Dalla grammatica alla teoria gender…

 

Dalla grammatica alla teoria gender:

un altro modo per minare la famiglia e la nazione

Dalla grammatica alla teoria gender:

un altro modo per minare la famiglia e la nazione

Incalzata da un giornalista particolarmente deciso e, mal per lei, ben informato, la deputata Pd non fa una piega, secondo una prassi ormai consolidata fra gli esponenti del suo partito quando vengono messi alle strette. Ma quando l’incauto giornalista si azzarda a osservare che “lei, un politico, ha delle precise responsabilità”, la deputata improvvisamente si sveglia e reagisce furiosamente. Non perché le si è dato dell’irresponsabile ma perché, urla, “lei non è un politico ma una politica”.

Detta così sembra una barzelletta e invece è la tragicomica realtà messa in scena l’altra sera in una diretta televisiva. Siamo al punto che poste  di fronte al problema dei correntisti truffati, dell’intreccio criminale fra partito (il Pd) e sistema bancario (Mps), di fronte al fallimento della politica sul lavoro, di fronte al disastro combinato con l’invasione dall’Africa, i frutti preziosi delle quote rosa rimangono imperturbabili ma guai se in deroga al bando boldriniano si dà del politico, del ministro o dell’assessore a una donna. Ormai un insegnante (pardon: un’) non si può più rivolgere agli studenti ma deve farlo alle studentesse e agli studenti, così come la Camusso fa con lavoratrici e lavoratori e ogni aspirante a entrare nella grande mangiatoia fa con quelli che spera siano suoi elettrici e elettori. Ho scritto suoi per rispetto alla grammatica ma temo che la Boldrini stia elaborando un piano per eliminare la regola maschilista che vuole il plurale maschile in presenza dei due generi.


 Per par condicio, proseguendo su questa strada, bisognerà affrontare il problema della tigre, della pantera, della foscoliana upupa, della vipera o della biscia. E la terra perché mai deve essere femmina? Senza contare l’imbarazzo che crea il mare, maschio da noi e femmina oltralpe. Lascio perdere Dio per non essere accusato di blasfemia.

Fin qui sono storie di ordinaria follia limitate all’ambito grammaticale. Quando si discute di grammatica bisogna essere contenti perché vuol dire che le cose vanno bene, che i negotia lasciano ampio spazio all’otium, che il mondo somiglia meno “all’aiola che ci fa tanto feroci” e più al buon governo di Roma imperiale, quando Aulo Gellio si appassionava alle dispute sull’uso di un congiuntivo o si chiedeva se è preferibile l’accusativo in “im” o in “em” nella terza declinazione. Si potrà obiettare che nella loro apparente futilità queste ultime potevano vantare un loro rigore ben lontano dalla volgarità della political correctness del femminismo d’accatto di oggigiorno. Ma le ripicche boldriniane sul genere sono solo un segnale o, se vogliamo, l’epifenomeno di un’operazione culturale e psicologica assai più vasta e meno innocua.  Un’operazione tesa a realizzare una rivoluzione antropologica modificando gli atteggiamenti costitutivi delle organizzazioni sociali perché su di essi poggia la famiglia, che ne è la cellula, strumento della continuità generazionale, deposito di ricordi, trasmettitrice di valori, ancora della tradizione, e sulla famiglia si regge la nazione con tutta la propria specificità linguistica, storica e culturale. Per distruggere la nazione bisogna quindi dissacrare la famiglia, immiserirne il significato etico e giuridico, ridurla a una contratto di convivenza fra persone, un contratto che ha il fine in se stesso e un interesse puramente economico. E per estirpare dalla radice ogni residua connotazione naturale della famiglia bisogna intervenire sulla genitorialità, bisogna disassolutizzare l’idea del padre e della madre. Questo obiettivo si raggiunge in due modi. Il primo passa attraverso la definitiva dissociazione fra sessualità e procreazione. Non ci deve essere più alcuna relazione fra amore, affettività, commercio sessuale e generazione. La generazione diventa il capriccio indifferentemente di un maschio o di una femmina o di una coppia omosessuale, una scelta libera resa possibile dalla presenza di una banca dello sperma, una banca degli ovuli e, in attesa che la tecnologia provveda a renderle superflue, di donne che si prestano ad affittare il loro utero.


Il secondo comporta il superamento dei generi, la negazione della irriducibilità, non solo anatomica, dell’essere maschio e dell’essere femmina. Nei medesimi ambienti della sinistra progressista si è passati in fretta dall’enfatizzare l’odio fra i sessi, dal combattere il maschilismo anche dove maschilismo non c’era, dalla imposizione di mode e comportamenti che maschilizzano la donna alla elaborazione di teorie cervellotiche che pretendono di ridurre un dato naturale, il dimorfismo sessuale umano, ad una imposizione culturale. Il mito freudiano della donna fallica ritorna attraverso una subliminale normalizzazione dalle variazioni sul tema del sesso, icasticamente rappresentate da giovani brasiliani confusi fra le prostitute e resi popolari dalle vicende di un noto giornalista della televisione di stato. I gusti, ma io direi le perversioni, sessuali diventano così la pezza d’appoggio per dimostrare un continuum maschio-femmina.


Chiaramente è impensabile che queste pratiche aberranti divengano statisticamente significative, e del resto anche i matrimoni gay restano numericamente insignificanti. Tuttavia non è  il numero ma il principio che conta. I figli continueranno a nascere da un uomo e da una donna e la stragrande maggioranza di loro sarà frutto sì di una scelta ma di una scelta di amore. Ma questo non basta per impedire che venga perso il senso sociale e culturale della famiglia e della genitorialità. Mi spiego con un esempio. Le coppie omosessuali stabili sono una sparuta minoranza e, al loro interno, sono ancora una sparuta minoranza quelle che vogliono avere un figlio. Tanto basta però per far passare l’idea che a scuola i bambini non debbano più indicare padre e madre ma genitore uno e genitore due. Tanto basta per operare una rivoluzione di significato, tanto basta per far evaporare la carnalità del rapporto genitore figlio, per ridurlo ad una scelta culturale o a una convenzione anagrafica. E questa, lo ripeto, è la premessa per indebolire l’idea di nazione, per dissolvere l’identità nazionale in una indifferenziata massa di consumatori globali. 

 Pier Franco Lisorini

Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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