Calcio

CAMPIONATO DEL MONDO
TORNEO DEI BAR E “TESSERA DEL TIFOSO”

CAMPIONATO DEL MONDO
TORNEO DEI BAR E “TESSERA DEL TIFOSO”

Intendiamoci bene, tanto per cominciare: il campionato del mondo vale il torneo dei bar. Non è certo la quintessenza del dispiegamento del valore calcistico. Le due competizioni (quella della Valletta anni’60 e quella inventata da Jules Rimet e poi trasformata in un gigantesco affare economico, nazionalistico, politico, da regimi autoritari, da Mussolini a Videla, o da immense macchine pubblicitarie a livello planetario) si equivalgono, sotto l’aspetto sportivo.

Poche partite, alla fine della stagione, nelle quali bruciare tutte le riserve auree a disposizione, indovinando l’assetto (magari strada facendo), equilibrando le scelte (quante volte è capitato di credere di avere tra le mani il Real Madrid e invece si trattava dell’Hercules di Alicante e viceversa), con una certa compattezza d’assieme (che, sicuramente, nei professionisti di oggi è difficile da raggiungere: se si pensa, poi, che si riesce perfino a puntare al “blocco Juve”, quando mancano Monti, Orsi,Combi, Bertolini, Gentile, Cabrini, Tardelli, Paolo Rossi, Foni e Rava; oppure alle divisioni classiche tra “Barca” e “Real”, oppure tra “Boca” e “River”,oggi per fortuna per lo “zeneize” Maradona giocano tutti all’estero; come sta capitando anche alla “Banda Oriental” dove le divisioni tra Penarol e Nacional ormai sono del tutto anacronistiche) e poi una buona dose di fortuna nel sorteggio e negli incroci (certo che agli ottavi è meglio trovare l’Australia del Brasile…) e, ancora, una buona dose di fortuna “tout court”.

Ebbene tutti questi erano gli ingredienti del torneo dei bar e rimangono gli ingredienti della Coppa del Mondo.

Scritto questo tanto per smitizzare gli avvenimenti, tra eliminazioni inopinate (davvero inopinate) e promozioni non troppo a sorpresa, almeno per quel che riguarda le notizie che ci arrivano dal Sud Africa, passiamo alla crisi del calcio italiano.

Una crisi soltanto emblematizzata dal pareggio con la Nuova Zelanda (n.213 del ranking mondiale? O forse non c’è nemmeno il 213..), una crisi tecnica, economica (quanto incide il debito complessivo delle squadre di calcio, tra A, B, Prima, Seconda, D e oltre sul PIL complessivo?) e soprattutto morale.

Una crisi morale perché non è morale ciò che è accaduto nel corso di questi anni, e ciò che accadrà ancora, al fine di commercializzare tutto e il contrario di tutto: fino a questa storia, assurda, della tessera del tifoso estesa a categorie dove parlare di professionismo, con tutto il rispetto degli atleti che vanno in campo, deve essere davvero considerata una esagerazione.

Sono troppi, per capirci i profittatori intorno all’ambiente: profittatori che ci sono sempre stati, intendiamoci (mai sentito parlare di Gaggiotti, dell’arbitro Scaramella, di squadre escluse dal campionato 42-43 per eccesso di “combine”?), ma ormai arrivati ad un livello di insostenibilità.

Colpa della globalizzazione diranno alcuni particolarmente legati a certe istanze di “conservazione”, e sarebbe facile rispondere sotto questo aspetto il calcio italiano è sempre stato “globalizzato” (alle Olimpiadi di Londra si perse dalla Danimarca e almeno 6 danesi furono subito ingaggiati, ai Mondiali del Brasile’50 fummo eliminati al primo turno e divenne di moda la Svezia, che era Svezia B perché i migliori erano già stati presi ma era una Svezia B con Skoglund, Palmer e Jeppson, e fu ingaggiato perfino il paraguaiano Unzaim, anche dopo la rissa con il Cile’62 acquistammo Toro, un centrocampista come tanti che poi fallì alla Sampdoria e restò da noi per tanti anni al Modena, tra A e B: i tifosi savonesi più anziani lo ricordano in maglia gialloblu completamente annichilito da Furino in un clamoroso 5-1 per i biancoblu.

