DODICI ARTISTI PER ITALO CALVINO

DODICI ARTISTI PER ITALO CALVINO

DODICI ARTISTI PER ITALO CALVINO

Davvero singolare la mostra promossa dalla Fondazione Mario Novaro di Genova e allestita dal pittore Walter Di Giusto presso il Museo civico di Palazzo Borea d’Olmo di Sanremo, visitabile fino al 26 gennaio 2013, per ricordare Le città invisibili di Italo Calvino, a quarant’anni dalla sua prima edizione Einaudi (1972); singolare per diversi aspetti.
Il primo e più evidente è l’eterogeneità dei mezzi espressivi e dei materiali usati  dai dodici artisti per interpretare, ciascuno a suo modo, i favolosi resoconti   che  il giovane Marco Polo affabula di volta in volta per l’attento e maliconico imperatore dei tartari Kublai, che solo in quelle mirabili descrizioni di città fantastiche  “riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti”: si va dalla figurazione neoromantica metaforica e irreale di Walter Di Giusto al sapiente pittoricismo e colorismo informale dei maestri Raimondo Sirotti e Luiso Sturla, dalle splendide immagini  “architettoniche” e “archeologiche” di un maestro della fotografia come Mario Dondero, agli scatti e alle originali “prospettive urbane” di Luca Forno e di Maria Rebecca Ballestra; dalle surreali torri pensili, trasparenti  e quasi dematerializzate dello scultore  Piergiorgio Colombara alla grafica labirintica di Raffaele Maurici, dalle estenuate e come affioranti in un sogno  visioni veneziane del coltissimo Giuliano Menegon alla costruzione del bozzetto con arcate dipinte e in rilievo di Plinio Mesciulam, il quale, a illustrazione di una famosa risposta di Polo a Kublai Kan che non capiva perché il mercante veneziano si perdesse nel descrivere un ponte pietra per pietra (“Senza pietre non c’è arco”),  vi ha incastonato alcune  pietruzze spigolose e sporgenti stile bugnato rustico; dall’installazione del “Gruppo Wabi”,  costituita da cinquantacinque formelle in terracotta recanti ciascuna il plastico miniaturizzato di una “città invisibile” alla realizzazione di un  abito da sera o da ballo in maschera, con accanto, sul pavimento,  un multicolore ombrello aperto, firmato dalla giovane stilista genovese Lara Stuttgard.

Un secondo aspetto che merita di essere sottolineato è la compresenza, nella stessa sala  di uno storico e magnifico Palazzo com’è quello  seicentesco dei  Borea d’Olmo, di ben tre generazioni di artisti liguri, nativi o che si sono formati e hanno lavorato in Liguria: dagli anziani, ma solo  per anagrafe, maestri Sirotti, Sturla, Dondero (nato a Milano ma di antico e solido ceppo genovese) e Mesciulam, a personalità della generazione di mezzo cresciute tra gli sperimentalismi e le nuove correnti  artistiche del dopoguerra  come Di Giusto (friulano di origine ma genovese di adozione), Forno, Colombara, Menegon (nato a Venezia, ma da anni residente e operante a Genova)  e Maurici, alle giovani e già affermatesi nei rispettivi campi del reportage  fotografico e della moda Maria Rebecca Ballestra (di cui possiamo ammirare una splendida inquadratura di un grattacielo verde di Dubai, tratta dal suo Journey into fragility) e Lara Stuttgard.

Altra singolarità degna di nota è la presenza del Gruppo Wabi (acronimo per Working Against Building Ignorance); un collettivo di architetti che si oppone, come si legge nel loro sito web, “a un modo di costruire ignorante e a chi costruisce ignoranza”, dove ignoranza significa appunto ignorare colpevolmente la storia e le caratteristiche dei luoghi e delle persone, quindi costruire senza criterio (cioè con l’unico criterio del profitto) e senza tener conto né dell’ambiente né dell’esigenza sempre più urgente di migliorare la qualità estetico-funzionale degli edifici, quindi della stessa vita urbana e sociale. Le cinquantacinque formelle della loro installazione sono concepite come “testi” che descrivono “altrettante città, invisibili ma in grado di ispirare immagini vive, tante quante sono i lettori, variegate tra loro come le esperienze che offre la vita”. E’ significativo il richiamo ai lettori delle Città invisibili proprio da parte di chi ha cercato di rendere in qualche modo visitabili città inesistenti fuori dalle pagine del libro che  per Calvino  rimane  “Il libro in cui credo di aver detto più cose, perché ho potuto concentrare su un unico simbolo tutte le mie riflessioni, le mie esperienze, le mie congetture, e perché ho costruito una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino agli altri in una successione che non implica una consequenzialità o una gerarchia ma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate”. Sono città dai nomi poetici e fiabeschi, tutti al femminile, come Maurilia, Eufemia, Zobeide, Ipazia, Armilla, Cloe, Valdrada, Olivia, Sofronia, Eutropia, Zemrude, Aglaura, Ottavia, Ersilia, Bauci, Leandra, Melania, Smeraldina, Fillide, Pirra, Adelma, Clarice…Città sottili o continue o nascoste, o correlate alla memoria, ai segni, al desiderio, agli occhi, agli scambi, al nome, al cielo e ai morti. Invisibili, cioè visibili soltanto tramite l’immaginazione e la finzione letteraria, contemplabili nel testo e nella scrittura cristallina dell’ autore come fossero disegnate su un’antica  tavola   o in una carta topografica immaginaria dispiegata sotto i nostri occhi.  D’altronde Calvino stesso, scrittore tra i più “visivi” della contemporaneità, dedica una delle sue Lezioni americane, proprio al concetto di “visibilità” in letteratura, e lo fa  partendo dall’”alta fantasia” dantesca, che è la “parte più elevata dell’immaginazione, distinta dall’immaginazione corporea, quale quella che si manifesta nel caos dei sogni”; ora l’alta fantasia in senso dantesco ha il potere di imporsi alle nostre facoltà e di rapirci in un mondo interiore “strappandoci al mondo esterno, tanto che anche se suonassero mille trombe non ce ne accorgeremmo”. Ebbene, le fantastiche descrizioni delle Città invisibili esemplificano meravigliosamente questa facoltà dell’immaginazione e il percorso che dal testo scritto arriva all’immagine visiva: il viaggiatore-lettore di quest’opera   “vede” le città via via attraversate con gli occhi del narratore, il quale, a sua volta, vede con l’occhio interiore ciò che non si vede dall’esterno, e, mentre le vede, le fa esistere così nella sua come nella nostra immaginazione. Appare qui evidente l’analogia tra l’arte dello scrittore e l’arte del pittore: entrambi rendono visibile l’invisibile, l’uno con la parola, l’altro con le immagini; il pittore  rappresenta direttamente sulla superficie del foglio o della tela la sua immaginazione, lo scrittore la rappresenta indirettamente tramite la scrittura, ma non può rappresentare niente che non sia prima “visto” con l’immaginazione. Questa facoltà di vedere senza vedere è oggi offuscata dall’inflazione di messaggi visivi d’ogni tipo, misura, gusto, disgusto  e dimensione: “Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo”.   Ecco: le figure, le immagini e gli oggetti-simbolo visibili nella mostra di Palazzo Borea D’Olmo di Sanremo, che questi dodici artisti hanno pensato come omaggio a Italo Calvino, sono invece riuscite ad acquistare rilievo nella memoria del lettore-visitatore, e vi rimarranno a lungo, magari anche spingendolo a riaprire e a rivisitare (o ad aprire e visitare se ancora non l’avesse fatto) Le città invisibili.

 

 

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