Globalizzazione o no gli Stati restano protagonisti

Globalizzazione o no gli Stati restano protagonisti
E all’Italia servono più Stato, più sovranità e meno Europa

Globalizzazione o no gli Stati restano protagonisti
E all’Italia servono più Stato, più sovranità e meno Europa

 Dagli Stati Uniti alla Cina passando attraverso l’Europa i ragazzi, e non solo loro, ascoltano la stessa musica, si ingozzano di Coca Cola, vestono gli stessi jeans. I giochi olimpici, i campionati mondiali di calcio, le gare motociclistiche e automobilistiche hanno reso popolari nei quattro continenti gli stessi personaggi e, a livelli sociali culturali e sociali più elevati, Mozart e Rossini come Bocelli o Carreras sono di casa a New York come a Tokio.  Verrebbe da dire che si è realizzata una pangea che ha abbattuto tutti gli steccati nazionali. E poiché, per usare un linguaggio vetero marxista, questi epifenomeni culturali sono espressione di una struttura economico-finanziaria globalizzata con una o due monete universali e un’unica lingua veicolare, un osservatore esterno sarebbe portato a stupirsi che esistano ancora gli Stati e a considerarli ingombranti residui del passato.

 


Certo, per quell’osservatore resta difficile capire perché in tanti vogliano smembrare la Siria col pretesto che Assad, lo ha dichiarato Trump, “è un animale” al pari del defunto Saddam Hussein che gassava il suo popolo con armi chimiche che non possedeva (è più facile infilare in un cassetto qualche grammo di eroina che far trovare un deposito di gas nervino). E capire cosa diavolo stiano facendo i francesi in Africa o che fine abbia fatto il sommergibile argentino che ronzava intorno alle Falkland, roba inglese, per carità, anche se dalle isole britanniche distano 8.000 (ottomila) miglia; e  perché ci si è scaldati tanto per garantire al Kossovo la sua indipendenza? perché i greci fanno tante storie per il nome della Macedonia?

Insomma, per essere ormai strutture evanescenti gli Stati dimostrano una certa vitalità e sembrano al centro di tanti interessi.  


La verità è che l’idea di Stato, come quella di nazione, gode di ottima salute e non c’è alcun segno che autorizzi a credere il contrario. Soltanto in Italia l’educazione cattolica e la propaganda comunista hanno cercato di scardinare il sentimento di appartenenza alla propria terra e alla propria comunità in nome della fratellanza universale e dell’internazionalismo operaio, che ora approdano nel lido comune della globalizzazione. Il sentimento della comune umanità non si indebolisce ma si rafforza nella consapevolezza delle proprie peculiarità, quelle che i manovratori della finanza globale, dei consumi   globali, dell’omologazione e dell’asservimento globali avvertono come un ostacolo.

Soltanto uno Stato nazionale forte potrà salvarci. E non parlo solo di identità, di tradizione, di ideali. Mi riferisco alla quotidianità, al modesto benessere garantito dal nostro lavoro e dal lavoro di quelli che ci hanno preceduto, alla sicurezza, alla scommessa sul futuro, alla salvaguardia di beni sui quali incombono il ricatto e la minaccia di misteriosi burocrati. In qualunque momento possono diventare carta straccia i nostri stipendi e le nostre pensioni, si può azzerare il valore delle nostre case, ci possono essere tolti il lavoro e la speranza di trovarne un altro, si può essere costretti alla convivenza forzata con stranieri ostili, importati per scavare un fossato sempre più profondo fra popolo impoverito e la banda di parassiti al servizio dei poteri sovranazionali.


Non sono le paure di un paranoico: è l’esperienza di quello che era stato il più occidentale fra i Paesi dell’America latina, il Venezuela, che ha perso la sua sovranità nel momento in cui è caduto nelle mani della sinistra ed è precipitato nel caos, con tanti italiani di terza o quarta generazione che dopo essersi conquistati una posizione sociale ed economica di tutto rispetto da un giorno all’altro hanno perso tutto e chi fra di loro ha potuto ha cercato riparo nella terra dei nonni o dei bisnonni. E che dire del dramma dimenticato del popolo greco, costretto alla fame dai maneggi delle banche tedesche e francesi e in più esposto alla pressione di flussi migratori provocati da chi ha avuto interesse a sconvolgere gli equilibri del medio e vicino oriente.

