Com’è difficile far capire l’evidenza

 

Com’è difficile far capire l’evidenza

Il vero obbiettivo dell’antifascismo

 Com’è difficile far capire l’evidenza

Il vero obbiettivo dell’antifascismo

 

 Il mio mestiere è stato quello di rendere facili questioni complesse e mostrare la complessità nascosta dietro dati scontati e familiari. L’ho fatto per tanti anni con adolescenti e giovani (e meno giovani) adulti con risultati soddisfacenti. Di fronte all’evidenza però ero e rimango disarmato, perché l’evidenza non si giova di mediatori, l’evidenza ti si para davanti, ti si impone come la luce, solo che tu abbia occhi per vederla. Un sillogismo in barbara non è dimostrabile: se non ti convince il problema è tuo e ti conviene non darlo a divedere.

 


Il fascismo è stato un movimento politico nato da una costola del socialismo intorno a un battagliero quotidiano interventista diretto dal giornalista e uomo politico Benito Mussolini, già direttore dell’Avanti, amico e pupillo di Angelica Balabanoff, la regina  dei circoli socialisti europei. Dopo la guerra e i disordini che ne seguirono quel movimento diventato partito si fece promotore di un’insurrezione popolare appoggiata dagli ambienti di corte, da una parte dei gruppi liberali e della sinistra nonché dai vertici militari che portò all’investitura dello stesso Mussolini come capo del governo, confermata dalla successiva, schiacciante affermazione elettorale. Il regime che ne seguì fu una sorta di diarchia o di doppio Stato: dittatura mussoliniana e monarchia senza i lacci dello Statuto, con buona pace del parlamentarismo. 

Il 25 luglio del 1943, con un voto del gran Consiglio, Mussolini perde il comando delle forze armate, la sera stessa consegna le sue dimissioni nella mani de re, finisce la dittatura, finisce il fascismo, i federali bruciano nel camino di casa l’orbace e la camicia nera, circoli e sedi del fascio sono presi d’assalto, i vecchi partiti, con in testa il Pc d’I guidato dal compagno Ercoli – alias Palmiro Togliatti – si riorganizzano o escono dalla clandestinità. Viva la libertà e la democrazia (anche se a rappresentarla sono qualche decina di persone che nessuno ha eletto).

Capo del governo ininterrottamente per oltre un ventennio, Mussolini – il Duce – si liberò dell’opposizione politico-parlamentare e grazie ad un compromesso con il Vaticano e la monarchia poté godere di un autorità indiscussa pur mantenendo, almeno formalmente, i diritti e le libertà garantiti dallo Statuto. Il fascismo, il mito di una rivoluzione virtuale, è stato lo strumento che consentì al Duce di acquisire e legittimare quella autorità: ciò che ha caratterizzato il governo italiano durante quel ventennio non è tuttavia un’ideologia o un programma (che nel caso avrebbe dovuto essere quello di San Sepolcro) ma la personalità del Duce, la dittatura del Duce, le iniziative del Duce, l’azione riformatrice promossa dal Duce e realizzata dagli uomini scelti dal Duce. Caduto il Duce finito il fascismo, perché il fascismo non era altro che il Duce. 

Quel che ne resta sono i documenti e le testimonianze che consentono di ricostruire la storia e ognuno di noi è padrone, fino a prova contraria, di investire emotivamente le proprie costruzioni, avendo avuto, magari, il buon gusto di documentarsi. E comunque di Cesare o di Bonaparte, come del Duce, padronissimi di essere innocui partigiani o facili detrattori. Il tempo lava tutte le ferite e dopo duemila o duecento o cento anni (tanti ne sono passati dalle violenze squadriste e dagli attentati anarchici e socialisti) è solo un gioco della fantasia.

Il fascismo senza il Duce è una costruzione ipotetica, un’inconsistente astrazione che per ottenere un po’ di concretezza deve risolversi nel vitalismo bergsoniano filtrato attraverso Sorel, nel superomismo nicciano, nell’estetismo del Vate e contestualizzarsi nella rabbia degli ex combattenti, nell’insofferenza della piccola borghesia, nella voglia di menar le mani di delinquenti e psicopatici equamente distribuiti fra due parti in conflitto. E questo nel suo momento aurorale: più tardi, diventato temperie comune, confuso nelle istituzioni, sostituito dalla retorica patriottica e classicista, si riduce a mito rarefatto di una presunta rivoluzione alla quale gli italiani non ricordavano di aver assistito, non dico partecipato.

