Etica politica

DAL FACILE PERDONO

ALLA CORRUZIONE DI MASSA

DAL FACILE PERDONO ALLA CORRUZIONE DI MASSA

Il clima etico-politico in quello che nonostante il saccheggio e le scorrerie dei nuovi barbari non più stranieri ma interni, o meglio, organici a una classe dirigente politica, economica e amministrativa largamente infiltrata e inquinata da affarismo e collateralismo alla criminalità organizzata, continuiamo a chiamare il nostro (?) Belpaese, sembra toccare oggi le sue manifestazioni più indecenti, maleodoranti, nauseabonde e, almeno per una élite sprezzantemente definita “puritana” dai cortigiani del Cav, intollerabili anche dal punto di visto estetico.

Da tempo politologi,  giornalisti, scrittori, sociologi, storici, giuristi e persino psicologi e psichiatri – ovviamente non al servizio del Principe – cercano di capire come e perché si è arrivati a questa indecenza pubblica e privata, di cui lo sfacelo anche ambientale e territoriale è uno dei sintomi più macroscopici e, appunto, barbarici. Osserva lo scrittore napoletano Ermanno Rea: “La corruzione di massa ha soprattutto questo di insopportabile: si sottrae di fatto a ogni contraddittorio, pretende di non avere più un ‘diverso da sé’, un opposto con cui confrontarsi. Si costituisce come fatalità e norma.” (La fabbrica dell’obbedienza. Il lato oscuro e complice degli italiani, Feltrinelli, 2011). Come spiegare questo fenomeno? Tanto più che il degrado morale, culturale ed estetico è avvenuto e prosegue sotto i nostri occhi in seno a una collettività  a maggioranza cristiana cattolica (o cattolica cristiana), almeno secondo le statistiche. Non sarà, si chiede l’autore di questo “libro-sfogo”, che anche la Chiesa cattolica abbia la sua parte di responsabilità nella “mala educaciòn” di tanti italiani e italiane che stentano a distinguere che cosa è dovuto a Cesare e che cosa a Dio? Non sarà che la Controriforma con i suoi tribunali dell’Inquisizione, le sue condanne alla tortura e al rogo “purificatore”, il suo Index librorum proibitorum, il suo Sant’Uffizio e le sue censure abbia pesantemente contribuito a tenere in uno stato di minorità e di sudditanza le devote pecorelle italiane? Non sarà che la grande stagione rinascimentale e la sua esaltazione della libertà e dignità dell’uomo, e del “cittadino responsabile” culminata nella famosa Oratio di Pico della Mirandola, sia finita a bruciare anch’essa sul rogo insieme a Giordano Bruno? Ermanno Rea, sulle tracce di Bertrando Spaventa, risponde affermativamente: “Spaventa è perentorio: da quel momento l’Italia è costretta a vivere come separata dalla vita universale. Sul rogo di Bruno brucia insomma l’intero Rinascimento, o perlomeno si compie la sua defenestrazione dalla Penisola come per effetto di una sentenza di espulsione. E nondimeno la scintilla del pensiero critico del Rinascimento e di Bruno non si spegnerà: “Il pensiero filosofico italiano – scrive Spaventa – non fu spento sui roghi dei nostri filosofi, ma mutò stanza, e si continuò in più libera terra e in menti (Rinascimento Riforma Controriforma, 1867). La libera terra è la Germania luterana e le menti libere sono quelle di Kant e di Hegel. “Quanto all’Italia, anche se Spaventa non lo dice in maniera esplicita e diretta, va da sé quel che accade: la trasformazione del cittadino responsabile in suddito deresponsabilizzato, per dirlo in maniera sbrigativa.”

 

Giordano Bruno
Questa trasformazione andrebbe spiegata in maniera non sbrigativa, ma la tesi di Spaventa è chiara e netta: la perdurante egemonia politica e culturale della Chiesa cattolica impedisce “la formazione in Italia di una coscienza nazionale forte e coesa, di quell’etica della responsabilità collettiva i individuale che sola può trasformare un popolo in una nazione.” La morale del suddito, infatti, è subordinata a un’autorità esterna (politica o ecclesiastica, o ecclesiastica e politica insieme); quella del cittadino invece è libera e autonoma, e non riconosce altra autorità al di fuori della legge di natura, della legge positiva e della propria coscienza.

