Fukushima è dappertutto?
Fukushima è dappertutto?
Niente paura. Niente scongiuri, nè implorazioni (tanto in ogni caso servirebbero a ben poco). Si tratta solo del titolo della pagina di un blog
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Fukushima è dappertutto? “In mezzo alle tenebre sorrido alla vita, come se conoscessi la formula magica che cambia il male e la tristezza in luce e felicità. Allora cerco una ragione per questa gioia, non la trovo e non posso impedirmi di sorridere di me stessa. Io credo che la vita sia l’unico segreto.[…]La vita canta anche nella ghiaia che scricchiola sotto i passi lenti e sordi della sentinella, quando si sa ascoltarla”. Rosa Luxembourg Niente paura. Niente scongiuri, nè implorazioni (tanto in ogni caso servirebbero a ben poco). Si tratta solo del titolo della pagina di un blog pubblicato dal quotidiano Le monde il 31 marzo del 2011. Certo, dicono sia anche una questione di radioattività: pare che ne esca fuori (come dire altrimenti?)a dosi sufficienti a soddisfare ogni peggiore previsione di tutto il genere umano. E non è nemmeno una novità assoluta. Il 26 aprile del 1986 la centrale atomica di Chernobyl (nell’allora URSS oggi in Ucraina al confine con la Bielorussia) saltò per aria, rendendo invivibile la regione circostante, provocando migliaia di vittime subito e subito dopo e continuando fino ad oggi (e chissà per quanto ancora) e regalando a buona parte del resto d’Europa una generosa dose di elementi radioattivi, una nube che arrivò anche da noi.
La tragedia di Fukushima Questo spiega come oggi i cinghiali nelle zone alpine toccate dalla nube siano così prelibati: deve essere il cesio radioattivo di allora. Sul latte e i latticini meglio tacere. Infatti in quei giorni felici la consegna dei nostri ministri ed “esperti” era il silenzio. Un giovane medico e ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità, convocato in televisione per avvalorare la solita farsa rassicurante, cedette al peso della vergogna e della responsabilità (succede, succede) e disse senza mezzi termini che sarebbe stato meglio non far bere latte almeno ai bambini, per via di cose antipatiche come lo stronzio(non è solo una parolaccia) e lo iodio radioattivi. Apriti cielo! Gli saltarono addosso con tutti gli improperi del caso. Di lui non ne so più nulla. Ma ai nostri bambini risparmiammo il latte. Noi adulti invece, incoscienti, riuscivamo anche a fare qualche amara battuta. Un amico distinto e riservato, quando gli feci notare che fra i latticini dannati rientravano anche le nostre amate tume e formaggette, mi sogguardò appena e dichiarò con fermezza: “E io ci metto sopra un filo d’olio e un po’ di pepe”. Sembrava un cavaliere antico prima della battaglia. In Francia dove di solito sono meno emotivi e più composti di noi le autorità passarono tutto sotto silenzio: non era successo niente, non arrivava, né mai sarebbe arrivata alcuna nube, nel caso sarebbe stata fermata alla frontiera, come un immigrante indesiderato. Così il consumo delle insalate, dei funghi e dei latticini continuò indisturbato. Centrale di Chernobyl Il 3 giugno del 1986 un filosofo, Guenther Anders, al sesto congresso internazionale di medici contro la guerra nucleare, si rivolse all’uditorio così: “Cari contemporanei del tempo della fine! perché è questo che noi siamo, contemporanei del tempo della fine, ed è nostro dovere non diventare contemporanei della fine dei tempi per potere continuare ad occuparci del tempo della fine.” Già nell’ottobre del 1960 scriveva: “Età finale e fine dei tempi. La nostra vita si definisce quindi come “dilazione”; siamo quelli-che-esistono-ancora. Questo fatto ha trasformato il problema morale fondamentale: alla domanda “Come dobbiamo vivere?” si è sostituita quella: “Vivremo ancora?”