CINEMA: Paura 3D

RUBRICA SETTIMANALE DI BIAGIO GIORDANO
Al cinema autunno 2012
Paura 3D

 

RUBRICA SETTIMANALE DI BIAGIO GIORDANO

Al cinema autunno 2012

Paura 3D

 

 Titolo Originale: PAURA

 
Regia: Manetti Bros
Interpreti: Peppe Servillo, Lorenzo Pedrotti, Francesca Cuttica, Domenico Diele, Claudio Di Biagio
Durata: h 1.48
Nazionalità: Italia 2012
Genere: horror
Pellicola: colori  3D
Recensione di Biagio Giordano
Il film è in sala nella Provincia di Savona

 I fratelli Antonio e Marco Manetti Bros,  registi di questo suggestivo e un po’ compiacente film horror rivolto in particolare a persone con tendenze nevrotiche, si caratterizzano già da diversi da anni, nel difficile mondo cinematografico italiano, per un modo di lavorare sobrio ma ricco di idee ben articolate, supportate da uno studio accurato di ogni scena e particolare, che porta sovente a risultati notevoli,  impregnati di pregevoli qualità artistiche a volte addirittura  ben sintonizzate con lo spettacolo, basti pensare  alla fantasiosità compositiva delle scene e alla ricercatezza delle inquadrature,  che non sono mai banali né insaporite  da più o meno forti somiglianze con altri film,  oppure alla storia filmica, che appare sempre ben equilibrata sintatticamente, con proposizioni visive compiute tali cioè da rilasciare più facilmente nello spettatore gradimenti pulsionali in grado di giungere a una certa soddisfazione, pulsioni a lungo evocate  dai desideri stessi messi in vetrina nelle esposizioni sceniche, una narrazione quindi fantasiosamente loquace  che si muove con  sicurezza descrittiva tra un preciso senso sociale degli avvenimenti  che vede ottimi contrasti di classe e una suspense ben congeniata sia nella formula compositiva che appare legata a un tempo a scadenza, sia nello stile di fondo già collaudato dai codici filmici classici.

Notevoli sono inoltre le tensioni tra i personaggi, frutto di una drammatizzazione di mestiere che funziona a meraviglia e di una imprevedibilità  degli intrecci sempre ben orchestrata, in grado  di  rimettere in gioco le inevitabili attese di fondo che  durante ogni proiezione di film  horror si sottraggono  a causa dei depistaggi. Per finire occorre dire che rimane impressa nella mente dello spettatore la spettacolarizzazione delle questioni psichiche  più patologiche dei personaggi, che sfociano sovente in un altrove immaginifico non proprio accostabile al nodo narrativo fin lì  costruito, se non per un dettaglio che ne tradisce la complessità: ciò è di indubbio valore cinematografico perché impedisce un calcolo previsionale  della narrazione rafforzando quindi l’estetica del film soprattutto in rapporto a quello che deve considerarsi per convenzione un finale riuscito: lo scioglimento  del nodo non come se lo immaginava lo spettatore.

 I due fratelli debuttano nella regia nel 1994 con Consegna a domicilio, facente parte del film  ad episodi De Generazione in cui sono anche attori, una pellicola bocciata da critica e pubblico.

 Nel 1997 si cimentano in un  film commedia finanziato dalla Rai, dal titolo Torino Boys con Julie Omonisi, che ha per soggetto le disavventure di un gruppo di extracomunitari, il film è bocciato  da una certa influente critica (vedi Morandini) e dal pubblico, ma ottiene al Torino Film Festival  un buon riconoscimento, tale da far crescere notevolmente nei produttori la stima verso i due registi.

I fratelli Manetti Bross

 Nel 2000 viene offerta loro la possibilità di dirigere Zora la vampira, un film grottesco interpretato da Toni Bertorelli e Carlo Verdone che partecipa alla produzione del film stesso ma delude un po’ come personaggio, un’opera cinematografica penetrante, anche pungente sia verso il tragico livellamento culturale effettuato dalla Tv che nei confronti del buonismo ipocrita più diffuso che tollera per interesse ogni cosa negativa, il film però non incassa molto pur ottenendo dalla critica una valutazione di sufficienza.

Nel 2005 i due fratelli dirigono un piccolo film action–thriller, costato appena 70.000 euro e girato in digitale, ambientato per la maggior parte dentro un ascensore, Piano 17, incentrato sull’apprensione che suscita una  bomba a tempo che sta per esplodere, la pellicola ottiene un discreto successo di pubblico e di critica. Nel 2011 i due fratelli portano alla Mostra del cinema di Venezia, nella sezione Controcampo Italiano, il film L’arrivo di Wang una commedia che sarà accolta con calore e approvazione dal pubblico.