Fascismo è il nome che diamo all’opera di governo di Mussolini. Grazie alla scuola gli italiani, che non ne hanno più un ricordo né personale né familiare, nella grandissima maggioranza non ne sanno nulla. Chi, spinto dal desiderio di sapere e di capire, si documenta attingendo alle fonti e alla storiografia  se ne fa un’idea, sviluppa proprie opinioni ed esprime un giudizio coerente con i suoi schemi cognitivi e valutativi. 


Finita l’esperienza di governo di Mussolini, cadute le limitazioni imposte dal regime ai diritti e alle libertà statutarie, la stampa e l’Eiar private del guinzaglio del regime e in attesa di un nuovo padrone, finito il fascismo. Finito per mezzo di un voto, il voto di un suo organo. Nessun caduto per la libertà ritrovata, nessuna sollevazione popolare: semplicemente un ordine del giorno approvato a maggioranza. Tutto qui.

Eh no, potrà dire qualcuno. Noi ci riferiamo al Partito fascista repubblicano, alla repubblica sociale, ai seicento giorni di Salò. Ma sarebbe quello il regime fascista? A parte la circostanza non trascurabile che quei seicento giorni riguardano solo un pezzo  d’Italia e che la continuità istituzionale è rappresentata dal Regno e dai governi succedutisi dopo le dimissioni di Mussolini, a parte l’ovvietà che, quale che sia il giudizio che se ne dà, l’Italia fascista è quella del Ventennio e la Repubblica del nord è stata solo il paravento dell’occupazione militare tedesca, indubbiamente utile per garantire condizioni di vita accettabili a popolazioni stremate dalla guerra – sicurezza interna, approvvigionamento alimentare, funzionamento di scuole, ospedali, attività ricreative – nei limiti dolorosi imposti dalle circostanze. E se vogliamo dirla tutta la figura più rappresentativa del tentativo, giusto o sbagliato, di una parte del Paese di reagire alla conclusione mortificante e disonorevole del conflitto non è Mussolini, conscio della fine e ormai vittima degli eventi, né Pavolini o i gerarchi ansiosi di salvare la pelle più che l’onore ma quello che per primo, precedendo la liberazione dell’ex Duce e la proclamazione  del simulacro di Stato voluto da Hitler, si rifiutò di riconoscere l’armistizio e la successiva resa senza condizioni per continuare a combattere a fianco dell’alleato germanico: il comandante della X Mas, Juno Valerio Borghese. È forse lui il fascismo? 

L’accusa di fascismo, costruzione politica terminata il 25 luglio del 1943, non significa niente; per dirla con i linguisti non indica alcun concetto, non “denota” un bel nulla, ha solo un significato “connotativo”, è una suggestione emozionale, poco più che un “Bau bau!”, al pari di un’offesa (o di un complimento). L’antifascista, par conséquent, è uno che combatte contro l’aria o, più realisticamente, intende solo insultare o minacciare. E siccome è consapevole di annaspare sul vuoto e di abbaiare contro la luna, finisce per perdere del tutto la trebisonda e moltiplica i suoi fantasmi bandendo solennemente la crociata non più contro i fascismo ma contro i fascismi. Un’esplosine pirotecnica, l’invasione degli ultracorpi, tanti fascistelli che sbucano dalla terra e scendono in picchiata dallo spazio, entrano nei nostri cervelli, escono come serpi dalle nostre bocche e dai nostri occhi. All’ultimo gay pride omano ripreso ossessivamente dai telegiornali un giovanotto esibiva un cartello con la scritta: “mamma non ti preoccupare, sono bisex non fascista”. Buon per lui: non è stato posseduto. Sfugge però il motivo per cui dovrebbero interessarci le sue inclinazioni sessuali. Eppure la nuova sinistra, quella dei benpensanti, piccoli e grandi beneficiari del regime, servi e complici della finanza da rapina, della grande industria parassitaria, parte della fitta rete di privilegi, di ruberie e di intrallazzi che immobilizza il Paese, la nuova sinistra  espressione della nuova borghesia supponente e pacchiana agita la bandiera di diritti che nessuno, salvo la Chiesa, ha mai messo in discussione, come quello del giovanotto che non disdegna due parti in camera da letto, predica l’accoglienza che si materializza nei vicoli dello spaccio e nei viali della prostituzione e urla nei suoi megafoni mediatici il delirio paranoide della marea nera