. Alla domanda del “come” c’è – per noi che viviamo in questa proroga – una sola risposta: “Dobbiamo fare in modo che l’età finale, che potrebbe rovesciarsi ad ogni momento in fine dei tempi, non abbia mai fine; o che questo rovesciamento non abbia mai luogo”. Poiché crediamo alla possibilità di una “fine dei tempi”, possiamo dirci apocalittici; ma poiché lottiamo contro l”apocalissi da noi stessi creata, siamo (è’ un tipo che non c’è mai stato finora) “nemici dell’apocalisse”. Lo so, state già pensando che come al solito i filosofi complicano tutto a forza di inutili acrobazie verbali. E poi li vedo, quelli che hanno capito solo in parte, infilarsi con disinvolta indifferenza le mani in tasca, fingere di ripulire, strofinandolo, il corno del piccolo rinoceronte d’avorio riportato dallo zio Tognino “cu l’ea mainàa” dai suoi viaggi esotici per mare. Ma il vecchio Guenther (morto nel 1992) nè voleva arzigolgolare e tanto meno menare gramo. Semplicemente poneva il problema: il tempo, il nostro tempo finisce. Non solo individualmente (questo è purtroppo facile da capire, “l’ultimo atto, per quanto bella la commedia e tutto il resto, è sempre sanguinoso: un po’ di terra sulla testa e via per sempre”, diceva Pascal)), ma come universale. Finisce il tempo di un mondo, di una civiltà. Si spegne una luce che brillava, si affievolisce, poi scompare. Non si tratta solo di un lampo, di un attimo, di un improvviso mancare e poi più niente e nessuno. No, non è “la fine di tutte le cose”(di cui parlava anche Il professor Immanuel Kant). Quella ci sarà, per freddo e per fuoco, fra miliardi di anni (dicono fisici competenti ) quando milioni e milioni di gradi di temperatura cosmica faranno sì che “le stelle e i pianeti si dissolveranno in un miscuglio cosmico di radiazione, elettroni e nuclei”. Giacomo Leopardi Detto meglio, molto meglio, da Giacomo Leopardi (“Cantico del gallo silvestre”, la conclusione): “Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato nè inteso si dileguerà e perderassi.” Prima di convertirci tutto e tutti negli “antichi elementi”, prima che ogni cosa dilegui (sarebbe questa la fine dei tempi, di tutti i tempi), il tempo che abbiamo vissuto e viviamo finisce e finirà ( ripeto non il mio singolo tempo). Un mondo nasce, un mondo muore. Così Sant’Agostino dopo la presa e il sacco di Roma del 410 d.c. Gli storici non possono che riconoscerlo: “L’impero di Cesare” prima o poi va sempre in rovina. La grande Atene, la splendida Firenze? “Candele di breve durata” diceva Arnold Toynbee. Le grandi catastrofi, come la caduta di Roma, non avvengono con un crollo spettacolare, ma scivolando lentamente, insensibilmente, fino in fondo alla china, quasi non ci se ne accorge. Può avvenire per consunzione, suicidio o assassinio, in un soffio o in un “millennio”, comunque allora il tempo è compiuto. Non necessariamente ciò coincide con un disastro o una serie di rovine (sempre possibili e frequenti). La vita quotidiana continua: i fiori, la fame, la stanchezza, le risate, il dolore, la gioia, la luce del tramonto… ma per quanto ci si autoilluda o ci si lasci generosamente ingannare, nulla sarà più come prima: davvero un’altra storia. In meglio o in peggio? Chissà… Questo vedere, questo sguardo, sul e dal passato, si chiama apocalisse: una visione, a volte preceduta dalla previsione (o da una profezia, direi due cose distinte) a volte no. Cassandra che ci vedeva benissimo, non la ascoltava nessuno. In questo senso Guenther Anders era e rimane un apocalittico. Ma quando sarà mai cominciato questo sfuggente tempo della fine? Da dove e dove siamo arrivati? Se ci risparmiamo Adamo ed Eva, in breve, dal secolo scorso, il ventesimo, brevissimo tra i brevissimi, rapido, estenuante, magnifico e terribile. Il nostro tempo si svela – avrebbe detto Cassandra, la “vagabonda…accattona, misera, affamata”- aprendo o sfondando un varco verso “uno scannatoio grondante sangue”(Eschilo, Agamennone), non più in una sola casa, ma nell’universo mondo. Un precipizio. Nell’estate del 1916, in coincidenza con l’attacco del generale Joffre sulla Somme e per allentare la pressione sul fronte del Trentino, il generale russo Brusilov scatena una grande offensiva che durerà fino ad agosto. Un successo: gli austriaci devono ripiegare per più di cento chilometri e solo l’arrivo di divisioni tedesche riesce a fermare l’avanzata dei russi che catturano almeno mezzo milione di prigionieri. La fanteria dello zar va all’attacco a ondate, gli uomini della seconda e terza fila, sotto il fuoco del nemico, raccolgono i fucili dei morti e moribondi che li hanno preceduti , perché non ne hanno altri! Alla fine lasceranno sul campo più di un milione di morti e l’intero esercito ne uscirà piegato come in una disfatta. Intanto sulla Somme gli inglesi perdono qualcosa come sessantamila uomini in un solo giorno[sic!!]