Contributo alla giornata della memoria

Contributo alla giornata della memoria
SE QUESTO E’ UN OSPIZIO

Contributo alla giornata della memoria
SE QUESTO E’ UN OSPIZIO

Una delle ossessioni che tormentavano Primo Levi, e che lo spinsero infine al suicidio, oltre al senso di colpa per essersi salvato dallo sterminio grazie ad alcune circostanze fortunate (compresa la sua robusta fibra, la sua conoscenza della lingua tedesca e le sue competenze di chimico industriale), era la persuasione che così la sua come la testimonianza di tanti altri reduci e sopravvissuti ai lager nazisti non fosse in definitiva servita a nulla, e che quindi quello che era accaduto, proprio in quanto è potuto accadere una volta, potesse accadere di nuovo.

Tanto più che cominciavano a diffondersi le deliranti tesi dei negazionisti, non più relegate negli ambienti e nei circuiti dell’etrema destra antisemita e “anti-sistema”. Ora la testimonianza di Primo Levi non aveva (e non ha) solo un valore etico e letterario, aveva anche (ed ha)  il valore che può avere l’analisi e la descrizione di un vero e proprio esperimento scientifico su che cosa è, e su che cosa può fare un uomo di se stesso e del suo prossimo: “Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita.”

 

E tuttavia, quanti studiosi anche oggi interpretano la sua testimonianza non solo come opera di uno scrittore ormai classico, ma anche come il resoconto di un esperimento scientifico? Lo storico della scienza Massimo Bucciantini,  nella sua lezione tenuta al Centro Sudi Primo Levi (Esperimento Auschwitz, Torino, 2011),  ricorda le difficoltà e le riserve iniziali incontrate da Se questo è un uomo da parte del mondo letterario prima del 1958 – con l’eccezione di Italo Calvino, Umberto Saba, Cesare Cases e pochi altri – , e ricorda anche che è “a partire dagli anni Sessanta che entra in sintonia con altri ambienti che niente hanno a che fare con la letteratura o con la Resistenza …Da quel momento comincia a svolgere una funzione che non è soltanto di ricordo di un passato spaventoso che non deve essere dimenticato.

 Ed è il mondo scientifico, o meglio una sua parte del tutto minoritaria ma combattiva, a comprendere come quel testo potesse essere usato fuori dal filo spinato del Lager: un ruolo non soltanto di memoria ma anche di denuncia di un presente disumano dimenticato, fino al punto da diventare il testo base, il libro fondamentale di un progetto scientifico e sociale attualissimo e quanto mai scandaloso.” Il progetto è quello della liberazione degli ultimi e degli esclusi che venivano “curati” nei manicomi, è il progetto portato avanti  da Franco Basaglia prima nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, poi in quelli di Parma e di Trieste, e che metteva in discussione i metodi terapeutici della psichiatria tradizionale, accusata di rendere gli “alienati” ancora più alienati, riducendoli a oggetti privi di identità e di dignità.

Franco Basaglia

Primo Levi

Basaglia, in Che cos’è la psichiatria? (1967), dichiara il suo debito a Primo Levi, e precisamente all’esperimento mentale descritto in una celebre pagina di Se questo è un uomo: “Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.”  Anche i malati di mente hanno perso se stessi, e sono completamente in balia degli altri, dipendono in tutto e per tutto da chi si prende – o non si prende – cura di loro. Ma come ci si prendeva (e ancora in certi casi ci si prende) cura dei malati di mente?

Semplice: con l’esclusione e la reclusione. Scrive Bucciantini: “La comparazione Lager-istituzione psichiatrica diveniva a metà degli anni Sessanta una delle parole d’ordine da parte di tutti coloro che intendevano smantellare il manicomio come luogo di esclusione.”