 Spaventa esorta gli italiani a ravvivare la coscienza del libero pensiero del Rinascimento e di Giordano Bruno, a ricostruire che cosa fummo, che cosa siamo e che cosa dobbiamo essere “non come membri isolati e scissi dalla vita universale dei popoli, ma come nazione libera ed uguale nella comunità delle nazioni.” Ora per divenire una nazione libera ed uguale alle altre, l’Italia deve liberarsi anzitutto dal giogo clericale. Ma ce ne siamo liberati? “Viene da chiedersi con indicibile pena che cosa resti oggi di quello ‘spirito hegeliano’ che, come che sia, tiene ancora desta, a metà dell’Ottocento, la speranza di una possibile liberazione dell’Italia dal giogo clericale. A guardarsi intorno, nulla. Abbiamo tutti (no, non tutti, ma tanti, troppi) sposato la Controriforma, ci siamo fatti Chiesa noi stessi, i nostri peccati ce li assolviamo da soli, evitando persino il confessionale, come tanti Provenzano, le nostre case pullulano di santini e di refurtiva. Dietro le nostre facce pulite e rassicuranti c’è tanta corruzione da far ritenere inverosimile ogni ipotesi, anche molto dilazionata nel tempo, di ritorno al passato. E come potrebbe essere diversamente dal momento che, in quanto creature, ormai antropologicamente cattoliche, continuiamo ad alimentare (consapevolmente o inconsapevolmente poco importa) il rogo di Giordano Bruno?” Tutti no, certo; ma se la mentalità dominante è quella della sudditanza intellettuale e morale (o immorale) a una qualche autorità esterna, magari per convenienza  o interesse privato (il “particolare” del Guicciardini) è chiaro che il rogo dell’Inquisizione continua a bruciare dentro di noi per gli eretici impenitenti. Quanto alle responsabilità della Chiesa, sarà il caso di esercitare, se l’abbiamo, la facoltà del discernimento: sarebbe fin troppo comodo addebitarle il nostro deficit di autonomia e la nostra mancata crescita morale e civile, come anche l’attitudine, o abitudine, al servilismo, all’opportunismo, alla cortigianeria, la tendenza a credere e a fidarsi in chi ci promette di soddisfare i nostri più intimi desideri. Per quanto potente, suggestiva e suggestionante sia l’autorità delle gerarchie cattoliche , dei pastori di anime, dei vescovi e dei parroci, non ha certo il potere di annullare il nostro libero arbitrio, e l’ultima parola spetta pur sempre alla coscienza di ciascuno. E poi non tutti i preti e i vescovi sono complici del Cesare di turno: si pensi a Don Andrea Gallo, a monsignor Nogaro, a Don Giorgio De Capitani, a Don Luigi Ciotti, al non mai dimenticato Don Lorenzo Milani. E tuttavia è innegabile che le gerarchie vaticane appaiano un po’ troppo corrive e indulgenti non solo con i peccatori ma anche con i peccati dei potenti di questo mondo, e addirittura con quelli commessi dai cosiddetti uomini d’onore. “Isaia Sales descrive in un libro che tutti dovrebbero leggere, I preti e i mafiosi, la religiosità persino ossessiva di boss (piccoli o grandi) di mafia, ‘ndrangheta e camorra. Si tratta di pagine che lasciano letteralmente stupefatti, soprattutto per le analogie che vengono messe in evidenza tra caso e caso, è come se quei personaggi rappresentassero un’unica esperienza culturale, psicologica, come se incarnassero un’unica contraddizione, anzi un’unica dissociazione schizofrenica, vivendo il delitto come crociata e devozione.” Ora, va bene che a nessuno va negata la possibilità e la speranza del pentimento, del perdono e della conversione, ma non sembra che un Provenzano, ad esempio, o altri boss religiosissimi, osservanti e praticanti, avessero cambiato vita e si fossero dati a opere di carità. Ecco, se dai vertici vaticani venisse una parola in equivoca su questi comportamenti incompatibili con la fede cristiana, la Chiesa tutta e l’intera comunità nazionale gliene sarebbero immensamente grate. Almeno così si spera.

Fulvio Sguerso

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