Dignità e libertà dal lavoro

Dignità e libertà dal lavoro

Dignità e libertà dal lavoro

  Mio padre faceva il ferroviere. Era addetto agli impianti elettrici (I.E.), dunque personale “non viaggiante”, per dirla con la nomenclatura che la grande amministrazione ferroviaria attribuiva ai suoi sottoposti.  Cresciuto nei campi e nei boschi, dopo la leva militare (1954) aveva compreso quanto fosse importante avere un “pezzo di carta”. Era arrivato però solo alla III elementare: gli stessi genitori l’avevano tiepidamente dissuaso nella prosecuzione degli studi: era uomo, aveva un po’ di terra, sapeva far la firma e fare le addizioni. Cosa voleva cercare di più?

Fortunatamente mio padre aveva in testa qualcos’altro, ed era andato nella chiesa della borgata vicina a casa sua, dove celebrava un povero parroco, piuttosto male in arnese. Da lui avrebbe ottenuto, in lunghe ore extralavorative, l’istruzione sufficiente per raggiungere il diploma elementare.

Con quel pezzo di carta il contadino s’era ripulito e presentato emozionatissimo al concorso di ammissione per N manovali presso le FS. Da qui, presto altro concorso interno per passare a operaio negli Impianti Elettrici. Seguendo i corsi interni, studiando sui testi forniti dalle stesse ferrovie, a 56 anni (con la stessa emozione in gola, mi confidò) s’era presentato al concorso interno da tecnico, superandolo brillantemente. La differenza di stipendio era praticamente trascurabile, ma contava più di tutto, per lui, dimostrare a sé stesso che non aveva smesso di imparare e di migliorare la sua professione, la sua conoscenza e che il suo cervello aveva ancora posto da riempire con nuove informazioni e la relativa capacità di organizzarle in cultura.


A causa di questo processo durato anni (dico della consapevolezza della formazione culturale) mio padre aveva un rispetto particolare per i libri. Non li amava come feticcio, consapevole che anche dall’oggetto-libro può discendere un certo tipo di potere (e dunque di violenza) caratteristica degli uomini d’amministrazione o di disciplina. Teneva però alla loro integrità: ove possibile li foderava, lavava mani e tavolo della cucina prima di appoggiarvene uno.

Avevo ormai sedici anni quando lo sentì dire che era stufo di sentir parlare dei Promessi Sposi, e che l’avrebbe letto. Sì, vabbè, dai… Quelli son libri difficili… Per l’appunto: proprio perché difficili mio padre inforcò gli occhiali e lesse, tutte le sere, la sua decina di pagine, come una medicina, come una consegna di una sentinella. In mezzo alle molte cose che non capiva proprio bene, o a parole che non aveva trovato neppure nel dizionario, aveva scoperto che l’uomo vive simili dinamiche in ogni tempo. Aveva scoperto che esistono le parole adatte per parlare di ogni cosa, anche delle cose più imbarazzanti, di cui è difficile parlare. Ancor più aveva imparato che non è importante sapere tutto, nell’integrità ottocentesca di quel romanzo, ma carpirne il senso, le passioni, l’immedesimazione.

In quegli anni ero praticamente impermeabile alla lettura. Mai mi sarei immaginato a leggere con passione un testo più lungo di un fumetto. Ma presto avrei scoperto autori a me affini, che m’avrebbero punzecchiato e stuzzicato, svegliato in me quella voce che dice: “Ancora! Ancora!”.

Incontrai Beppe Fenoglio, nella persona della Malora. Quel libro parlava anche della storia di mio padre, lui che il pelo volatino del fieno l’aveva conosciuto per davvero. Ma non feci a tempo a consigliarglielo. Io ero ormai soldato, e lui se lo portò via un infarto, all’improvviso.


Se provo a spostare tutta questa storia avanti di sessanta o settant’anni vedo un giovane (figlio unico) cresciuto in una famiglia in cui i due genitori lavorano per pagare un affitto. A punizioni e urla, riesce a ottenere la licenza media, oppure è bravo, e la famiglia lo sostiene per arrivare a un diploma tecnico professionale. Il giovane ascolta discorsi in cui si raccomanda il valore dello studio e della cultura. Allora trova un lavoro quale che sia, call center, o cameriere a chiamata, o dog-sitter, e nel frattempo studia, si prendere una laurea, cercando di compensare le sue passioni e inclinazioni con la disciplina che potrebbero facilitarlo nel mondo del lavoro. Dopo la tesi, dopo (magari) il dottorato, si sente pronto per lavorare (poniamo da architetto) e quindi si sente pronto a imparare ancora molto. Ora sa organizzare le informazioni e sa metterle in relazione: ha una cultura da architetto. Lo Stato ha investito su di lui, sia come edificio scolastico che come struttura, infrastruttura, tempo e cultura. Si butta a capofitto nel mondo del lavoro e trova effettivamente quasi subito da lavorare. A 300 euro al mese. Per quanto tempo? Non si sa.

Volendo essere un adulto degno ed emancipato ambirebbe pure ad avere una casa sua, anche modesta, anche piccola, anche così si cresce…  Ma con quei soldi, forse ci affitta una tenda canadese. Mentre nota, allo stesso tempo, alcuni emeriti ignoranti (laureati o no, di diversi schieramenti) sedere sui più alti scranni della amministrazione pubblica, senza alcuna fatica (solo un po’ di faccia tosta) aspirare e raggiungere emolumenti magnifici, e pure un significativo vitalizio per loro e per i loro cari. Vede furbetti passargli davanti, o incompetenti lavorare con responsabilità per la Cosa Pubblica, o anche bravi e competenti professionisti che presentano tariffari adatti a un sultano. A quel punto, trovata l’occasione, se ne va all’estero, in posti dove prende ben altre cifre di stipendio, fin dal primo giorno. Anche se poi sarà costretto ad abitare in un alto palazzo, magari non a norma con le norme antincendio. Ma si sa: tutto non si può avere…


Cosa è cambiato dalla generazione di mio pare a questa? Prima di tutto che dalla fine della guerra c’era ampio spazio per migliorare. Se ci si impegnava, poteva solo andare meglio. Ma poi, cosa abbiamo perduto per strada? Forse meglio dire cosa ci hanno tolto? Perché imparare è diventato così poco influente sulla qualità della vita? Perché troviamo normale che lo Stato spenda soldi per farci studiare, e che poi le nostre competenze siano messe a disposizione di qualcuno all’estero? Perché c’è ancora qualcuno che parla di “vacche grasse”, come se davvero negli anni scorsi fosse stato tutto un colar di unto? Io mi ricordo: si lavorava, noi lavoravamo, io come altri. Non c’era colatura di grasso, c’era solo uno stipendio fisso e “normale” alla fine del mese. Ma si facevano pure dei sacrifici per raggiungere certi obbiettivi. Ora hanno tolto le sicurezze: dice che è una noia far sempre lo stesso lavoro…  Bisogna essere flessibili, adattabili, accettare ogni condizione. Chi parla di “vacche grasse” è in malafede, o forse lui stesso ne ha avuto accesso e buon gioco, e non ricorda che questa situazione non era per tutti e non era così.

   ALESSANDRO MARENCO

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