 Tra questi anche il sociologo Erving Goffman che, nel saggio La carriera morale del malato mentale, osserva come si possa scoprire che “la follia o il comportamento malato attribuito al paziente è, in gran parte, prodotto dalla distanza sociale fra chi giudica  e la situazione in cui il paziente si trova e non, principalmente, dalla malattia mentale.” E ancora Basaglia, in un articolo  pubblicato sulla “Rivista Sperimentale di Freniatria” nel 1966, si richiama all’Esperimento Auschwitz: “L’esempio di Primo Levi e dello stato di regressione, di restringimento, di chiusura da lui descritto come ultima tappa della carriera dell’internato, ci rivela di trovarci in presenza di un identico processo, nella cui genesi la malattia mentale, come causa primaria di regressione, è puramente casuale. Che l’escluso dei campi nazisti abbia lo stesso volto del malato mentale, non significa che – attraverso privazioni, stenti, e torture – l’internato impazzisca. Ma piuttosto che, posto in uno spazio coatto dove mortificazioni, umiliazioni, arbitrarietà sono la regola, l’uomo – qualunque sia il suo stato mentale – si oggettivizza gradualmente nelle leggi dell’internamento, identificandovisi.”

 Quasi a confermare e a ricordarci che la disumanità e le forme estreme di segregazione e avvilimento degli esseri umani possono ripresentarsi a pochi passi da casa nostra, ecco lo scandalo delle violenze e dei maltrattamenti agli anziani disabili ospiti della Casa di Riposo G. Borea di S. Remo, uno dei tanti casi che periodicamente vengono scoperti e denunciati, e che mettono in luce un’evidente carenza, quando non complicità, degli uffici e dei presidi sanitari cui spetta il controllo ai vari livelli amministrativi. Il caso di S. Remo ha aspetti ancor più clamorosi in quanto la Presidente della Casa di Riposo, signora Rosalba Nasi,  ora agli arresti domiciliari, è moglie del noto avvocato penalista sanremese Gabriele Boscetto, già Presidente della provincia d’Imperia dal 1995 al 2001, e senatore, dal 2001, di Forza Italia e ora del Popolo delle Libertà. La signora che – riferisce il suo difensore, avvocato Alessandro Mager – “si dichiara totalmente estranea ai fatti, non ne è mai venuta a conoscenza ed è rimasta sconvolta dalla gravità di questi episodi”, è accusata di essere stata al corrente di quello che avveniva all’interno della Casa (anziani picchiati, umiliati, legati e derubati), anche perché in una intercettazione la signora dice, tra l’altro: “non parliamo di certe cose al telefono, altrimenti si va tutti in galera.” Non è un po’ strano? Niente affetto, spiega l’avvocato: “Bisogna considerare che questa espressione viene usata quotidianamente in senso a-tecnico, da chiunque e a tutti i livelli, quando si discute.

 La signora si riferiva al fatto che c’erano delle lamentele su determinati disservizi, ma non certamente lamentele per violenze e quant’altro. Dunque, un’espressione gergale di uso comune che va intesa in senso a-tecnico.” In senso a-tecnico? Questa mi è nuova, che cosa mai avrà voluto intendere l’avvocato Mager? Forse che la signora non parlava di galera in senso “tecnico” bensì metaforico? Mah! Lo chiarirà al magistrato. Per l’amministrazione  comunale, invece, la signora Nasi si dava da fare per accudire i poveri ospiti, tanto da vincere il premio San Romolo per le opere sociali, con la seguente motivazione: “E’ Presidente dal 1999 al 2005 e dal 2008 a tutt’oggi della Fondazione G. Borea e Z. Massa, apportando alla benefica istituzione le sue doti di passione civile e competenza amministrativa. Nel periodo ha profondamente rinnovato la struttura adeguandola agli standard previsti ed elevato in modo sostanziale i livelli di trattamento e cura degli ospiti…” Peccato che le telecamere nascoste della Finanza e le intercettazioni raccontino un’altra storia. Oggi è la Giornata della Memoria, per ricordare la liberazione dei prigionieri superstiti del campo di Auschwitz; ma, a qunto pare, ricordare non basta…

 Fulvio Sguerso

27 gennaio 2012

 

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