Dei disfatti colori di Dominica Villa Balbinot

DEI DISFATTI COLORI
DI DOMINICA VILLA BALBINOT

DEI DISFATTI  COLORI DI DOMINICA VILLA BALBINOT    

         Le alte, luminose, cupe, icastiche e impervie visioni poetiche di Dominica Villa Balbinot (leggibili nel sito  online “Viadellebelledonne”) presentano  caratteri simili a quelli  che il teologo Rudolf Otto  attribuisce al  “numinoso” (la pura sacralità), cioè il mysterium tremendum ma anche fascinans , che è all’origine oscura e irrazionale del sentimento religioso e della stessa categoria del sacro (e, potremmo aggiungere, della grande arte).

“Il contenuto qualitativo del numinoso (a cui il misterioso dà forma) è da un lato il momento già citato e respingente del tremendum con la majestas. Ma dall’altro è chiaramente anche qualcosa di particolarmente attraente, seducente, affascinante, che con il momento respingente del tremendum viene a formare una strana armonia di contrasti. Lutero dice: ‘Così come mostriamo timore per un luogo santo, eppure non fuggiamo da esso, ma anzi ci avviciniamo sempre di più’” (Il sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale, 1917).

Così la poesia di Dominica (o Dominique) Villa sconcerta e affascina al tempo stesso, si dischiude su cieli e su abissi, attrae e respinge come il Serpente divino dell’Eden:

“Ma nel giorno dedicato al compiuto martirio / non aveva fretta – la bestia – di finirla: / e in quell’aria dilavata / era il resto incalcolabile, / la decollazione di ogni lingua fiorita, / e c’era il serpente nel cuore della madre. / (Un abisso si aprirà sempre per noi, / anche questo tuo posto  può andare a fuoco , / ci sarà sempre la sfigurazione / – di quel nostro viso di vetro – / e nella vorace bocca della divinità)”. 


Dominica Villa Balbinot

Questa poesia così apocalittica  e così “venata di nero e bagnata di sangue, come una sorta di maledizione che va alla ricerca visionaria di uno squarcio di luce, e si snoda emorragica tra misticismo e anatomia” (come ha chiosato  un’altra poetessa di forte temperamento quale  la milanese Anna Lamberti-Bocconi)  si iscrive dunque nella costellazione   dei “misteri” sacri (da Jacopone  a D’Annunzio): “La crudezza del mondo era tranquilla, / profondo era l’assassinio, / prima che potesse accadere veramente qualcosa / (nella sovrabbondanza dell’azzurro) / qualcuno doveva fermare le mani sanguinarie / strappendola via dalla risacca, / dai fiumi della perdita. / Ora amava con repulsione, / con le bocche che parevano piaghe, / il suo era un sentimento funerario. / sarebba stata costretta a baciare il lebbroso / per far più bella  la cenere dei morti, / tra i profumi delle tuberose…” (da Febbre lessicale, versi scritti per la morte del padre). Come la febbre è un sintomo che segnala un male da curare così la fioritura di parole poetiche  segnala la necessità di esprimere il dolore per il lutto: “Lasciate voi allora / la dolente al suo lutto: / stiamo sempre affogando – nel fiorire di  un giardino azzurro – / e tutto sarà dimenticato / e a nulla si porrà riparo!”. La poesia di Dominique Villa non è per niente consolatoria, ricorda, per certi aspetti,  le rime “petrose” di Dante: “Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi / né loco che dal suo viso s’asconda; / ché, come fior di fronda, / così de la mia mente tien la cima: / cotanto del mio mal par che si sprezzi, / quanto legno di mar che non lieva onda; / e ‘l peso che m’affonda / è tal che non potrebbe adequar rima” (”Così nel mio parlar voglio esser aspro”). Non è consolatoria ma necessaria a sopravvivere così “nei deserti roventi” della Febbre lessicale come “In questo scorticatoio – e tra flegmi, / tra le materie umide / de la bruciata cosa ” degli Inconcreti furori , l’ultima raccolta di versi di Dominique Villa, dove il suo già scarno stile si fa ancora pià scarno, concentrato, ellittico ed ermetico (quasi come l’Ungaretti de “L’isola”). Un esempio mirabile di questo suo stile è “Dei disfatti colori”, dove un soggetto indeterminato “Succhiò la bellezza / dei disfatti colori” dalla “vitrea barriera / di misteriosi cieli sulle rovine…” e rimase a meditare su  quelle rovine, su una verità impura, in quel paesaggio desolato, per stilare un suo “lucido commentario verso una città segreta”, mentre i fiori apparivano piccoli e bianchi come le arcate bianche di calce. E al lettore non rimane che meditare in silenzio su questo mistero dei disfatti colori.

FULVIO SGUERSO

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