. Quando la battaglia si ferma verso settembre, per undici chilometri di territorio risultano uccisi almeno quattrocentomila inglesi, duecentomila francesi, e quasi cinquecentomila tedeschi. A luglio la battaglia in Trentino costa “solo”centocinquantamila perdite agli italiani, che fino all’autunno continueranno con dodici battaglie sull’Isonzo per guadagnare ben quindici chilometri di terreno al solito alto prezzo di sangue. Vi sembra esagerato che Karl Kraus (austriaco e viennese) raccogliesse il frutto degli anni dal 1915 al 1918 sotto l’eloquente titolo “Gli ultimi giorni dell’umanità”? Sigmund Freud atterrito e sconsolato scriveva, già nel 1915, riconoscendo la efferatezza dell’inconscio -che “uccide anche per piccolezze”- osservando che se i nostri desideri, le nostre maledizioni (“morissi! Crepa!) si avverassero Karl Klaus “L’intera umanità, compresi gli uomini più buoni e saggi e le donne più dolci e belle, sarebbe già da gran tempo andata distrutta”. La sua conclusione era davvero consolante: “Così anche noi considerati in base ai nostri inconsci moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini”. Così la morte non è più un caso, “siamo costretti a crederci”, si pratica en masse e il velo di secoli di sforzi che chiamiamo fieramente “civiltà” va in brandelli. La civiltà può morire. Il macello lascia sopravvivere altri esseri umani, la specie, ma ci lascia spogli di illusioni. La ferocia, l’orrore, come abbiamo potuto? Come abbiamo potuto scendere così in basso? Per Sigmund Freud c’è poco da farsi illusioni: “Effettivamente questi nostri concittadini del mondo non sono per nulla caduti tanto in basso quanto supponiamo e ciò per il semplice fatto che non si trovavano prima alle altezze che avevamo immaginate.” Ma era solo l’inizio. Quando “gli ultimi giorni dell’umanità” si consumarono negli anni venti, dopo un breve sogno, venne il tempo del fascismo, il tempo in cui troppi non seppero che era il tempo del fascismo. Il tempo della morte contro la vita, a tutta velocità, con il catalogo “scientifico” dei condannati destinati a sparire dalla faccia della terra: oppositori politici, socialisti, comunisti anarchici e poi malati, sofferenti, zingari, omosessuali; In prima fila, nemici biologici, gli infetti, indegni ed impuri, con alla testa gli ebrei destinati al più totale genocidio; poi più avanti sarebbe venuto il turno delle nazioni di schiavi, russi, slavi, e poi ancora dei servitori, camerieri, lustrascarpe, manodopera a basso prezzo, cioè italiani, latini, greci….. Da Roma a Berlino a Budapest, da Bucarest a Vichy e altrove si suonava (con tutti i distinguo e le gradazioni ritmiche del caso) la stessa musica: distruggi e uccidi, uccidi e distruggi. Quanti sentirono davvero il soffio maligno della tempesta? Era così facile sentirlo? I banchi di scuola erano di legno, con i buchi per i calamai dell’inchiostro che si spargeva in stupide indelebili macchie sul piccolo costoso quaderno, insieme all’abecedario un “tocco” di legno per non gelare. Camicie con i polsini rammendati, il collo con le stecche, inamidate, bimbi coi pantaloncini corti lisi e ispidi. Le belle signore, le “signorine” con le calze e il reggicalze. Gli altri chissà quante volte le avevano rammendate. Il lavoro che non c’è o si trova soltanto per l’umanità sognata dal fordismo: lavoro ripetitivo, elementare, sfiancante, che fa male, che ti lascia stordito, sfinito. Perciò medici, psicologi, specialisti, se possono selezionano “menti semplici”, “gente semplice”: quelli definiti “svegli” o “intellettuali” si adattano male, li perdi, sono scartati.
André Malraux La grande novità dunque: la morte. La morte messa al lavoro contro la vita in tutte le sue forme e possibilità, con l’immutata grossolana brutalità di sempre, con scrupolosa efficienza, con tranquilla coscienza. Procedendo per rapidi esempi. André Malraux nel 1933 può raccontare l’orrore della liquidazione dei ribelli di Shangai da parte delle forze del generale Chian- kai -sheck, scaraventati ancora vivi nelle caldaie delle vaporiere. Nel 1935 in Abissinia il generale Graziani si compiace di poter usare i gas (fosgene, iprite) contro “le orde barbariche”, cioè l’inerme popolazione civile. Il 12 ottobre 1936 il generale falangista Millan Astray e i suoi sodali interruppero ripetutamente