Culto del territorio

Culto del territorio

Culto del territorio

Fioriscono finalmente a decine, gruppi, pro loco, assembramenti più o meno improvvisati. Ricercano, analizzano, portano in evidenza. La parola d’ordine è “territorio”. Finalmente è tornata di moda la “piccola patria”. Vuoi per una vera e propria valorizzazione del luogo, vuoi per semplice passatempo, l’esaltazione dell’antico borgo, del paesello natio, dei luogo caro agli avi è ormai diffusa e presente, a partire naturalmente dai social network.

Come nasce questa esplosione? Come si articola? Proviamo a tratteggiare qualche caratteristica. Intanto siamo tutti ansiosi (beh, forse proprio ansiosi tutti no…) di scoprire che la nostra terra è nobile, ovvero nobilitata da signori illustri, scrittori, filosofi, eroi di guerra e di moti rivoluzionari, esploratori, santi e navigatori (giusto per essere coerenti con una forte tradizione italiana). Attraverso la nobilitazione della nostra patria possiamo nobilitare noi stessi. Sapere che siamo frutto della stessa pianta che generò un illustre personaggio, ci gratifica, ci sentiamo un po’ parenti ed assumiamo su di noi una parte del merito.


Questo meccanismo lo si ritrova spesso riferito anche in alcune interviste televisive, o in certe canzoni, soprattutto quando accade un evento positivo di grande rilevanza, come il recente oscar al film di Sorrentino. Tutti hanno riconosciuto in Roma una grande e innata bellezza. Essendo Roma la capitale d’Italia, ed essendo noi ‘italiani’, possiamo andar fieri dell’oscar che abbiamo vinto (ABBIAMO vinto; HANNO perso…). Non è forse l’Italia il Paese in cui hanno allignato tanto bene i grandi navigatori? I mostri del Rinascimento? I letterati famosi, gli eroi “dei Due Mondi”? E ancora inventori della radiotelegrafia? Vorrà dire pur qualcosa…

In realtà no. Non vuol dire nulla. Anzi: se ritenessimo davvero meritevoli di menzione questi personaggi (Sorrentino compreso) dovremmo far di tutto per avvicinarci a loro e non farci trainare dalla loro fama. Studiare, costruire, dipingere, scolpire, filmare, raccontare, creare. E non bearci di meriti altrui. Ma questo è ancora un altro discorso.

Dicevamo della celebrazione del territorio. Di per sé cosa ottima. Vien da chiedersi come nasce. In genere, suppongo io, si comincia a commemorare qualcosa quando sta per scomparire. Finché sappiamo che un oggetto, un bene immateriale, una persona, sono, in qualche modo, sicuri, non meritano celebrazioni. Quando invece pensiamo che possano sparire cominciamo a dedicarci alle loro onoranze (sono significativi i signori centenari dimenticati per tutta la vita, ed omaggiati solo in occasione del compleanno a tre cifre …). Ecco dunque le serate e i libri dedicati al dialetto, o alle vecchie foto, o all’antica cucina, o ai mestieri antichi. Ogni tanto si ripete: “per non dimenticare”, oppure: “Per salvare le poche tracce di una antica cultura”. In genere quando si arriva alla commemorazione, la realtà oggettiva si è già persa, e non c’è ricostruzione che ce la possa restituire. Spesso i nostri ricordi, le nostre belle memorie, sono ricostruzioni ottimistiche, anche nel più obbiettivo dei casi, della realtà. Rendiamoci conto che la storia umana ha necessità anche di dimenticare, che non si può vivere di nostalgia dei bei tempi andati, i quali non sempre erano così belli come ci piace ricordare. Voglio forse dire che c’è qualcosa di sbagliato in tutto questo? Assolutamente no. È anzi piacevole e interessante che le piccole memorie delle piccole patrie vengano salvate e catalogate, in qualche modo. Ma è altrettanto importante non farsi illusioni sulla ricostruzione fedele di un reperto che è valido solo quando è contestualizzato nel suo ambiente, nella sua epoca, in un quadro generale più complesso. E in ogni caso non ricostruisce quel che è stato.


 

Fino a qualche decennio fa la celebrazione del territorio era a carico dei pochi intellettuali del paese[1]: il medico condotto, il prete, il chirurgo in pensione, il capostazione, si dilettavano scavando nelle profondità degli archivi, ricostruendo la monografia del luogo, a partire, in genere, dal neolitico, fino ad arrivare alle invasioni napoleoniche. Nonostante queste monografie compaiano durante tutto il XX secolo, raramente si legge del passaggio al regno d’Italia, delle guerre d’indipendenza e delle guerre mondiali. Quasi mai si parla dell’industrializzazione. Oggi la celebrazione è passata alla più larga fascia di popolazione: l’innalzamento della scolarizzazione e il libero accesso e scambio di informazioni, la facilità di diffusione delle informazioni stesse, ha generato questo esercito di persone di buona volontà, dedite alla celebrazione dell’antico borgo.

Carmelo Prestipino

Intanto la storiografia, quella vera, è cambiata. Chi si occupa di Storia in modo scientifico, e da tanti anni (in valbormida è innanzi tutto Carmelo Prestipino, con l’Istituto Internazionale di Studi Liguri) sa che il rischio della celebrazione è quello di prendere delle oscene cantonate, solo perché si viaggia al contrario: si parte nella ricerca volendo dimostrare una tesi che ci piace, per questo si raccolgono solo i reperti che rafforzano la nostra tesi e si scartano regolarmente tutti quegli apporti che non ci piacciono. Nella ricerca scientifica ci si propone comunque una tesi, ma i reperti si raccolgono tutti, si contestualizzano e si confrontano. E poi (e qui sta la grande differenza tra celebrazione e ricerca storica) si cerca la discussione con altre realtà storiche che possono avere dei legami con quella studiata. I recenti progetti di ricerca dell’Istituto hanno coinvolto la Grecia e il Portogallo. Sicuramente l’approccio scientifico non dà l’immediata soddisfazione che può dare la celebrazione fine a sé stessa. Certamente usare un metodo vuol dire, spesso, non arrivare a niente, ma anche questo è un dato, ad esempio non sono state rinvenute tracce di templari in valbormida, eccezion fatta per un possedimento nella zona di Osiglia. Domani qualcuno troverà reperti e documenti per dire il contrario, ma fino ad ora è così.

Mi piace molto questa raccolta di testimonianze di ogni tipo. Spero che ci si voglia mettere metodo, ordine e classificazione in tutti i campi, senza scartare nulla. Siano essi fotografie, leggende, filmati, memorie, fonemi, utensili, consuetudini alimentari. Mentre provo un piccolo brivido d’imbarazzo quando sento parlare di pozzi sacri, di altari dedicati a divinità misteriose, di culti ancestrali, di fantasmi.

ALESSANDRO MARENCO


[1] Su questo tema si veda Edoardo Grendi, Storia di una storia locale, 1792-1992 Marsilio, Venezia 1996.

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