ARCHITETTURA SOSTENIBILE

 ARCHITETTURA SOSTENIBILE
E SOCIETA’ DI “TRANSIZIONE”

ARCHITETTURA SOSTENIBILE E SOCIETA’ DI “TRANSIZIONE”.

 In ogni parte del mondo si sente parlare, sempre più insistentemente, dell’esigenza di fare “architettura sostenibile”, ma spesso si abusa  di un termine ancora poco conosciuto nella vera eccezione, nell’intenzione di trovare elementi di rinnovata credibilità in opere che invece nulla a che a che fare con questa modalità.

Sostenibile è l’architettura che conferisce priorità alle finalità progettuali determinate dall’esigenza di efficienza energetica, di riduzione dell’impatto ambientale e di miglioramento della salute, del comfort e della qualità della fruizione degli abitanti.

Progettare sostenibile significa saper intervenire in modo sinergico  sull’edilizia e sul paesaggio, integrando  diverse discipline del progetto, non ultimi gli impianti per la produzione di energia rinnovabile.

Se nelle nostre città, Savona in testa, si è sentito talvolta definire  sostenibile questo o quel nuovo intervento, o addirittura porzioni di Puc, lontani e sconosciuti sono, ancora, i veri obbiettivi che con questo termine si dovrebbero conseguire, in una città fortemente urbanizzata, con aria compromessa da un forte  inquinamento veicolare e da pericolose emissioni prodotte dalla combustione di carbone.

Nelle vicine  Albissole, la situazione non cambia , anzi la stretta dipendenza dalla vicina Savona e la deindustrializzazione  le ha rese periferie urbane, dove il casello autostradale e strade a forte transito veicolare condizionano la qualità della vita dei cittadini.

Quando capiremo, anche nelle nostre città, che per credere veramente nella sostenibilità, sia necessario disintossicare la nostra società dal culto dello sviluppo fine a se stesso?

Mentre professionisti di tutto il mondo si stanno interrogando con convinzione su questo nuovo modo di vedere e si sentono pronti a “una presa di responsabilità verso l’ambiente, progettando architettura e urbanistica in modo sostenibile”, nelle nostre cittadine si continua imperterriti a edificare in modo irrefrenabile dove il buon senso lo impedirebbe, perpetrando gli errori degli ultimi decenni.

Si edifica, solo per fare alcuni esempi, in modo intensivo sulle alture idrogeologicamente fragili del Valloria ; si costruisce sui greti dei fiumi, come il Sansobbia a Grana, dove Piani di Bacino e leggi nazionali sconsiglierebbero . Si edifica sulla costa savonese e si progetta di edificare in tutte quelle parti di territorio lasciate libere dalle industrie dismesse od opportunamente dislocate altrove come la Gavarry di Albissola . Si edifica ovunque, si costruisce, anche quando la necessità e il bisogno non ci sono.

Il progetto nelle ex aree Gavarry

Si edifica e si lascia edificare, perché qualcuno venda, qualcuno speculi, qualcuno faccia profitto degli ultimi pezzi del nostro territorio lottizzando magari là dove prima esistevano attività produttive , anche quando la domanda di case, di quelle case, non c’è, mentre ci sarebbe quella sempre più incombente di migliore qualità della vita.

 Tutti esempi di quel disastro urbano, causato appunto dalla società della cosiddetta crescita e dello sviluppo, in nome dei quali si deve accettare una qualità della vita e della salute sempre peggiore.

Purtroppo anche a grandi architetti e urbanisti che Savona ha conosciuto: Bofill, Botta, Fuksas, e che hanno affrontato il territorio savonese con loro progetti, il risultato di queste disastrose logiche è sfuggito. Qui come sarebbe successo ovunque.

Intenti a lasciare esempi di seducenti e prestigiose architetture contemporanee, fallivano in un quadro più generale, quello della disgregazione urbana e sociale e della cementificazione dell’ambiente a tutti i costi.

Una responsabilità pesante per una professione che ormai non può più permettersi di fare solo edilizia ‘bella’, ma ha il dovere di indirizzare in modo nuovo l’evoluzione della città”, sostiene il filosofo Latouche.

Cosa è successo a Savona e nelle cittadine limitrofe come le Albissole?