La filosofia di questo film, Paura 3D, intesa nella semplice accezione di ricerca di norme di vita ispirate, poggia su un enunciato come questo che coinvolge e fa riflettere: “ Non tutte le occasioni favorevoli  della vita sono vere opportunità, occorre saper distinguer, diffidare delle proprie capacità di padroneggiare situazioni  invitanti lette con troppa superficialità.  La bella cornice facente parte di un presente benigno che invita a farsi coinvolgere in una relazione profonda può mimetizzare dettagli oscuri, possibili spie di una realtà cupa a trabocchetto che assorbirebbe tragicamente  ogni disponibilità avventata”.

Questo il senso più logico riferito alla passione del vivere  nel nuovo lavoro dei Manetti Bros, un’opera che è da considerare il vero primo film horror della coppia. “Paura 3D” è distribuito dalla Medusa in più di 200 sale cinematografiche italiane.

Il racconto del film è ambientato a Roma,  il giovane Ale (Domenico Diele),  fa il meccanico sotto padrone, un giorno approfittando del fatto che il Marchese Lanzi (Peppe Servillo) si reca per il wekend in Svizzera a una esibizione di auto d’epoca, il ragazzo decide  di utilizzare per divertirsi  la sua  auto nera di lusso. Il mezzo era stato portato  in officina per un controllo e guarda caso Ale vi trova  anche le chiavi di riserva della villa del marchese. Il ragazzo  vuol far baldoria per tre giorni con gli amici scorazzando con quella automobile qua e là per le strade di Roma, per andare poi a visitare la grande villa del Marchese dotata di piscina e parco.

Ale invita  quindi  i suoi due amici più stretti, Marco (Claudio Di Biagio) e Simone (Lorenzo Perrotti). I tre dopo aver girato un po’ per Roma entrano nella suntuosa villa del Marchese e fanno razzia di caviale improvvisando poi un piccolo concerto con le costose chitarre elettriche del Marchese. Non del tutto soddisfatti, per la sera invitano con un cellulare anche un’amica.

Gironzolando a lungo per la villa e il suo sotterraneo uno dei tre a un certo punto scopre in una cantina una presenza umana inquietante, che darà una svolta complessa alla loro vita.

Il film si ispira per certi aspetti ad un fatto di cronaca nera  accaduto tempo fa,  la storia di Natascha Kampusch, la ragazza austriaca sequestrata per otto anni da Wolfang Priklopil. La Natascha ha raccolto le sue tristi esperienze in un libro di memorie che è divenuto anche oggetto di studio per sceneggiature cinematografiche e  racconti.
Da un punto di vista un po’ più psicanalitico il film sembrerebbe sollevare la questione del masochismo femminile, un argomento molto dibattuto negli anni ’70 che ha coinvolto anche movimenti femministi e diverse istituzioni di ricerca teorica di derivazione psichiatrica. Un masochismo che, come predisposizione naturale, genetica, per la psicanalisi freudiana nella donna non esiste di certo,  esso esiste in quanto sintomo, qualcosa cioè legato ad una cultura prevalentemente fallica, maschilista su cui si è sviluppato tutto un civile normato da regole tacite o scritte  che relegano la donna a ruoli spesso subalterni.
La costante argomentazione nei testi freudiani sul civile inteso come un progresso nelle relazioni umane e sociali di grande portata storica ma che lascia un resto nevrotico a causa di una compressione etica delle pulsioni sessuali primarie dovuta al peso della legge, trova in questo film, seppur tra le righe e forse ad insaputa  degli stessi registi, una certo avvallo, si avvertono infatti qua e là movenze e sintomi nevrotici in tutti i personaggi, nonostante la loro appartenenza a culture e classi sociali molto diverse; verrebbe da dire che sulla base di  ciò che questo film mostra forse il proletario potrebbe  sviluppare sintomi, rispetto ad una supposta sana sessualità, di tipo inibitorio-violento e l’aristocratico raffinato per lo più sintomi legati a fantasie di padronanza sadica, ma questi aspetti clinici-dissociativi possono essere in entrambe le classi  nient’altro che difficili compromessi trasgressivi, effettuati inconsciamente tra l’Io e la legge del padre avvallata dalla madre, un ordinamento che in un certo senso stabilisce in una società civile come godere e come rinunciare, pena la persecuzione del fantasma di castrazione che dissocia, avvilisce, ed è fonte inesauribile di innumerevoli piaceri perversi. Quindi è sempre più difficile sostenere che i sintomi nevrotici, qualunque essi siano, abbiano nell’individuo delle inscrizioni naturali-genetiche, addirittura classificabili per genere: maschile o femminile.

 

 

 

BIAGIO GIORDANO

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