GIUSTIZIA, INGIUSTIZIA E CATARSI

Considerazioni sull’attualità politica e sull’ultimo saggio di Roberta De Monticelli
GIUSTIZIA, INGIUSTIZIA E CATARSI

                                     GIUSTIZIA, INGIUSTIZIA E CATARSI

    E’ stato condannato, sì, ma ingiustamente. Quindi bisogna che qualcuno ripari il torto subito dal leader più amato da una parte (secondo i loro sondaggi maggioritaria) del popolo italico. Chi può riparare al torto, anzi, all’ingiuria inflitta da una magistratura politicizzata al suddetto leader carismatico e innocente? Semplice: o il Presidente della Repubblica, concedendogli motu proprio la grazia (e subito dopo dimettendosi per alto tradimento della Costituzione), dati  i pretesi meriti vantati dell’illustre  condannato; o l’alleato di governo, l’amico nemico, il partner obbligato di maggioranza, idest il Partito democratico,  votando contro  la sua decadenza da senatore, e, contestualmente, contro se stesso, come auspicherebbe  Luciano Violante, per concludere una volta per sempre il suo lungo e travagliato processo di autodissoluzione. Altrimenti? Altrimenti sarà crisi di governo, dimissioni dei ministri e dei parlamentari berlusconiani e conseguente ritorno alle urne, nella convinzione che sarà il popolo sovrano a riparare a quel vulnus letale per la democrazia e per lo Stato di diritto. Così minacciano i fedelissimi di Silvio Berlusconi, sovrapponendo, nonostante le loro rassicuranti dichiarazioni anteriori alla condanna definitiva per frode fiscale, la questione giudiziaria riguardante il loro leader alla questione politica concernente il loro sostegno al governo Letta. E’ qui evidente la confusione, o  meglio, l’identificazione tra sfera privata e sfera pubblica, tipica di una  concezione  padronale e privatistica del diritto e della politica, contrabbandata come “rivoluzione liberale”, tanto che un partito-azienda, dipendente in tutto e per tutto dal suo leader e padrone, è in grado di ricattare l’intero Paese, condizionando la tenuta, le decisioni e le scelte, anche di politica economica, del governo nazionale. E’ questa un’anomalia che viene da lontano: dal crollo della cosiddetta prima Repubblica  (poco dopo il crollo del muro di Berlino) ad opera della magistratura milanese, dalla storica divisione dei partiti della sinistra e  dal non aver impedito  che un imprenditore senza scrupoli, nonché abile manipolatore di quella parte di pubblica opinione meno dotata di strumenti critici, potesse aggiungere al suo potere economico anche il potere politico, assurgendo  per ben tre volte, negli ultimi vent’anni, alla Presidenza del Consiglio. Ma, si obietterà, se milioni (non dieci ma sette, per l’esattezza) di elettori ed elettrici lo hanno ancora votato alle ultime elezioni, pur sapendo dei processi e delle accuse (alcune impronunciabili) pendenti sul suo capo, qualche motivo ci sarà.


Uno di questi motivi lo ha spiegato candidamente un elettore del Pdl  a Prima pagina, su Radio tre, lo scorso lunedì 26 agosto: l’antipatia viscerale – una specie di fobia –  per tutto quello che è collettivo e pubblico, a cominciare dai mezzi di trasporto, e la totale indisponibilità a condividere con il prossimo la propria libertà individuale e la propria vita privata, sulla quale non tollera che qualcuno possa avere qualcosa da eccepire, né può accettare di venir considerato, eufemisticamente, un cittadino  “meno dotato di strumenti critici” solo perché ha votato e voterà ancora, magari turandosi il naso e nonostante tutto, per Silvio Berlusconi. Ecco quindi alcuni tratti distintivi tra destra berlusconiana e sinistra: individualismo contro collettivismo, privato contro pubblico, libertà personale contro libertà partecipata (e quindi limitata da norme necessarie alla  sopravvivenza di qualsiasi  società ordinata), e, occorre pur dirlo, giustizia privata contro giustizia pubblica. Non per niente è proprio sul tema della giustizia che  il conflitto tra destra berlusconiana e sinistra, anche di governo,  si è rivelato inconciliabile e che, probabilmente, porterà alla rottura della strana e innaturale alleanza tra Pd e Pdl (e allora si dimostrerà infondata anche l’equazione grillina Pd = Pdl: persino Renzi ha tenuto a precisre che le sentenze si rispettano e che vanno eseguite. La posizione di Violante è del tutto personale). Ci troviamo dunque di fronte a due concezioni della giustizia diametralmente opposte: per gli uni è giusto ciò che è funzionale al potere (e, nel caso specifico, al ricco e al potente), per gli altri è giusto…Eh già, che cosa è giusto per gli altri? Non è facile rispondere: sono le domande intorno alle quali ragionano i personaggi della Repubblica platonica, e poi Aristotele nell’Etica nicomachea, e poi Cicerone nel De officiis, e poi Agostino nel De civitate Dei, e poi Tommaso d’Aquino nella Summa theologiae, e poi Ugo Grozio nel De iure pacis ac bellis , e poi Hobbes nel Leviatano, e  poi, nel Secolo dei Lumi , il barone Montesquieu nel trattato su L’esprit des lois, e il nostro Cesare Beccaria nel famoso saggio Dei delitti e delle pene…insomma  il tema della giustizia è stato ed è centrale nella storia del pensiero perché, come spiega Immanuel Kant, citato da Roberta De Monticelli ne La quetione civile (2011) e ora anche in Sull’idea di rinnovamente (Raffaello Cortina, 2013): “Se la giustizia scompare, non ha più valore la vita degli uomini sulla terra”. Infatti tra i bisogni fondamentali dell’uomo non ci sono solo quelli fisiologici e quelli così detti  sociali, ma ci sono anche “bisogni, per così dire, dell’anima,  e c’entrano con la giustizia.

