Dalle urne una conferma per il governo gialloverde…

 
Dalle urne una conferma per il governo gialloverde
E una lezione di cui fare tesoro

Dalle urne una conferma per il governo gialloverde

E una lezione di cui fare tesoro

 Sulle ragioni del tracollo dei Cinquestelle se ne sono sentite di tutte, tante banalità, qualche opinione stravagante, mezze verità.  Una leadership ondivaga nella sua apparente sicurezza, amministratori inesperti, il provvedimento bandiera che ha scontentato un po’ tutti hanno indubbiamente inciso ma non più di tanto. Altre e strutturali sono le ragioni della disfatta.

 


La perdita di identità. Un movimento di protesta quando assume responsabilità di governo entra in contraddizione con sé stesso a meno che abbia la forza e il coraggio di stravolgere lo statu quo. Un movimento che si presenta come antisistema e come tale viene percepito anche fuori dai confini nazionali non entra nel sistema ma lo deve rovesciare. L’unica cosa che si è visto è il velleitario tentativo di togliere i vitalizi ai parlamentari e di limare le pensioni d’oro (giudici permettendo). Robetta. Sparita la connotazione protestataria rimaneva quella sovranista e populista ma invece di rivendicarla e difenderla il movimento l’ha prima annacquata e poi rigettata come ciarpame di destra.

La smania di distinguersi dall’alleato leghista. Un errore madornale: le due forze politiche, obbiettivamente alternative a tutta la storia politica della repubblica, avevano segnato il cammino per una iniziale simbiosi, alla quale poteva con grande probabilità seguire una divaricazione, rimanendo sul comune terreno di una autentica vocazione nazionale e popolare, quando fossero definitivamente liquidate le sciagurate categorie destra-sinistra. Stava ai Cinquestelle muoversi in direzione della Lega liberata dall’ipoteca berlusconiana e nordista e invece, un po’ per interessi di bottega, un po’ per sprovvedutezza, sono cascati nella rete tesa dal Pd e da Berlusconi e hanno imbastito una campagna dissennata contro Salvini finendo inevitabilmente per spostarsi verso il Pd. Chi sostiene che i Cinquestelle avrebbero dovuto segnare in modo ancora più deciso la distanza nei confronti del socio di governo non ha capito granché (o ha sperato che entrando nell’orbita piddina si ripetesse la vecchia storia del Pci che fagocita il ‘68, la contestazione studentesca, i Verdi, che non a caso non esistono più).


La perdita di entusiasmo. Mentre Salvini ha saputo mantenere un atteggiamento propositivo, si è fatto portatore di ideali e di valori, è arrivato al punto di essere sbeffeggiato per il crocefisso e il rosario in un Paese di esasperata laicità in cui i simboli della fede hanno una assai debole presa emotiva, Di Maio  si è accodato a Zingaretti nella ricerca di un terreno di scontro, nell’usare argomenti negativi, nell’attaccare, scegliendo oltretutto il bersaglio sbagliato. Non dico che in politica si debba sempre usare il fioretto e rispettare il bon tonma se e quando bisogna usare la clava lo si faccia contro l’avversario giusto. Il caso Siri è a questo proposito esemplare; una vicenda tutt’altro che chiara, fatta più di allusioni, suggestioni e sottintesi  che di dati fattuali, di registrazioni telefoniche ambigue, nelle quale l’unica cosa che si è capita è che si è trattato di intenzioni, alle quali, com’è noto, non si fanno processi. Una vicenda che avrebbe chiesto grande discrezione, un atteggiamento concordato, compostezza e sobrietà, che non significano insabbiamento o far finta di nulla. Invece è sembrato che i Cinquestelle volessero prendere la palla al balzo, che avessero trovato l’occasione buona per mettere all’angolo una Lega che cresceva troppo nei sondaggi (poi si è visto com’è andata), un modo per additare alla piazza il reprobo da lapidare. Molti hanno detto che così Di Maio intendeva vellicare i propri elettori: se così fosse si sbagliava di grosso. Che ci sia nell’elettorato potenziale del movimento una quota consistente di rancorosi, odiatori di professione, scontenti a prescindere è indubitabile ma con quella quota il movimento sarebbe rimasto al livello di Leu o dei partitini dell’ultrasinistra (e il presidente della Camera farebbe bene a esserne consapevole). Il popolo del 5 marzo è un’altra cosa e anche il 17% dei votanti comunque raccolto in queste elezioni sono un’altra cosa. I signori del Fatto che dal giorno del contratto ne predicano la rottura sono dei cattivi consiglieri e dei pessimi analisti: Di Maio ha perso metà dei suoi elettori, che erano, com’è stato ampiamente provato, innamorati del governo gialloverde, battibeccando con la Lega come uno Zingaretti o un Tajani qualunque; se malauguratamente lo dovessero defenestrare per far posto al globe trotter o a Paragone o lo dovessero costringere a far cadere il governo perderebbe anche l’altra metà. E siccome indietro non si torna mai, del movimento resterebbe solo il ricordo e a rimetterci sarebbero in tanti, Lega compresa: Salvini, che è un uomo accorto, non solo ha pubblicamente manifestato la sua fiducia in Di Maio ma si è affrettato a disinnescare il caso Rixi prima che scoppiasse nelle mani del suo collega.