E potremmo andare avanti scrivendo pagine su pagine attorno a questo argomento).

Il punto è che, volendo scrivere di “nulla di nuovo sul fronte occidentale”, oppure di “si stava meglio quando si stava peggio”, sono cambiate le finalità: anzi, sono sparite le finalità sportive che pure c’erano.

Questo è il punto di fondo di diversità con il passato (dove pure, sempre per smitizzare, i soldi giravano, ma non in una dimensione fuori mercato. Quando si cantava “mille lire al mese” il premio per la vittoria ai Mondiali, nel 1934, era 20.000 lire; Orsi, la più grande ala sinistra del mondo, alla Juve guadagnava 5.000 lire al mese. Certo, anche in Serie A ci si allenava tre volte a settimana e non si girava il mondo a velocità supersonica): il punto di diversità di fondo ripetiamo è quello della finalità, del possibile obiettivo comune di tutto il movimento.

Due sono gli elementi di diversità che debbono essere sottolineati:

  1. Il più importante. Da qualche anno, ormai, non è più possibile per uno sportivo alla domenica di poter scegliere in tranquillità la partita cui assistere dal vivo. In Serie A bisogna aver comprato il biglietto (magari attraverso manovre complicate) qualche giorno prima; ed è questa la sorte che aspetta gli sportivi che intendono seguire il Savona in trasferta nel prossimo campionato (di Serie C2, intendiamoci: di serie C2).
  2. L’altro elemento, forse meno importante ma simbolicamente più significativo: alla domenica, ore 14,30 d’inverno, ore 16,00 in primavera e fine estate (perché le stagioni esistono : le ore 15,00 fisse tutto l’anno servono soltanto ai palinsesti televisivi) tutti, su qualsiasi campo, da Inter-Juve a San Siro a Libertà Lavoro – Bagni Italia alla Valletta si partiva assieme, si giocava in contemporanea ( la Seconda Categoria poteva variare, ma era una questione di disponibilità di campi): era lo stesso sport, lo stesso mondo.

L’aver spezzato questo meccanismo funzionante per tanti anni ha significato cambiare natura, impronta, paradigma per il gioco del calcio in Italia. L’introduzione dello “spettazino” televisivo è servito, sicuramente, per far soldi, tanti soldi, ma ha spezzato una identità non più recuperabile, ha annullato una idea di omogeneità del “mondo del calcio” che era importante, molto importante.

La cosiddetta “tessera del tifoso” (invito tutti a rifiutare il termine: autodefiniamoci sempre “sportivi”: “sportsmen”, come quelli che stabilivano il record del giro del chiostro di Oxford prendendo il tempo dall’orologio della Torre) origina da questo stato di cose, e non certo dalla violenza negli stadi (anche su questo la casistica sarebbe infinita: a partire dalle pistolettate esplose dai fascisti bolognesi verso i supporter del Genoa alla stazione di Torino: correva l’anno 1925, ma la federazione era presieduta da tal Leandro Arpinati).

La “tessera del tifoso” è l’espressione più lampante della crisi del calcio italiano, alimentando il disinteresse verso uno sport non più miliardario (nel suo insieme, intendiamoci, perché i protagonisti, in particolare fuori dal campo, miliardari lo sono davvero) ma espressione della crisi di una società (nel senso di società civile, di espressione di una convivenza collettiva): poi, per fatale combinazione, questa crisi si riflette sugli schermi di tutto il mondo e allora ci si scatena…

Sarebbe stato meglio pensarci prima.

Savona, 27 Giugno 2010                                                       Franco Astengo

 

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