CINEMA:killing season (il tempo di uccidere)

RUBRICA SETTIMANALE DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
Prossimamente in provincia di Savona
KILLING SEASON (IL TEMPO DI UCCIDERE)

RUBRICA SETTIMANALE DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO

Prossimamente in provincia di Savona
KILLING SEASON (IL TEMPO DI UCCIDERE)
 

 GENERE: Azione, Thriller

REGIA: Mark Steven Johnson
SCENEGGIATURA: Evan Daugherty
ATTORI: Robert De Niro, John Travolta, Milo Ventimiglia, Elizabeth Olin
FOTOGRAFIA: Peter Menzies Jr.
MONTAGGIO: Sean Albertson
MUSICHE: Christopher Young
PRODUZIONE: Corsan
PAESE: Usa 2013
FORMATO: Colore
Recensione Biagio Giordano

  Prossimamente in provincia di Savona

 Il film  si sofferma  su alcuni  aspetti, postumi e individuali, della spaventosa guerra dei Balcani, mettendo a fuoco in particolare  episodi che riguardano la devastante lotta in Bosnia, che è stata di lunga e  difficile soluzione, eccezionalmente spaventosa, tanto da ricordare i più agghiaccianti genocidi della storia.

 Quello in Bosnia è un conflitto  ormai dimenticato dai media, caratterizzato da raccapriccianti scontri etnici-religiosi. 200.000 sono stati i morti in prevalenza civili, e 1,8 milioni gli sfollati.

Occorre innanzitutto premettere che da sempre, alla fine di ogni  guerra, anche se i trattati di pace sono andati a buon fine, i sanguinosi conflitti svoltisi rilasciano per lungo tempo nei civili e nei militari odi di ogni genere tanto che qualcuno che vi ha partecipato e ha vissuto gli orrori fino al punto di rimanerne psicotizzato  può decidere, sospinto da un delirio di vendetta e di interpretazione, di proseguire una battaglia personale.


 In questi casi le ragioni  prevalentemente psicopatologiche, dovute a disagi psichici che si manifestano con sintomi di giustizialismo divenuti del tutto incontrollabili, fan si che il vendicatore  rimanga  indifferente ai pericoli, con il risultato da una parte, di compiere azioni di estremo coraggio, incosciente, raggiungendo spesso con facilità lo scopo prefissatosi e dall’altra, siccome  la psicotizzazione del vendicatore non passa a lungo inosservata tra la gente, di cadere altrettanto facilmente nella trappola della giustizia locale finendo la vita in carcere o giustiziato a morte.

In questo film un serbo, con una vendetta da compiere, Emil Kovac (John Travolta)  si reca negli Stati Uniti, nella zona  degli Appalachi (ingl. Appalachian Mountains), lunga catena montuosa situata nella parte orientale degli Stati Uniti d’America,  spacciandosi per un bosniaco alla ricerca di compagni americani per  cacciare il cervo.

L’uomo è un ex militare della guerra di Bosnia del 1995,  spinto a recarsi negli Stati Uniti  da un odio crescente, incontrollato per un ex militare che ha assunto ormai la forma di una pulsione omicida. Ma il suo è un impulso a far male complesso, è infatti ancora incerto se uccidere o meno,  dubbioso su quale sarebbe la soddisfazione più grossa,  è un impulso che comunque non accenna a placarsi. Lo vive come un risentimento potente, chiuso in se stesso e profondo, in un certo senso fuso tutt’uno col fanatismo religioso monoteista  del suo paese. E’ un fanatismo il suo, monoteista, che  lui  vive male,  allontanandosi dal senso più nobile che è in esso racchiuso: quello del  perdono.  Kovac ha  preso la direzione interpretativa  sbagliata, quella  che porta ad allontanarsi dall’amore di Dio mettendo in atto la volontà, del tutto integralista, di  castigare da sé quelli che lui ritiene essere i peggiori peccatori


Paradossalmente  quindi, il monoteismo che Kovac si è costruito su misura, quell’odio  di cui è affetto nel più profondo del suo inconscio, lo mantiene vivo, addirittura in parte lo giustifica, e forse lo fa anche crescere  a dismisura. 

Emil Kovac a guerra finita da tempo,  è ossessionato dall’idea di voler fare del male ai suoi ex nemici americani ma di aspirare a farlo dominando psicologicamente una situazione, delle circostanze costruite ad arte, in modo tale da poter parlare a lungo con la vittima che ha scelto di colpire, di regolare il conto di sangue rimasto in sospeso con lui aprendo il proprio e altrui inconscio verso l’evocazione  raffigurativa dei presunti dogmi dottrinari offesi, andando verso un soddisfacendo delle numerose pulsioni mitologiche correlate a quei dogmi che ne hanno cristallizzato in modo rassicurante il senso, per finire poi in un delirio ossessivo, di interpretazione di quella guerra,  estremamente gratificante ma punitivo.