Noi siamo diversi. La lotta alla corruzione (degli altri) e la pretesa di una propria diversità antropologica hanno un cattivo sapore fra il sanfedista e il giacobino e mi sanno tanto del vecchio Pci. Già prima che Berlinguer agitasse la “questione morale” (sempre degli altri, ovviamente) i compagni si erano distinti nell’accusare gli avversari – i democristiani – di “mangiare” – erano molto diretti i compagni -, di essere dei “forchettoni”. Poi anche loro hanno dato prova di un appetito formidabile e, riguardo alla moralità, hanno dimostrato come un partito possa essere marcio fino al midollo. Se però vogliamo rimanere sul piano asettico della Grande Storia, ricordo sommessamente ai grillini che l’Incorruttibile non solo era a capo di una congrega di corrotti e voltagabbana pronti per salvare la propria a consegnare al boia la testa dell’amico ma i suoi stessi ispiratori – Voltaire o Rousseau – avevano parecchi scheletri nell’armadio. Insomma il giustizialismo è un boomerang e sbraitare contro le malefatte altrui non sempre basta per coprire le proprie. 


Per concludere

Elettoralmente, numeri alla mano, è stata una disfatta ma non è detto che lo sia anche politicamente. Basta cambiare prospettiva per rendersi conto che quello gialloverde è un esperimento riuscito, altro che un ircocervo.  A distanza di un anno il consenso delle due forze politiche, quindi il consenso del governo, supera il 51,4%: una cosa così non si era mai vista in Italia e forse in Europa; il peso delle opposizioni  si  è ridotto in termini percentuali e assoluti nonché politici poiché adesso Forza Italia si sta decomponendo e la Meloni dovrà faticare parecchio per mantenere un ruolo di opposizione  senza rimanere appiccicata al suo cadavere: se avrà un minimo di intelligenza politica (ma io ne dubito) lascerà al frastornato Pd e alla polvere forzista quel ruolo e si accontenterà di fare l’outsider o la ruota di scorta (senza che ce ne sia bisogno). In ogni caso dovrà smettere di chiedere un giorno sì e l’altro pure lo scioglimento del governo e convincersi che una maggioranza Lega Fratelli d’Italia non sarebbe possibile (né augurabile).

 Ora le parti sono invertite ma il loro peso complessivo è addirittura superiore: qualcosa vorrà dire. Sarà bene che i Cinquestelle guardino con fiducia a questo dato e lo considerino un ottimo viatico per proseguire nella legislatura, non per tirare a campare consci che questa è la loro ultima occasione ma per approfittare dell’opportunità che gli è stata data di poter bene operare per il Paese.  E, riguardo a Di Maio, per quanti errori possa aver commesso, è l’unico in grado di stabilire un rapporto costruttivo con l’alleato di governo, purché si liberi dai condizionamenti esterni e interni (e delle quinte colonne che d’accordo con i burattinai del Pd contano di sparare le bordate decisive per affondare la nave gialloverde: i “migranti”).

 Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.