocchezza” di un pover’uomo che non sa quello che dice! Eppure il nostro giornalista emerito non perde l’occasione di esibirsi in uno dei suoi numeri preferiti: l’opinionista politicamente scorretto che ha il coraggio e l’onestà intellettuale di andare controcorrente per amore della serietà e della correttezza professionale. Sentite come cerca di motivare la sua diffidenza circa la buonafede di chi accusa l’incauto Calderoli di razzismo, per di più aggravato dalla volontà irresponsabile di compiacere il ventre molle della Lega: “L’accusa viene troppo spesso da giornalisti che fanno abitualmente la stessa cosa, scrivono (solo) quello che alla parte peggiore dei loro lettori piace sentirsi dire; praticano un giornalismo forse più attento alle forme ma di certo non meno cinico di quanto sarebbero state le parole di Calderoli”. Ostellino lancia il sasso, come è sua abitudine, ma nasconde la mano: a chi si riferisce? A Repubblica? Al Sole 24 ore? Al Fatto quotidiano? Al Manifesto? Allo stesso giornale su cui scrive?  Non certo a testate politicamente scorrette come Libero o Il Giornale o il Foglio. E che cosa vuol sentirsi dire la parte peggiore dei loro lettori? Che non solo Calderoli, ma anche Alfano e lo stesso leader carismatico condannato per frode fiscale, concussione aggravata e induzione alla prostituzione minorile sono degni di rimanere al loro posto, o forse no? Ma veniamo alla sostanza del suo ragionamento: ammettiamo pure che l’accusa a Calderoli da parte di molti  giornalisti sia fatta in malafede e per abietti motivi di bottega politica o commerciale, forse che la frase di Calderoli perderebbe il suo significato dispregiativo e squalificante? Detto altrimenti: se anche un ladro accusasse di furto un altro ladro colto in flagrante, forse che il furto verrebbe derubricato a “prestito” tuttalpiù indebito?


Piero Ostellino

Il periodo che segue è ancora più oscuro (e non mi pare che l’oscurità sia un pregio per un giornalista serio e corretto come pretende di essere Ostellino) e allusivo: “Né, a loro giustificazione, vale che alcuni ‘grandi giornalisti’ del passato abbiano fatto le proprie fortune professionali, e persino economiche, lisciando, per tutta la vita, il pelo per il verso giusto alla belva che è la folla”. Qui l’accusa è grave, e la colpa è chiara: aver piegato la propria capacità professionale  a fini di captatio benevolentiae e di cassetta, non peritandosi di manipolare notizie, occultarne altre, suggerendo interpretazioni di comodo per favorire qualche potentato, insomma  venendo meno ai principi deontologici della professione; non è però chiaro a quali “grandi giornalisti” del passato alluda il giornalista emerito del Corriere. Più che del passato, qualche nome di giornalista attivo nel presente mi verrebbe da fare, ma non ho riscontri sufficienti, quindi mi astengo. L’oscurità nondimeno s’infittisce quando Ostellino prega il buon Dio di farlo morire “prima di leggere di me ‘il grande giornalista’ – il classico occhiello di ogni articolo in cui parlano dei loro  venerati, e imitati predecessori – significherebbe solo due cose: o, come era accaduto a certi antichi colleghi in questione, che mi sono rincoglionito e l’elogio ha una funzione bassamente clientelare e una natura inutilmente consolatoria in quanto rievocativa di un passato più glorioso, ovvero, ancora peggio, che mi sono corrotto e ho incominciato a comportarmi come quegli antichi modelli di giornalismo: ho smesso di fare correttamente il mio mestiere”. Che strana preoccupazione, questa, di non dover leggere un giorno di essere considerato un “grande giornalista” da imitare e da cui imparare il mestiere! Cos’è, una professione di umiltà? Uno scongiuro contro l’approssimarsi della grande Eguagliatrice? Un vade retro rivolto agli adulatori e ai ruffiani in carriera? E perché non nominare nessuno di “quegli antichi modelli di giornalismo” a suo dire rincoglioniti o corrotti? È’ evidente che qui Ostellino non si rivolge ai comuni lettori ma solo agli addetti ai lavori; ma perché?

Che strane reticenze: sembra quasi che il giornalista emerito abbia qualche conto da regolare con i suoi antichi (ma verrebbe da dire: andiamoci piano con l’antichità!) maestri e colleghi, accusandoli di malafede e persino di corruzione. Che cosa ci vuol dire in realtà Ostellino? Vediamo un po’: “La qual cosa, poi, per me, vuol dire, per dirla con Orwell, che, ‘la libertà di stampa sta nel non (non) dire mai ai lettori quello che ai lettori piace sentirsi dire’ “. E quindi? Quindi diciamogli in faccia tutto quello che non (non) vogliono sentirsi dire: “Come voleva il galateo di una volta – quando alle volgarità si rispondeva con l’eleganza del silenzio – sarebbe, però, stato meglio ignorarla. Una volgarità, denunciata con enfatica indignazione e sospetta solidarietà, finisce, come si dice di una notizia falsa, col tradursi in una volgarità ripetuta più volte, e più volte offensiva per chi l’ha subita, ciò mentre la signora insultata si è comportata in modo esemplare”. Appunto: se la signora in questione ha dichiarato di non sentirsi personalmente offesa ma solo rammaricata per il comportamento indegno di un rappresentante delle istituzioni, la volgarità ripetuta più volte non è più volte offensiva per la signora ma per chi l’ha insultata: questo è uno di quei casi in cui lo sterco ricade su chi lo ha lanciato, cioè sul non (non) geniale  Calderoli, non certo su Cècile Kyenge. Strano che il giornalista emerito, che usa parole come galateo ed eleganza,  non se ne sia reso conto, e anzi rilanci l’accusa contro gli “antirazzisti di professione” che hanno enfatizzato la “sciocchezza” dello sciocco Calderoli, immemori della loro coda di paglia “quanto a tolleranza”. Tolleranza per che cosa? Per l’odio razziale? Per gli stereotipi culturali e le generalizzazioni indebite? Per chi prova  più pietà per i tonni che per gli immigrati annegati nel Canale di Sicilia? Altro che “prova di narcisismo” da parte degli invisi  moralisti che si compiacciono di solidarizzare con il ministro Kyenge e di indignarsi per l’infelice battuta di quel mattacchione di Calderoli, qui alla prova è messa “Una società liberale e democratica che si caratterizza non solo per il rispetto del diverso, indipendentemente dal colore della pelle, ma anche delle sue convinzioni religiose e politiche, delle abitudini sessuali”. Infatti, proprio di questo si tratta, del rispetto per il diverso; solo che qui viene incluso tra i diversi (o diversamente opinanti) lo stesso Calderoli, e di nuovo il giornalista emerito, per banalizzare la frase incriminata riducendola a battuta di dubbio gusto, se la prende addirittura con “l’orgia retorica di questi giorni”, indizio di immaturità liberale del nostro Paese, dove non tutti accettano senza batter ciglio che il vicepresidente del senato insulti un ministro per i suoi tratti somatici. Infatti, in una società liberale e democratica matura, come scrive Philip Stephens sul Finacial Times, Roberto Calderoli non potrebbe più rimanere al suo posto. Anche Philip Stephen, secondo Piero Ostellino, liscia “il pelo per il verso giusto alla belva che è la folla”?  A questo punto il dubbioso e politicamente scorretto editorialista del Corriere si può rassicurare: stia pur tranquillo,  non verrà ricordato come un grande giornalista… 

 

FULVIO SGUERSO

 

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