 Roberta De Monticelli

Abbiamo bisogno di sentire che le nostre vite, e soprattutto quelle dei nostri figli, valgano la pena che costano, cioè abbiano senso. L’ingiustizia è il male principale della vita associata”. Ora non vì è dubbio (o non dovrebbe essevi!) che i mali sociali sono al tempo stesso mali individuali e viceversa, dal momento che non si dà un insieme senza parti, e le parti non sarebbero tali se non appartenessero a un insieme;  come notava Nicola Chiaromonte, citato anch’egli dalla De Monticelli,  ricordando un’antica formula socratica: “L’individuo non può essere giusto in una società ingiusta, la società non può essere giusta se gli individui non sono giusti” (N. Chiaromonte, Il tempo della malafede ealtri scritti, a cura di V. Giacopini, Roma, 2013). Questa formula è ben presente nella Repubblica, dove Platone delinea compiutamente la sua idea di giustizia tanto sociale quanto individuale. Nella polis giusta (e bella, poiché la giustizia non può che essere anche un esempio di bellezza)  ogni sua componente assolve al proprio compito cosi come le tre parti dell’anima di ciascuno (le razionale, la sentimentale-passionale  e la concupiscibile) sono perfettamente armonizzate tra di loro, in modo tale che le due inferiori obbediscano e collaborino con la superiore, senza che una prevarichi sull’altra, proprio come in un organismo sano le membra del corpo obbediscono ai comandi dell’intelletto e non l’intelletto ai comandi del corpo. La società attuale, secondo l’Autrice (ma vorrei conoscere chi non concorda su questo) non può certo definirsi né giusta, né bella, né sana: “Guardatevi intorno e dentro. E’ uno stato depressivo, uno stato di assenza di speranza che, per andare un poco oltre la semplice psicologia, si può descrivere come una forma di atrofia della nostra mente nella parte essenziale della sua vita, la sensibilità ai fatti di valore (con la sua ricca, diramata, esatta cognizione del dolore, con la sua incerta trama di esigenze assolute e di congetturali speranze)”. Ecco: se non si prende coscienza di questa situazione deprimente, di questa atrofia e analgesia della sensibilità estetica ed etica, e se non ne soffriremo come si soffre per un’offesa intollerabile alla nostra dignità di esseri umani e di cittadini (non di sudditi), sarà impossibile risvegliarsi ed aspirare al rinnovamento: “Quando non se ne soffre più, si è già destituito in sé il soggetto morale, e tanto più il cittadino”. La libertà, o, se volete, il libero arbitrio, non è un dono gratuito ma anzi è assai oneroso e pesante da portare, come ben sapeva il Grande Inquisitore di Dostoevskij, perché ci inchioda alle nostre responsabilità; sarebbe tanto più comodo e riposante lasciarsi guidare e (tele)comandare da una qualche autorità o mente o macchina pensante esterna! Ma attenzione, siamo su una brutta china: “Siamo già in una condizione di quasi rassegnazione rispetto al nostro destino comune, quello che riguarda la nostra vita  associata  e la nostra civiltà; lingua, cultura, patrimonio di bellezza, arte e natura, paesaggio e memoria”. La nostra speranza e la nostra ultima possibilità di tornare a una vita piena e non rassegnata e passiva sono tutte in quel “quasi”. Dobbiamo renderci consapevoli, però,  che non si tratta di “una rassegnazione matura. E’ fatta essenzialmente di rimozione – lo sguardo si distoglie per evitare una sofferenza inutile, priva di sbocco – e finisce per diventare cieco. Non ci vediamo più. Presi dal nostro stesso star male, non vediamo più come stanno male le cose. Allora il mondo si appiattisce nell’indifferenza, diventa letteralmente wertfrei, privo di valore. Niente rileva, tutto annoia o disgusta, “sono tutti uguali”. E’ il mondo della banalità. Da cui non si genera altra banalità, ma, come la storia del secolo passato ci insegna, altro e più terribile male”. Certamente. Purtroppo, però, finora sembra che la storia ci abbia insegnato ben poco, se soffiano ancora venti di guerra e il Terrore in certi Paesi è sempre all’ordine del giorno. Quindi, perché ci sia un vero rinnovamento non basta desiderarlo, non può realizzrsi questa idea di rinnovamento se non si mette in atto anche un’idea di catarsi: “intendo per ‘catarsi’ una presa di coscienza, diffusa in tutti gli strati della popolazione, delle ‘verità di cui abbiamo bisogno’…Le ‘verità di cui abbiamo bisogno’ sono tutte le verità-di fatto-evalore, le verità storiche, che sono state rimosse, archiviate o addirittura –ed è, forse, il caso più frequente – mai definitivamente accertate riguardo agli eventi più cruciali per la storia della nostra giovane democrazia, dei rapporti fra la legalità e la forza: quella che ha tanto spesso e segretamente piegato le regole – e prima ancora le coscienze e i loro custodi – a volontà diverse da quelle dei cittadini che appovarono la nostra Costituzione”. Troppe zone oscure, infatti, permangono nella storia della nostra Repubblica, soprattutto nella prima; ma non mancano anche nella seconda (basti pensare ai rapporti mai chiariti tra Stato e mafia…). Sì, non c’è dubbio: non può esserci vero rinnovamento senza catarsi, cioè senza disvelamento della verità, o di tutte le verità storiche e personali,  per dolorose che queste possano essere. O vogliamo negare valore catartico alle verità di fatto?

         FULVIO SGUERSO

 

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