Per decenni si è pensato e si è vissuto in luoghi che hanno prodotto cemento: prime, seconde, terze case, riempiendo tutti gli spazi disponibili, si è progettato,  si è vissuto e si vive tutt’ora in cittadine pensate soprattutto  per le automobili che si insinuano in modo insopportabile tra quelle case.

Strade irrimediabilmente congestionate e inquinate, dove spesso ci si ritrova in lunghe code, imprigionati senza rimedio; nuove e inutili rotonde da costruire anche in impensabili luoghi, nell’intento di rendere più “organico” il traffico cittadino; parcheggi blu, bianchi, gialli, per distribuire ordinatamente centinaia e centinaia di automobili sotto le nostre case al posto del verde, di piazze vissute e di luoghi.

Mario Botta
Ricardo Bofill
M. Fuksas

Una classe politica miope e incapace ci ha imprigionati nella convinzione di dover vivere così, di apprezzare sempre quel male minore che pochi riescono, ormai, a percepire.

 Il bisogno di denaro per mandare avanti amministrazioni i cui bilanci attendono di essere rimpinguati da altro cemento, da altre opere inutili e spesso deleterie. Ordinaria amministrazione, mentre altri ‘non-luoghi’ come i centri commerciali, aumentano, proprio com’è accaduto ultimamente con le Officine Savonesi, e presto ci accorgeremo che non avranno contribuito alla qualità della vita cittadina e alla compatibilità territoriale della città, ma, anche qui da noi, alla costruzione di quelle che vengono definite “ Necropolis”.

 Una nuova società deve proprio partire dall’opposizione allo sviluppo fine a se stesso.

L’economia della crescita ha distrutto anche le nostre città e il significato dei luoghi, modificando in modo irreversibile il territorio, l’ambiente e il nostro modo di viverlo, quindi bisogna scegliere un nuovo corso che produca un aumento di aria pura, di acqua pulita e di spazi verdi e di condivisione della città.

Bisogna credere nella necessità di un nuovo inizio, sereno, sostenibile e conviviale, ritrovando un legame con la natura, ridando vita al territorio e il territorio alla vita delle città.

Bisogna ripensare, là dove è possibile, all’autonomia delle cittadine nei loro servizi, in modo da ridurre gli spostamenti all’essenziale.
Bisogna pensare a cittadine e quartieri autonomi anche dal punto di vista energetico grazie alla decisa diffusione di energie  rinnovabili.

Bisogna pensare a decentrare la società.

Bisogna cominciare, in modo serio e convinto, alla pedonalizzazione di gran parte delle nostre città, dove ciclisti e pedoni possano circolare liberamente.

Bisogna prendere possesso di quel verde ingestibile dei nostri centri per promuovere orti urbani.

Non ultimo bisogna pensare all’impronta ecologica dei nostri centri urbani, che oggi, sia per il traffico veicolare che per il consumo energetico delle nostre case e degli edifici pubblici, è quantitativamente intollerabile.

E’ il rapporto tra uomo e ambiente che deve cambiare, come ad esempio si è cominciato a fare, nel 2005 con successo, nelle Transition Town, città di transizione in Irlanda e in Inghilterra, dove i cittadini hanno creato approcci multidisciplinari e creativi circa la produzione di energia, la salute, l’educazione, l’economia, l’agricoltura, proprio per un futuro sostenibile della città.

La soluzione è proprio, come in questo caso, un movimento che nasca dal basso, che abbia la capacità di contrapporsi, adattandosi in modo lungimirante, alla molteplicità e complessità dei cambiamenti del pianeta e magari trovando risposte anche alla crisi economica del nostro fallito sistema.

Anche le nostre città devono diventare città di transizione, se vogliamo vivere il presente guardando, con speranza, il futuro.

 

“Il Potere si sta spostando dalle

Istituzioni, che hanno sempre avuto

una orientazione alto-basso, che

accumulano le informazioni al livello

superiore e ci dicono come condurre

le nostre vite, ad un nuovo modello

di potere, democraticamente

distribuito e condiviso da tutti”.

 

Trippi, J. (2004) The Revolution Will

Not Be Televised. Harper Collins.

 

ANTONIA BRIUGLIA 

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