A suo modo Kovac, inconsciamente, con la sua pazzia vuol mettere su, attivare una sorta di clinica psicanalitica del godimento.

Kovac decide di compiere la sua missione usando, per non dare nell’occhio, un’arma particolare: l’arco per la caccia ai cervi.

 L’uomo, ha scelto per il suo macabro gioco il colonnello americano Benjamin Ford (Robert De Niro), che è in pensione in una casa di campagna negli Appalachi.

Kovac pensa di attirare la sua attenzione su Ford con l’inganno della gentilezza formalmente eccessiva, dopo di ché  medita di fare un po’ di amicizia con lui attraverso qualche espediente di tipo occasionale, e alla fine invitarlo a una caccia con l’arco sui monti, terreno ideale per il funereo gioco. 


 La sua strategia ha successo, e Ford  solo e bisognoso di amicizia abbocca  all’amo recandosi a caccia con lui. Kovac come previsto dai suoi pensieri ossessivi e in parte frastagliati, quando gli si crea l’opportunità di ucciderlo si tira indietro, successivamente  incuriosisce l’ex colonnello, verbalmente, sorprendendolo  dichiarandogli la propria vera identità, quando Ford rimane esterrefatto e impaurito dallo svelamento, Kovac lo aggredisce infilzandogli con l’arco una freccia in un polpaccio della gamba.

Kovac è in grado, con l’esperienza di guerra acquisita, di procurare ferite profonde ma curabili,  riesce quindi a giocare, sanguinosamente e coerentemente con il suo desiderio inconscio,  una lotta a due molto dialogata ma non mortale.


Ford è un uomo brusco, diffidente, solitario e divorziato, nonché nonno affettuoso di una bambina. Il colonnello è autore di una atroce esecuzione a morte di alcuni ex-compagni di reparto di Emil Kovac avvenute in Bosnia nel 1995, quando  l’ufficiale vi partecipò con le forze della Nato nell’operazione sopranominata Forza deliberata.

Emil Kovac  sa che uccidere l’ex colonnello Benjamin Ford lo lascerebbe insoddisfatto, il suo  inconscio vuole umiliarlo profondamente, nel fisico e nella mente e convincerlo della validità  dei propri pensieri filosofici religiosi, che sono deliranti come lui stesso sa,  ma impregnati di un vero storico drammatico, autentico, che può attivare emozioni tragiche in chi come Ford ascolta ed è stato testimone nonché probabile  autore di certi misfatti.

In quale nuova verità, per entrambi, sfocerà il duello, quale sarà la logica  segreta più profonda di ciò che sta accadendo e che il film per ovvii motivi di tecnica letteraria non può svelare se non alla fine?

Film magistrale per unità di senso e comunicazione diretta di una profondità sensitiva-drammatica del reale frutto di un’interpretazione  della guerra in tutta la sua portata di follia collettiva priva di ogni senso razionale.

Nel film De Niro è eccellente, per credibilità del personaggio del colonnello Ford e abilità nel duello nonostante gli anni, e Travolta, nel difficile ruolo di Kovac, personaggio tra l’altro di etnia diversa dalla sua, non gli è da meno.

Da sottolineare la sottile scelta del regista di non mettere in scena, in parti di un certo rilievo, le donne, forse per una ragione di tecnica narrativa, per far si ad esempio che tutto lo spettacolo e  la filosofia drammatica che compare nel film si concentrino sul duello a due  tra Ford e Kovac.

Ricordiamo l’ottimo regista statunitense di questo film  Mark Steven Johnson  ( nato a Hastings, 30 ottobre 1964)  in Daredevil  del 2003 di genere azione, Ghost Rider del 2006, film d’azione con la messa in scena dei supereroi dei fumetti Marvel Comics,  La fontana dell’amore 2009 sentimentale.

Con questo film, Killing  season, Mark Steven Johnson giunge a un livello espressivo nell’arte cinematografica elevato, sia per capacità nel drammatizzare le storie con il gioco fotografico sia per la eccezionale bravura nel dirigere gli attori nonché per il senso mai banale del film. Un film questo che gli potrebbe dare nel presente e nell’immediato futuro grandi soddisfazioni, artistiche, di critica, e di pubblico. 

 

BIAGIO GIORDANO

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