Come tutti i parvenus quei benpensanti detestano il popolino da cui provengono, lo detestano perché ne hanno paura, sanno che non ci sono più le masse operaie imbavagliate dalla propria ignoranza e disposte ancora una volta a farsi rappresentare dalle “avanguardie rivoluzionarie”, che altro non erano se non borghesi  comodamente seduti sulle loro spalle. Quelle masse sono ora uomini e donne consapevoli, resi liberi dalla cultura, con un livello d’istruzione pari o superiore a quello dei salotti radical chic, uomini e donne che non è più possibile raggirare e sui quali nulla ormai può la sistematica disinformazia dei media di regime.

I seminatori d’odio che proiettano fuori di sé il loro livore, che attribuiscono all’altro la loro intolleranza e la loro violenza – sfido chiunque a smentirmi se affermo che a rovesciare gazebo elettorali, a impedire di parlare e di manifestare, a minacciare e provocare sono sempre e solo i compagni dei centri sociali, dei collettivi studenteschi, del “potere al popolo (!!!)”, tutti al servizio della sinistra istituzionale – sanno che i loro tempo è finito. La loro stampa può continuare a raccontare impunemente le proprie fake news: il governo gialloverde non arriverà a domani (un domani che deve spostare continuamente), il sovranismo ha fallito il suo attacco, l’Italia è isolata, e a cercare di nascondere la tragica verità di un Paese di cui è stata svenduta la sovranità, con un debito diventato insostenibile nel momento in cui lo si è messo nelle mani di un estraneo che lo usa come arma di ricatto, un Paese gravato da un welfare mostruoso di cui beneficiano solo stranieri, ma non è più in grado di scalfire l’opinione pubblica. E, a questo proposito, Bruxelles, che, suggerita da piddini e forzisti, imputa ai due provvedimenti che hanno caratterizzato il primo anno del governo populista, quota cento e reddito di cittadinanza, il crollo del nostro sistema finanziario e la paralisi della nostra economia, finge di non sapere che in dieci anni l’Italia ha speso 50 miliardi di euro per lo sporco affare dell’immigrazione illegale, un onere cresciuto in modo esponenziale per i guasti sociali e i costi vivi che essa determina nel tempo. Restaurare un diritto conculcato fra le lacrime di coccodrillo della Fornero non si può, sperimentare uno strumento, sicuramente migliorabile, per combattere l’indigenza non si può ma sopportare il peso sociale ed economico prodotto dall’invasione di una moltitudine di giovani uomini in fuga dal lavoro, uomini che nella migliore ipotesi verranno mantenuti e nella peggiore delinqueranno, questo si può, anzi si deve?


Pretendono che ci si commuova per i disperati che fuggono da guerre (inesistenti, ma se pure ci fossero non sta a loro farle cessare?) ma ai disperati veri ai quali hanno cambiato le regole in corso d’opera calci in faccia e per i disperati veri che frugano nei residui dei mercatini ci si straccia le vesti se lo Stato con colpevole ritardo si fa carico del loro sostentamento, perché, si dice, possono approfittarne soggetti che non ne avrebbero necessità. E sulla disperazione delle famiglie che quotidianamente affrontano la disabilità o la malattia mentale i buoni  in servizio permanente effettivo non hanno niente da dire? E sull’angoscia di chi sopravvive a se stesso, al proprio corpo e alla propria mente? Ma ci sono i morti in mare, i barconi stracolmi, i minori non accompagnati, le donne incinte…Ma basta, per l’amor di Dio!