Gli ungheresi, non fiaccati da decenni di dominazione comunista e sovietica che ha fatto del loro Paese quello della più diffusa povertà e della peggiore ingiustizia sociale e retributiva, l’hanno capito e hanno avuto la fortuna, che a noi è mancata, di poter contare su rappresentanti autentici della loro volontà di non sottomettersi ai nuovi barbari in doppiopetto. “Non si ferma l’onda nera di Orban” era il titolo vergognoso col quale Repubblica riportava il successo elettorale  dell’Unione Civica Ungherese (Fidesz) e del Movimento per un’Ungheria migliore (Jobbik): l’onda nera sarebbe quella del partito gemello  della nostra defunta Democrazia cristiana ma sarebbe soprattutto quella della volontà popolare. Un popolo intero bollato dal nostro giornalone come “fascista”, ottuso, malvagio perché semplicemente non vuole fare la fine dei venezuelani o dei greci, la stessa fine che i compagni hanno preparato per gli italiani.


Per gli smemorati ricordo che al popolo ungherese ci lega un passato comune di lotta per la libertà e una secolare amicizia che un governo caninamente sottomesso a Bruxelles ha rischiato di compromettere come ha fatto con la Russia.

Ma la stessa contrapposizione fra interessi nazionali – Stati – e finanza globalizzata è una semplificazione fuorviante. In gioco ci sono altri attori le cui parti si intrecciano fra di loro. L’opinione pubblica, i media che tentano di manipolarla, i poteri che controllano i media, il mercato che agisce su quei poteri. Quello che accade in medio oriente è per questo riguardo istruttivo almeno come le vicende che hanno preceduto e seguito la seconda guerra mondiale. Il presidente americano che intende saggiamente sganciarsi dalla partita è costretto da un giorno all’altro a cambiare idea. Nel mezzo c’è la notizia di un attacco chimico attribuito al governo siriano con le immancabili fotonotizie e il bambino soffocato dal gas. E qualcuno può pensare che Israele sia semplicemente spettatrice o che si sia rotto il cordone ombelicale fra lo Stato ebraico e i centri della finanza globale? O che Israele non si senta stretta nei suoi confini?


 

Ancora più grave è la semplificazione confessionalismo islamico v/s occidente laico. Sicuramente all’interno del mondo islamico è presente la paura del contagio occidentale non solo sulla morale o sul ruolo della donna ma anche sul modo di concepire il potere e sulla conflittualità sociale. Ma paradossalmente proprio su terreno del confessionalismo il mondo arabo o arabizzato perde la sua unità e lo stesso terrorismo si scopre frammentato e orientato in direzioni diverse o addirittura opposte. E quello che più preoccupa è il fatto che chi dice di combatterlo lo alimenta e se ne serve. La Chiesa cattolica, che del mondo islamico dovrebbe essere il principale bersaglio, vellica i musulmani a tutti i livelli e ne favorisce o organizza l’ingresso in modo spudoratamente scoperto. Chissà com’è che sono i Paesi europei più agnostici a subire attentati in nome di dio mentre quello, per nostra disgrazia, più soggetto alla cappa di piombo del Vaticano ne rimane al riparo.

Niente è come appare, come in Alice nel Paese delle Meraviglie. 


 

Negli anni Settanta del secolo scorso la società italiana comincia a beneficiare dell’espansione economica registratasi durante il primo decennio del dopoguerra. La diffusione del benessere, seppure con scompensi assai gravi, si accompagna ad un brusco aumento della spesa pubblica finanziata con un debito contratto in buona parte con i risparmiatori, con la banca centrale e con soggetti finanziari privati. Il rapporto fra debito pubblico e Pil raggiunge il picco del 124% negli anni Ottanta per poi decrescere lentamente ma costantemente grazie all’inasprimento fiscale e all’aumento del Pil. Ma, finché l’Italia ha mantenuto la sua sovranità monetaria, la solidità della sua economia e la circostanza che lo Stato, considerato come una comunità, era in buona sostanza creditore di se stesso, con l’immissione di moneta e conseguente inflazione, nei limiti consentiti dall’ingresso nello Sme, il debito rimaneva sotto controllo e sarebbe stato ridicolo parlare di un rischio di default. Chi ha voluto l’unione europea e si è precipitato a delegare alla Bce le funzioni della banca centrale togliendo al Paese un pezzo essenziale di sovranità, la moneta, ha messo l’Italia in una gabbia e ha trasformato il suo disavanzo in una mannaia che la espone ad un continuo ricatto politico economico e finanziario. E così lo Stato italiano, che aveva contratto un debito verso se stesso, lo  ha girato ad un esattore esterno che ne pretende la restituzione mentre gli impedisce di procurarsi le risorse per ripianarlo. Così il debito, fisiologico in una prospettiva di espansione che può anche significare ulteriore indebitamento, diventa insolvibile in regime di austerità, cioè di soffocamento dell’economia e depressione dei consumi.


