DAL VAJONT A LAMPEDUSA

DAL VAJONT A LAMPEDUSA

DAL VAJONT A LAMPEDUSA

Sono passati cinquant’anni dai fatti del Vajont, personalmente sentii per la prima volta questo nome quando avevo vent’anni, prima di quel giorno nessuno mi aveva parlato di questa storia, né in tv, tanto meno a scuola o in famiglia.

Il racconto della valle del Vajont e della sua diga mi impressionò, mi colpì profondamente come uomo ma soprattutto come Italiano, il pensiero che un simile sopruso potesse essere stato perpetrato con il beneplacito delle istituzioni era sconcertante, e ancor più sconcertante era il silenzio colpevole che era calato sulla vicenda e sulle sue conseguenze.

Di Vajont si parla quasi esclusivamente il 9 ottobre, giorno dell’anniversario; raccontando nella maggior parte dei casi solo quello che accadde in quella maledetta notte, poche volte ricostruendo ciò che aveva portato all’orrore e allo scempio che conosciamo, ancor più di rado accennando alla storia della valle e dei suoi abitanti negl’anni che seguirono il disastro.

La storia quando diviene “cronaca” perde la sua connotazione cronologica, il fatto eclatante catalizza l’interesse, lasciando sullo sfondo il processo umano che ha generato le condizioni perché tale accadimento si realizzasse, unitamente al dramma di coloro che scampati al disastro devono convivere con una quotidianità fatta di macerie e di sofferenza.


–  Non per tutti, per fortuna Signora Merlin ci sono professionisti come lei. –

Il “fatto” con la sua eccezionalità ha preteso per sè l’intera attenzione, grazie ai suoi particolari al contempo epici e macabri, grazie al “conteggio delle vittime” e ai racconti dei soccorritori (davanti cui togliersi il cappello).

I morti, la tragedia, “sono” notizia; quando si parla dei vivi, della povera gente e della sua quotidianità tutto torna fumoso, indistinto.

Così poco si è detto all’epoca sui connazionali che vivevano in quei paesi arroccati sui monti e hanno dovuto subire gli espropri e le angherie dei costruttori e dello Stato Italiano, loro complice, e poca attenzione è stata anche offerta a quello che ha seguito il disastro: il fatto che i cittadini dei paesi più vicini alla diga, appena sfiorati dall’acqua la notte del 9 ottobre, siano stati immediatamente sfollati da un luogo oramai non più pericoloso, per essere distribuiti in tre insediamenti più piccoli distanti tra loro diversi chilometri, montanari con un senso di appartenenza a quei luoghi più saldo delle rocce della valle, costretti a vivere in case diverse da quelle in cui erano nati e cresciuti, perché nessuno si è preso la briga di rendere nuovamente agibili le loro dimore lasciate praticamente intatte dall’ondata.

Le tragedie con la loro violenza rappresentano eventi che si collocano a pieno titolo nel passato, quando se ne parla ormai sono accaduti e rimane per chi li legge sul giornale solo lo spazio per il cordoglio e la commozione.

Raccontare invece le cause di un certo evento o, ancor di più, le sue conseguenze sulla popolazione mette a nudo gli aspetti critici che andrebbero gestiti per evitare che accadessero in futuro altri eventi simili e la scarsa preparazione della classe dirigente nell’affrontare situazioni di questa portata; insomma non tanto qualcosa di passato da guardare con gravità, ma anche con sollievo, piuttosto una serie di interrogativi per il futuro, che andranno considerati e affrontati.

Così i “poveri cittadini” della valle del Vajont divennero corpi da contare il giorno dopo il disastro, per poi tornare nell’oblio in cui vivevano quando lo Stato, complice di un impresa senza scrupoli, li obbligò a costruire la loro rovina; nessuna troupe ha filmato la ricostruzione dei paesi e i nuovi soprusi a cui la gente del Vajont ha dovuto sottostare, espropriata della propria terra, della propria vita e poi anche della propria casa miracolosamente scampata alla catastrofe. 

Sta accadendo qualcosa di analogo anche ai giorni nostri a Lampedusa, quando quel barcone stipato di profughi è affondato col suo carico di disperati, tutta Italia è stata chiamata per commuoversi davanti allo spettacolo straziante delle bare allineate e dei parenti affranti; solo pochi minuti dei tg sono stati dedicati a chi è scampato a quella notte e al tipo di accoglienza che gli è stata offerta nei CPT, solo velocemente si è parlato dei ripari di fortuna allestiti all’aperto sotto una pineta nonostante sull’isola stesse piovendo ormai da quasi una settimana.

Lo stesso Letta è stato costretto a inserire una variazione al programma della sua visita ufficiale per incontrare i sopravissuti e vedere le condizioni in cui alloggiano, dato che tale atto, a mio avviso dovuto, non era stato inserito nella sua tabella di marcia.

A nessuno pare importare molto di come questi ragazzi siano sistemati e tanto menos ono interessati a sapere come questi verranno inseriti nel nostro territorio dopo la tragedia.

Eventi come questi vengono utilizzati spesso in modo strumentale per inasprire il dibattito politico e fare in modo che qualcuno, leggasi il grillo di turno, possa fare un passo falso perdendo così credibilità; mentre si sproloquia nelle piazze addobbate di verde su come chiudere le frontiere, velatamente lamentandosi del fatto che l’ONU non permetta di silurarle “ste carrette”.

Si continua a discutere pubblicamente su come arginare il fenomeno degli sbarchi, prima che si crei una multiculturalità che orami è già in essere; anche qui a Savona i cittadini migranti, arrivati da lontano o da lontanissimo, fanno parte ormai del tessuto sociale del nostro territorio, probabilmente un albanese ci ha rifatto il bagno, una cilena bada ai nostri anziani, il nostro collega in ufficio arriva dall’est Europa, il nostro vicino di casa dal Marocco e via così. Questo grado di integrazione, da noi per altro raggiunto in modo del tutto casuale, non è affatto la norma per il nostro paese, in alcune zone d’Italia la contrapposizione tra cittadini autoctoni e cittadini migranti è forte e porta a conflitti e incomprensioni

In modo analogo a quanto accade per il Vajont, nessuno parla di come si intende gestire la multiculturalità con cui giornalmente ci troviamo a fare i conti, quali iniziative lo Stato Italiano intende assumere al fine di governare le divisioni tra cittadini autoctoni e cittadini migranti; nessuno parla volentieri, specie in pubblico, di come sarà la nostra società tra dieci anni, forse perché nessuno ha fatto piani in tal senso.

ANDREA GUIDO

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