il discorso del rettore dell’università di Salamanca Miguel de Unamuno, urlando Viva la Muerte! . Unamuno gli rispose duramente trattandolo da insensibile necrofilo e invalido di guerra indegno della patria di un nobile invalido come Cervantes, ricordandogli che la Spagna aveva sin troppi invalidi. Il generale rincarò la dose strillando Abajo la intelligencia! Viva la Muerte! Il vecchio Unamuno scampò a stento al linciaggio (morendo di crepacuore non molto tempo dopo). Nel 1939 Il governo francese, già in guerra con la Germania nazista, pensò bene che la prima cosa da fare nella guerra con Hitler fosse internare nel campo militare del Vernet, nei Pirenei, non solo “gli ultimi mohicani delle brigate internazionali”,sfuggiti alla mattanza franchista (e alla caccia stalinista), ma anche gli esiliati di tutti i paesi fascisti, insomma tutti quelli che erano contro Hitler e, per far bene il lavoro, aggiunse alla compagnia un po’ di criminali comuni e, già che c’erano, un certo numero di omosessuali. Sulle stente baracche del Vernet, dove si moriva con facilità, si potevano leggere iscrizioni intagliate nel legno come questa: Adios Pedro. Los fascistas volevano bruciarti vivo, ma i francesi ti hanno fatto morire di freddo in pace. Pues viva la democracia. (dopo l’armistizio di Compiègne del 1940, gran parte dei superstiti vennero o consegnati alla Gestapo o deportati in Nord Africa, nel Sahara, dai francesi). Sempre nel 1939, in Germania, verso la fine dell’estate, cominciò l’attuazione di un vasto programma statale di eutanasia per l’uccisione di bambini tedeschi e austriaci vittime di diverse patologie fisiche e mentali(T4, Tiegartenstrasse 4 era l’indirizzo dell’organizzazione) e di malati di mente. Nell’autunno funzionava egregiamente. Contavano di finire tutto in poco tempo, non più di un paio d’anni. Ci fu qualche prudente rimostranza ecclesiale e (nel 1943! se non ricordo male) il programma venne ufficialmente sospeso. In realtà continuò a marciare di buona lena. Anche i prigionieri politici venivano liquidati dopo che medici esperti ne avevano certificato la malattia mentale. Uno dei centri del programma continuò a lavorare sicuramente fino alla fine della guerra e vi spedivano forse anche prigionieri da Mauthausen. Nel settembre del 1939 la Wermacht invade la Polonia. Subito al seguito delle truppe di linea entrano in azione gli Einsatzgruppen (letteralmente gruppi di azione), reparti specialissimi, “unità mobili di sterminio”, composte di SS e polizia di sicurezza. Sono le avanguardie del gigantesco programma di genocidio di tutto ciò che in Europa è giudicato “inferiore”, Untermenschen, sotto-uomini. Razziatori di umanità, assassini al minuto e all’ingrosso, raccolgono ebrei-prima di tutto- e poi polacchi, russi, slavi, in genere, li ammassano sul bordo di fosse scavate dalle stesse vittime e li abbattono a fucilate, li finiscono se occorre a bastonate o ,”pietosamente”, con il classico colpo di grazia alla nuca. Nel 1941 in territorio russo sono accolti e salutati con benevolenza e generosamente aiutati dai nazionalisti ucraini che partecipavano volenterosamente all’applicazione dell’ordine del furher per l’esecuzione sommaria di:”ebrei, zingari, appartenenti a razze inferiori, elementi asociali e commissari politici”. Figuravano nell’elenco, naturalmente, comunisti, partigiani, malati mentali “e altri”, donne e bambini espressamente compresi e raccomandati. Questi reparti saranno poi usati con più parsimonia(ma erano ancora in servizio almeno nel 1942) per la sola e buona ragione che li si giudicò inefficienti e inadatti al compito: insomma non riuscivano a fare la quantità richiesta, non ammazzavano abbastanza, non ci riuscivano materialmente; troppo tempo, troppo spreco. Avevano trovato altri sistemi, più industriali, più “manageriali”: e li applicarono. Escludendo dal conto la popolazione ebraica- oggetto di attenzioni molto particolari- tra il 1941 e il 1944 gli “studiosi” nazionalsocialisti eliminarono in Russia più di sette milioni di persone, solo civili, e più di due milioni di polacchi. Ecco. Solo qualche esempio. E se dimentico qualcosa (è certo), vi prego aggiungete. Temo che troverete molto da aggiungere, anche troppo. Provate a cercare parole come Coventry, Dresda, Montecassino, Sant’anna di Stazzema, Kolyma…..