Non c’è bisogno di volare alto: se è vero le economie dei singoli Stati sono interconnesse e che un battito d’ali in Brasile può provocare un tornado nel Texas, è inimmaginabile pensare ad uno Stato commerciale ermeticamente chiuso, a un sistema impenetrabile o a un regime di perfetta autarchia. Tuttavia, qualunque sia l’approccio preferito, quello sistemico o la teoria del caos, resta il fatto che si creano continuamente centri e periferie e che le periferie subiscono gli effetti delle scelte che si effettuano nei centri. E, in questa Europa, l’Italia, in barba al suo potenziale umano, culturale ed economico, è peggio di una periferia, è una discarica, prima depredata e poi ridotta a pattumiera. Niente mi infastidisce di più che sentir blaterare, a dritta e a manca, di rinegoziare i trattati o di allentare qualche vincolo. Il punto non è questo: nonostante l’ipocrisia dei sognatori di Ventotene gli Stati in questa Europa sopravvivono eccome, a cominciare da quello tedesco, e il nostro problema di nazione è proprio l’inconsistenza dello Stato italiano nel contesto europeo. Fu già un cattivo segnale che l’italiano non fosse fin dall’inizio una delle lingue ufficiali dell’Unione, come avrebbe dovuto essere per il peso dell’italiano come lingua di cultura e per esserne stata l’Italia uno dei fondatori non solo formali ma sostanziali. Poi, col tempo, tutti i nodi degli interessi nazionali dei Paesi membri sono venuti al pettine e l’Italia è finita nel ghetto, fatta passare per zavorra e palla al piede della mitteleuropa, cattivo scolaro, peso sul collo del contribuente tedesco quando, al contrario, ne era lo sgabello.


Il problema dell’Italia non sono i trattati. Il problema è l’assenza di un governo forte capace di imporre la presenza di uno Stato altrettanto forte, forte per le attività manifatturiere, forte per la produzione agricola, forte per il controllo delle fonti di energia, forte per la credibilità internazionale, forte sotto il profilo militare e della tecnologia. Non si dica che è roba del passato e, per carità, non si sollevino questioni di dimensioni geografiche, secondo una logica, quella sì, d’altri tempi (un’occhiatina al Mein Kampf e all’ossessione di Hitler per il Lebensraum non guasterebbe). Il Giappone, minuscolo sulla carta geografica, mantiene intatto il suo peso sullo scacchiere mondiale, assai maggiore di quello dello sterminato Brasile o, checché se ne dica, del pachiderma indiano. E, in un passato non troppo lontano, in meno di una settimana Israele si fece un boccone dei suoi grossi vicini.  Quindi se si è convinti, come la sinistra, che l’Italia sia al livello della repubblica di San Marino, va bene così. Ma se si è consci della posizione strategica dell’Italia nel mediterraneo, delle energie intellettuali, della creatività, dello spirito imprenditoriale che riescono nonostante tutto ad esprimersi nel nostro Paese, si capisce quale terribile handicap sia stata e sia per noi la politica, ostaggio della tradizione clericale e comunista, convergenti nel tentativo di annullare con lo Stato anche l’idea stessa della Patria italiana; se si è consci di questo ci si dia daffare non per rivedere i trattati o per un’improponibile (almeno nell’immediato) uscita dall’euro o dall’Unione ma per imporre la presenza del Paese smontando la ridicola presunzione francese e le pretese egemoniche della Germania. Si sente ancora dire che per noi è stata una fortuna aver perso la guerra perché così siamo scampati al tallone tedesco. Non è andata precisamente così. E i grillini lascino che il Fatto anneghi nella sua bile e ricordino piuttosto che l’odiato Cavaliere, che personalmente ritengo ora ridotto a quinta colonna del sistema che la destra dovrebbe rovesciare, riuscì con la sua sola personalità a fare dell’Italia uno dei protagonisti della politica mondiale. Non è una missione impossibile.

   Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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