La perdurante ipocrisia sui migranti e la  colpevole idiozia dell’accusa di razzismo cedono il posto, di tanto in tanto, ad uno spiraglio di sincerità. Al di là delbusinessdell’accoglienza e senza scomodare i signori della finanza globale c’è un problema reale che investe le attività manifatturiere e l’agricoltura italiane: il dislivello fra diversi sistemi economici che rende impossibile sostenere la concorrenza se non si ricorre alla delocalizzazione. Del resto è la stessa cosa che spinge il “migrante”: un’ora di questua ad un  semaforo rende più di un mese di lavoro a casa sua tanto più che avendo garantiti vitto, alloggio, vestiario e cellulare non deve pagare lo scotto del corrispondente livello dei prezzi.  Ergo: se c’è un modo per far pagare alla comunità i costi della cosiddetta accoglienza, si possono mantenere competitivi i nostri prodotti abbattendo drasticamente il costo del lavoro importando manodopera da aree depresse; si fa, e non da ieri, per la raccolta dei pomodori, perché non generalizzare questa pratica? Lo si dica chiaramente e vediamo cosa ne pensa la gente e con quali argomenti i compagni e i sindacati la giustificheranno. 

Ma l’antifascismo dovrebbe riscattare la loro ipocrisia, la svendita dell’Italia, la sudditanza monetaria, il nulla osta all’invasione… Tutto lecito, tutto passa in secondo piano perché c’è il nemico alle porte: uno spettro si aggira per l’Europa, la libertà e la democrazia sono in pericolo, sull’Italia si allunga l’ombra del fascismo. Ovviamente pensano a Salvini, alla Lega, sono disperati perché solo il 14% degli operai è con loro, sanno che ormai la Lega non è più il partito delle partite Iva ma è il riferimento di quella che un tempo era la “classe operaia”, sanno che il vento del cambiamento finirà per spazzare via loro, e con loro i loro avversari di comodo. Hanno in mente  Salvini ma non possono dirlo perché rischierebbero di esacerbare gli animi e di trovarsi contro il comune sentire. Allora bisogna enfatizzare la presenza di trascurabili movimenti di opinione e modeste e inoffensive organizzazioni politiche di nicchia: sono loro il pericolo, l’attentato alla libertà, alla democrazia, alla libertà di stampa, di parola di associazione.  Roberto Fiore sta sovvertendo lo Stato, sta minando le basi della repubblica, ha con sé manganello e olio di ricino e sta organizzando la marcia su Roma.


Ma c’è poco da scherzare. La sola idea che non sia un gruppo di avvinazzati ma il fior fiore dell’intellighenzia, il meglio delle firme dei giornaloni, il leader di un partito che ha tuttora la responsabilità di rappresentare milioni di italiani ad agitare un pericolo per la democrazia nella presenza di Fiore o di Gianluca Iannone è raccapricciante e dà la misura del vuoto politico, culturale, etico  della nuova borghesia. 

Se però è vero, com’è vero, che dei Fiore o degli Iannone non gliene importa nulla a nessuno e che si tratta solo di una sceneggiata, questo non ci fa stare più tranquilli.  Perché riconoscere che l’antifascismo è solo una copertura e che Forza Nuova o Casapound sono falsi bersagli non alleggerisce ma semmai aggrava la posizione di quegli “intellettuali”, di quei giornalisti e di quei politici. Sapere che non sono dei don Chisciotte impazziti diretti lancia in resta contro mulini a vento ma scaltri signori che si fanno beffe della democrazia, del voto popolare, dei fondamenti dello Stato di diritto non è per niente consolatorio. Nel primo caso potevano rappresentare un’emergenza psichiatrica, nel secondo sono una minaccia per la democrazia.   Non ci  tranquillizza sapere che, quale che sia il mezzo, essi hanno un solo obiettivo da raggiungere, buttare giù dal treno chi si è permesso di disturbare il manovratore. 

Noterella finale

Nel giorno in cui l’esito del ballottaggio ha sancito il ritorno dei compagni livornesi alla guida del comune  dopo la parentesi grillina, in piazza del Municipio si intonavano Bella ciao Bandiera rossa mentre uno striscione rivendicava la “vittoria antifascista”. È vero, era stato un brutto risveglio per i compagni quando cinque anni fa avevano trovato la “loro casa” occupata dall’“invasore”. Con questa gente, con questa concezione della democrazia ci dobbiamo confrontare.

 Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

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