Theodor W. Adorno Nel 1944 Theodor W. Adorno scriveva, senza alcuna esagerazione: “Ciò che accade oggi dovrebbe intitolarsi ‘Dopo la fine del mondo’ “. Se Hegel nell’ottobre del 1806, vedendo Napoleone a Jena, diceva di aver visto “lo spirito del mondo seduto a cavallo che lo domina e lo sormonta”, scorgendo nell’imperatore, alla pari di Alessandro Magno e Cesare, colui che fa compiere un passo in avanti alla storia, mostrando come dal peggio -la guerra- possa uscire il meglio di una nuova realtà più libera della precedente, Adorno non può più accettare una visione così rassicurante. “Ho visto lo spirito del mondo – egli scrive ancora nel 1944, ricordando bombardamenti e lanci delle V2 hitleriane – non a cavallo, ma alato e senza testa: e questo confuta nello stesso tempo la filosofia della storia di Hegel” (e pertanto aggiungerei, anche ogni filosofia della storia che preveda comunque un logico “lieto fine”). Gli era chiaro (ma a noi oggi molto meno) che “L’idea che, dopo questa guerra la vita potrà riprendere ‘normalmente’ o la cultura essere ‘ricostruita’ – come se la ricostruzione della cultura non fosse già la sua negazione- è semplicemente idiota.” E aggiunge amaramente: “la catastrofe si perpetua, l’orrore si trasforma in istituzione”, per concludere terribilmente: “La logica della storia è distruttiva come gli uomini che produce… . Normale è la morte”. La parola pietà rischia di andare perduta per sempre. “Io ti scongiuro Achille abbi pietà di me”: vanamente il giovane Licaone implora l’uomo che lo ucciderà. “Muori anche tu, che ti lamenti” gli grida Achille, anche su di me la morte verrà. E al giovane supplice che allarga le braccia inerme il guerriero affonda la spada nel collo, scaraventando nel fiume il cadavere zuppo di sangue (Omero, Iliade, XXI). Questo orrore sembra ora destinato a ripetersi angosciosamente, sempre e di nuovo. Senza scampo. Non sembra rimanere in piedi che la nuda forza. Simone Weil, che era già morta nell’agosto del 1943, lo temeva: se il senso della grandezza è solo quello della forza, prima o poi l’orrore è sempre possibile, un Hitler può rinascere e rivivere, irriconoscibile, ma vero. Possiamo forse sentire veramente un dolore vicino, un grido all’orecchio, un lamento dalla porta accanto. E se dovessimo sopportare tutto il “rumore” della sofferenza del mondo non ne saremmo forse schiantati? Quando si passa all’ordine dei milioni, dei miliardi, scorrono numeri sulla pagina, sugli schermi: statistiche. E le statistiche non chiedono pietà, non piangono, non danno l’odore selvaggio del sangue, la spada affonda nel collo con indifferenza. Arthur Koestler Nella primavera del 1944 Arthur Koestler scriveva: “Per vincere il fascismo i campi di battaglia non bastano, bisogna vincerlo negli spiriti, e nei corpi, perché la parola è nuova, ma la condizione di spirito che esso rappresenta non lo è. Dovunque si parli di arabi come ‘sidis’, ‘bicots’, ovunque si parli di ‘youpins'(giudei, spregiativo) [sales youpins!, Les sales youpins sionistes, dice il celebre comico francese di oggi, di oggi Dieudonné], di ‘sporchi negri’, dovunque si spiino più o meno ufficialmente i costumi amorosi dei cittadini o il loro credo politico, dovunque le rivendicazioni operaie si chiamino ‘il pericolo rosso’ e uno sciopero legittimo venga schiacciato a colpi di mitraglia e di manganello, dovunque ciò accada il fascismo è là; inutile per trovarlo andare al cinema per vedere la Gestapo in Technicolor”. Era un articolo che avrebbe dovuto pubblicare a New York, dove viveva esule. Ma osò spiegare anche che gli americani forse non capivano bene che la libertà è una questione delicata e sottile, graduale, e che sbagliavano a ritenere barbari quei forsennati europei perché non vivevano nel migliore dei paesi possibili:il loro, i magici States, dove un uomo che era stato costretto a passeggiare per le strade di Vienna con un cartello al collo con la scritta: “sono uno sporco ebreo, sputatemi addosso, per cortesia”, una volta raggiunta la benedetta America, fu brutalmente scaraventato fuori da un qualunque albergo che non ammetteva ebrei o consimile razzaglia inferiore. E si suicidò. L’articolo non venne pubblicato. La conclusione metteva e mette i brividi: ci si abitua… e allora “Noi corriamo il rischio di andarcene tranquillamente a dormire la sera in un mondo già diventato fascista senza nemmeno essercene accorti”. Ma non finiva lì. Nel 1944 era già chiaro quale sarebbe stato, prima o poi, l’esito della guerra, con la sconfitta della Germania, il crollo miserevole dell’Italia (si è già consumato l’otto settembre del 1943), l’isolamento del Giappone (che ne aveva orribilmente combinate di cotte e di crude nell’Asia occupata) e la vittoria della Santa Madre Russia che alzava la bandiera rossa e con le sue decine e decine di milioni di morti nella ferocia dei combattimenti. Per