Dalla Russia con amore

Ero in seconda media quando lessi l’opera più nota di Dostoevskij, Delitto e Castigo. Mi chiedo ancora come abbia potuto rubare tante ore al sonno per entrare nella mente del tormentato studente e come la sua vicenda mi catturasse tanto da fissarmisi in modo quasi eidetico. Mi piacerebbe che mi fosse rimasta un po’ di quella memoria giovanile, che qualche anno dopo, in tempi in cui si andava al bar o nei circoli per vedere la televisione, mi consentì di precedere il concorrente di Lascia o Raddoppia nella risposta alla domanda finale: dove Raskolnikov aveva nascosto l’accetta con cui avrebbe ammazzato la vecchia usuraia.  Quella lettura fu l’inizio di una scoperta che da Dostoevskij mi portò prima nel mondo immenso di Tolstoi e  successivamente ad attraversare in modo più organizzato e intenzionale tutta la letteratura russa, da Gogol  a Lermontov,  da Turgenev a Puskin fino a Cecov e agli esiti più modesti di Gorki o della Vera Pavlova dell’Officina sugli Urali per tornare poi alle vette del Dottor Zivago.  E quando, al liceo, come tanti miei coetanei, cominciai ad affinarmi l’orecchio con la musica classica  investii i primi soldi guadagnati con le mie prime – e ultime – ripetizioni  in due dischi: il primo, che conservo ancora nonostante i tanti traslochi  e le vicissitudini personali, la Toccata e fuga in re minore di Bach e l’altro il Capriccio italiano di Ciaikovskij. E  proprio il Capriccio italiano  rimane la mia musica preferita non solo o non tanto per le sonorità ma per l’intrecciarsi di immagini, di pensieri, sentimenti, ricordi letterari, dal “Salve cara deo tellus sanctissima” petrarchesco al montiano “amate sponde pur vi torno a riveder”, che mi provocano uno struggente e quasi doloroso amore per la mia terra.

Col tempo e il progredire degli studi queste esperienze giovanili  si sono organizzate  e sono diventate  parte del mio mondo e base dei miei atteggiamenti e del mio modo di vedere e giudicare. Non riesco a concepire il mio essere italiano se non in un’Italia incastonata in Europa e nel mediterraneo, storicamente, culturalmente, politicamente ed economicamente unita alla Russia. Se mi dovesse capitare di incontrare qualcuno che riduce questo a una scelta di campo, a partigianeria, a tifo sportivo e che mi qualifica come “putiniano” non mi potrei neppure arrabbiare, come non ci si arrabbia se al giardino zoologico un macaco ti mostra il sedere per scherno.
La storia dei popoli si svolge su più piani, che corrispondono alla molteplicità degli approcci storiografici. C’è una storia dinastica di guerre, battaglie, alleanze, conquiste territoriali: sotto questo aspetto quella dell’Europa è stata una millenaria lotta di tutti contro tutti, prima su scala regionale, poi, col tramonto degli eserciti personali e della cavalleria, su scala nazionale con ricorrenti tentativi egemonici: inglesi contro francesi, spagnoli contro inglesi, tedeschi contro francesi, russi contro polacchi. Quando si sperava che finalmente si approdasse ad una pace perpetua garantita dalla fragile rete dei rapporti familiari e di parentele fra le teste regnanti la sua rottura condusse alla carneficina delle due guerre che da europee divennero mondiali, dopo le quali della centralità dell’Europa restò solo il ricordo. Di contro però, in una prospettiva diversa ma non meno realistica, sopravvivono l’eredità della respublica christianorum, lacerata dalla Riforma ma mai definitivamente perduta, se non altro per contrasto con gli infedeli, e il sostrato imperiale che si ripropone attraverso i secoli da Carlomagno agli Absburgo, nelle istituzioni e nei segni del potere – la maestà, Augusto, Cesare, che ritorna nel Kaiser o nello Zar – e, almeno fino al diciottesimo secolo, un’identità che si esprime nella lingua dei dotti, il latino, che dava senso e unità alla cultura europea.

E anche dopo che l’ampliarsi della base sociale della cultura dette alle lingue nazionali una definitiva dignità scientifica oltre che letteraria, dopo che le lingue veicolari furono imposte dal potere politico ed economico e la lingua di Roma venne ridotta a materia di studio, rimase fortissima l’esigenza di mettere in comune i patrimoni culturali nazionali, dalla musica alle arti figurative alla letteratura. Ed è così che nonostante la perdita dell’omogeneità politica, sociale, economica e linguistica, nonostante il venir meno dell’unità spirituale, si è col tempo rafforzata l’unità culturale nella quale senza perdere la loro connotazione nazionale si ritrovano Dickens e Balzac, D’Annunzio e Machado, Goethe e Wilde, tutti espressione di una nazione di livello superiore alla quale la Russia appartiene a pieno titolo, dalla grande stagione romantica fino ai nostri giorni  (la memoria corre a Pasternak). È questa l’Europa, non l’Ue. Soltanto la follia e l’ignoranza ferina dell’inquilino della Casa Bianca e dei suoi cagnolini di casa nostra può pensare di respingerne fuori la Russia, di espellerla dai nostri confini storici e culturali, di farne non solo un rivale politico o un concorrente economico ma  addirittura un’alternativa alla democrazia, alla libertà, alla civiltà stessa, da combattere e annientare perché, come ha dichiarato il Quisling di Kiev, è in atto  uno scontro metastorico del bene contro il male. Dove il Bene assume le fattezze improbabili sue e della sua bella moglie, sguinzagliata per il mondo, non si sa a che titolo, a raccogliere armi e denari. Che dire? Passa tutto, passerà anche questa follia.

Pierfranco Lisorini

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