chi aveva scelto Hitler (come la grande industria francese) per chi aveva deciso che si sarebbe preso e tenuto tutto quanto gli spettava(Winston Churchill e l’impero britannico) e per quelli che come mister Ford (il capitale americano) pensavano che “history is bunk”(vale a dire, un non senso, una truffa, un mucchio di balle) sarebbe stato meglio provvedere che quelli del Vernet e quelli come Koestler non interferissero più di tanto, possibilmente niente: la vittoria su Hitler non poteva che essere anche il suggello della disfatta delle loro aspirazioni: il mondo nuovo che sorgeva (non ancora quello di Aldous Huxley) poteva al massimo tollerarli, non di più. Nel 1945 l’epilogo è rapido, catastrofico. Il 16 aprile l’Armata Rossa supera il fiume Oder. Il 25 aprile l’Italia del nord insorge. Il 30 aprile i russi prendono Berlino. Hitler muore, probabilmente suicida. Il 1 maggio (oh ironie dell’orrore) la resa delle forze tedesche in Italia. Entro il giorno 8 di maggio la resa della Germania è totale: ogni pericolo, ogni minaccia nazionalsocialista è soffocata, non più temibile. Ma la guerra non è finita. Retrospettivamente si potrebbe persino azzardare che stava soltanto cominciando un’altra guerra. O che, avrebbe detto Orwell, si sarebbe entrati in un mondo così nuovo e sorprendente da trasformare la guerra in pace e la pace in guerra. Infatti. Il 16 luglio del 1945 ad Alamogordo in New Mexico, negli Stati Uniti, gli scienziati del progetto Manhattan, che lavoravano a Los Alamos, prepararono un esperimento decisivo. Lo chiamarono, in cifra, “Trinity”. Una bestemmia, non si è mai saputo se voluta o inconsapevole. Erano tutti molto allegri ed entusiasti. La bomba. La bomba sarebbe esplosa entro le cinque e mezzo del mattino. E ciò puntualmente avvenne. Erano tutti lì: il generale Groves (l’anima nera militare del progetto, che temeva un disastro)) Oppenheimer il direttore della ricerca, Enrico Fermi, con le sue attrezzature di misurazione….e così racconta Robert Jungk: Tutto si svolse con rapidità inimmaginabile. Nessuno vide il primo bagliore della fiammata atomica. Non poterono vedere che l’abbagliante riflesso bianco sul cielo e sui monti. Chi osò voltarsi un po’ vide la luminosa palla di fuoco farsi sempre più grande, sempre più grande. “Dio mio credo che i ‘capelli lunghi'[gli scienziati non portavano i capelli rasati come i militari] abbiano perso il controllo” esclamò un alto ufficiale. Carson Mark, uno dei cervelli più notevoli del reparto teorico, pensò invece – per quanto la ragione gli dicesse che non era possibile – che la palla di fuoco non avrebbe smesso di crescere finché non avesse assorbito interamente cielo e terra. Quando apparve la sinistra nuvola Robert Oppenheimer si ricordò fulmineamente un verso della epopea indiana del Bhagavad-gita: “Io sono la morte che tutto rapisce, sommovitrice dei mondi”. Enrico Fermi ne fu così sconvolto che non riuscì a guidare la macchina per tornarsene a casa, lo dovettero accompagnare. Il più soddisfatto fu il generale Groves: ce l’avevano, avevano la morte in pugno! Ce l’avevano fatta, era quello che volevano; al suo collega generale Farrel subito disse:”La guerra è finita. Uno o due di questi affari, e il Giappone è sbrigato”. Il 6 agosto 1945 il “bambino” (“little boy”, la chiamarono così la prima bomba) venne sganciato su Hiroshima. Tre giorni dopo un altro “little boy” scendeva su Nagasaki. La guerra era davvero finita; il 15 agosto l’imperatore Hiro Hito, con un messaggio radiofonico, chiese ai suoi sudditi di accettare l’inaccettabile:la resa. La capitolazione ufficiale venne firmata il 2 settembre 1945. La guerra era finita, la guerra ricominciava. Ares non è un dio benevolo e non fa sconti a nessuno. Otto Hahn, prigioniero con Heisenberg, in Inghilterra, grande fisico e probabilmente responsabile del fallimento dei progetti atomici del Reich (fu sempre avverso al razzismo di Hitler) ricevette la notizia della bomba da uno degli ufficiali addetti alla sua sorveglianza. “Centomila vittime? Ma è spaventoso! “era fuori di sé. Per consolarlo l’ufficiale gli raccomandò di non eccitarsi troppo: in fondo si trattava soltanto di giapponesi. Hahn ne fu ancora più sconvolto. Si contano più di 2000 esplosioni di ordigni nucleari nel XX secolo, dal 1945 in poi, tutte più potenti delle due iniziali su Hiroshima e Nagasaki. La quantità di sostanze radioattive sparse sul mondo è inimmaginabile, e comunque sufficiente a procurare sofferenze e morte altrettanto inimmaginabili subito o a più lunga scadenza. Il generale Groves dichiarò ufficialmente davanti a una commissione del Congresso di aver sentito dire che la morte per radiazioni fosse “piacevolissima” [proprio così]. Falso ovviamente, è una morte orribile. Ma il vezzo di distribuire una “eutanasia” dall’alto si vede che non era un’esclusiva nazista. Aver vissuto negli anni dorati di quella che potremmo oggi tranquillamente chiamare anche “L’età dell’ingordigia”, può averci reso insensibili e sordi e ciechi. I beati anni cinquanta, i meravigliosi anni sessanta, i miracoli economici, le illusioni dell’opulenza propagandata più che reale ci hanno permesso di credere che bikini fosse soltanto un suggestivo e attraente costume da bagno (che ancora faceva scandalo sulle spiagge italiane negli anni cinquanta quando volenterosi moralizzatori chiamavano i carabinieri per costringere a coprirsi le svergognate che osavano indossarlo). Invece era anche e soprattutto il nome atroce di un atollo del Pacifico che gli americani usarono fin dal 1946 come poligono per sperimentare il primo autentico disastro nucleare dovuto ad una contaminazione radioattiva di proporzioni mai viste. La popolazione delle isole vicine venne sradicata e deportata a forza. Le isole circostanti la meravigliosa laguna dell’esperimento risultavano ancora ufficialmente inabitabili nel 2010. Non osiamo pensare che cosa possa essere accaduto (ed è accaduto) anche in Unione sovietica, perché solo immaginarlo genera angoscia, ma certo nulla di meglio. La confutazione di qualunque filosofia della storia che annunci un venire di giorni radiosi, di giorni più giovani non ha bisogno di argomenti sofisticati, aveva ragione Adorno, noi, noi siamo riusciti a rendere possibile “il giorno più giovane” (jungstetag diceva Kant), un giorno che annienta e nulla promette se non il suo stesso realizzarsi. Non è necessario proclamare una metafisica del dileguare, in cui ogni “particulare” sia sempre insufficiente e insoddisfacente e perciò degno di distruzione. Il furioso terrorista che spara ai re e ai principi, che getta la bomba contro lo zar è superato, vecchio e inutile, insufficiente quanto l’umanità che può averlo generato. Egli “doveva accontentarsi”, in mancanza di peggio, dell’attentato al dettaglio, delle morti singole e sempre deludenti. Il generale Groves, il direttore di Treblinka Stangl, la bomba e Auschwitz, lo hanno reso obsoleto, hanno trasformato il suo gesto in una banalità quotidiana, un fatto organizzativo; il corso delle cose annienta meglio e di più. Il terrore diventa affare di ogni giorno. Abbiamo vissuto e continuiamo a vivere con la possibilità che “nella prossima guerra i sopravvissuti invidieranno i morti” (battuta forse attribuibile a J.F.Kennedy, presidente americano assassinato a Dallas il 22 novembre 1963) E nulla è stato più facile che scatenare un massacro, provocare un collasso, rovinare un paese, disseminare attentati di quanto non lo sia stato nel trascorso secolo cosiddetto “breve”(pensa fosse stato anche lungo!). E anche il successivo, a quanto pare, promette bene, anzi malissimo.
Trovo in un vecchio appunto le parole di Cesare Cases: “Auschwitz è dappertutto”. Il lager e Hiroshima sono strettamente connessi. Prima di togliersi la vita il grande Primo Levi lo aveva sottolineato: il lager pervade “le strutture della vita quotidiana del mondo apparentemente dritto, non solo una follia dei tedeschi, ma ‘apparsa nei tedeschi’ “. Viviamo in una società del Terrore? No, risponderebbe Henri Lefebvre: “noi non chiameremo terrorista una società in cui infuri la violenza e il sangue dilaghi per le strade[…]una simile società è terrorizzata e non terrorista”. E non può durare a lungo(la ghigliottina non può mettersi al lavoro tutti i santi o maledetti giorni). Nella società terrorista regna invece una violenza diffusa, impalpabile, allo stato latente. E’ difficile svincolarsi da pressioni multiple dal peso spesso insopportabile. Ma non c’è bisogno di alcuna dittatura. Ognuno diventa il terrorista di sé stesso, ricattato e ricattabile che sogna di vincere, di prevalere di impugnare la spada di Achille, di esercitare il potere, un potere. Un sottile velo di diritti e di promesse, il sogno di un habeas corpus del mondo, copre una vita quotidiana irregimentata (dodo,metro, boulot, metro,dodo, dicono in Francia): bisogna regalare i migliori anni della vita per cercare di “sistemarsi”, di guadagnare qualcosa per vivere. Dopo se non sarai troppo stanco potrai pensare a vivere. “Valori”, “diritti”, diceva ancora Lefebvre(più di quaranta anni fa), “nulla garantisce che non spariranno, basta una crisi o che si aggravino le conseguenze della ‘massificazione e le deboli tracce di quei diritti saranno spazzate via”. Il discorso terrorista è insinuante, ragionevole, buon calcolatore, “umano”. Ti chiede: hai fame, hai sete, sei stanco? Noi pensiamo a te, la casa riscaldata, il frigorifero, la lavatrice…sapresti rinunciare? Vuoi dar retta a quei poeti disutili che ti chiedono di tornare a lavare i panni nel torrente( è falsa questa, ma fa il suo effetto)?Qualcuno muore, qualcuno viene ucciso? Non ti preoccupare. Stai con noi, lavora per noi. Non toccherà a te. Senti salire l’orrore verso di te? Che ci vuoi fare. Non si possono fare frittate senza rompere le uova e tu lo vuoi il tuo pezzo di frittata vero?La minaccia della catastrofe con la perdita di ogni conoscenza e presidio scientifico e tecnico è veramente terrorizzante: niente più medicine, niente vaccini, niente cibo facile…..ed è una cosa che è lì, tu lo sai, dietro l’angolo e tu non la vuoi vero? Tu non vuoi morire, e dunque accetta che muoiano altri al posto tuo (tanto poi sarà anche tua questa sorte ingrata, impugna nel tuo piccolo la spada di Achille) Allora si è pronti per vivere a Sellafield o a Tricastin a Fukushima…e chissà dove altro, obbedienti, felici e contenti. Consumatori e consumati. Un allevamento in grande stile nella stiva della nave. Oggi, marzo 2014, nel libro di Michael Ferrier, Fukushima, Récit d’un disastre, Paris, folio, si può leggere:“Si può vivere benissimo nelle zone contaminate: questo ci assicurano i sostenitori del nucleare. Non proprio come prima, certo. Ma insomma. Una mezza vita. Una frazione delle èlites dirigenti – con la complicità o l’indifferenza delle altre – sta imponendo in un modo così evidente da abbagliarci, una impresa di domesticazione quale raramente si era vista dalla comparsa dell’umanità sul pianeta”.La favola nuova di un’altra specie di Homo la cui classificazione (se mai sarà possibile) spetterà agli antropologi e zoologi del futuro. Intanto lunga sarà la strada della notte. Le nuove élites ricche e potenti, dopo aver vinto una lunga guerra (di classi) per la propria sopravvivenza si preparano a percorrerla disposte a tutto, nel caso, come potrebbe essere prevedibile, che le magnifiche sorti e progressive si inabissino per molto e democrazia e giustizia diventino (come già in buona parte si vede) incompatibili con la conservazione dei loro privilegi. Si vedono segni, si sente smaniare il bisogno di distruggere, di tagliare e bruciare, per rimanere, demolire il passato (non non quello di Buna e di Hiroshima,no) ma quello che comprende Verdi, Tolstoj, Vivaldi, Pompei…ricordate mister Ford? “history is bunk”. tutto ciò che non è capitale, profitto, diventa subito scarto, rifiuto. La vita stessa è negata, adatta all’usa e getta. Bunk dunque: non senso, balle… Fin dal lontanissimo ormai novembre del 1943 Arthur Koestler, questo vento lo aveva sentito venire: “Ciò di cui abbiamo bisogno è una fraternità attiva dei pessimisti” per salvare qualche isola, qualche oasi, dove non sia così facile il gesto di Achille, il colpo demolitore. “Pessimisti di tutto il mondo….unitevi”. Uniamoci “affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi”(Anders), perché sia possibile non il giorno più giovane, non l’ultimo atto della crudeltà dominante, ma un ritorno a casa, come quando si tornava a scuola dopo le vacanze: Al bambino che rientra dalle vacanze la casa in cui abita appare nuova, allegra festosa, nonostante che non vi sia cambiato nulla dal giorno in cui l’ha lasciata. Solo il fatto che sia stato dimenticato il dovere a cui altrimenti ci richiama ogni mobile, ogni finestra, ogni lampada ripristina per così dire la sua pace sabbatica, e per questo per qualche minuto ci sentiamo a nostro agio nel labirinto delle stanze[…]come per tutta la vita si pretene inutilmente di farcelo credere. Sarà proprio così che il mondo, quasi immutato, apparirà nella luce stabile del suo giorno festivo, quando non sarà più soggetto alla legge del lavoro, e il dovere sarà lieve, a chi torna, come il gioco lo è stato nelle vacanze” (T.W.Adorno, Minima Moralia) Oasi di un’aspirazione alla vita, non alla morte. Perchè la vita”canta anche nella ghiaia che scricchiola sotto i passi lenti e sordi della sentinella quando si sa ascoltarla” Poiché bisognerà ancora imparare la bellezza e il canto degli uccelli e la voce degli alberi, la voce che dietro il muro ancora così prega: Vorrei gridare al di là del muro: vi prego fate attenzione a questo giorno sontuoso! Non dimenticate, anche se siete occupati, anche se attraversate di frettail cortile, assorbiti da compiti urgenti, non dimenticate di alzare la testa per un istante e di gettare un’occhiata a quelle immense nuvole argentate e al tranquillo oceano blu nel quale nuotano. Fate attenzione a quest’aria piena della respirazione appassionata degli ultimi fiori di tiglio, all’esplosione e allo splendore di questo giorno, perché non ritornerà mai, mai! Vi è dato come una rosa aperta ai vostri piedi che aspetta solo che voi la cogliate per premerla sulle vostre labbra. (Rosa Luxemburg, dal carcere di Wronke, venerdì sera, 6 luglio 1917). Allora dall’isola o dall’oasi, io penso, una stella si accenderà, la sua luce brucerà per un lungo attimo prima di perdersi nel buio per mai più riapparire. E qualcuno dalla lontananza potrà vederla brillare. 23 MARZO 2014 CLAUDIO DELFINO
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