Agriturismo

AGRISTURISMO

Viva gli agriturismo fedeli al loro nome!

AGRISTURISMO
Viva gli agriturismo fedeli al loro nome!

 Non scrivo mai (o almeno non pubblico) recensioni di ristoranti. Credo di averlo fatto, in passato. Di aver sollevato critiche e di non aver centrato con precisione quali erano i punti da valorizzare o i particolari da dimenticare. Alla fine tutti erano scontenti: gestori, clienti affezionati, potenziali clienti in cerca del locale da provare.

Farò oggi un’eccezione, perché mi pare importante sottolineare il valore di una tipologia di ristorazione confusa con le altre, e che meriterebbe una attenzione particolare: l’agriturismo.


Ne sono nati a bizzeffe. Pare (ma non sono informato) che ci siano fondi a disposizione, pare che ci sia un regime fiscale conveniente, pare che ci siano alcune deroghe per sostenere e incoraggiare questo tipo di attività. Lascio tutta la parte burocratico e amministrativa a chi se ne intende: ci saranno sicuramente uffici preposti a soddisfare tutte le richieste in materia.

So, invece, che sotto la categoria “agriturismo”, spesso si nascondono ristoratori volponi, di quelli che di agrituristico hanno solo il paesaggio intorno e l’abuso di qualche vecchio utensile impolverato sui mobili della nonna, in sala da pranzo.

Basta chiedere al personale di servizio la provenienza degli alimenti: dal pane sul tavolo, alla più piccola fetta di salame, ai primi, alle carni o ai formaggi e persino al vino. La risposta è spesso questa: “Si, generalmente facciamo tutto noi, ma quest’anno abbiamo avuto problemi con (sostituire con il termine che interessa): maiale, galline, uova, formaggio, uva, vino, grano, segale, patate, mais, bietole, cacciagione…

La morale è che (molto spesso, che non vuol dire sempre) il menù è costituito da prodotti comuni, provenienti ove possibile dal territorio, dove per territorio vuol dire anche il supermercato prossimo.

Domenica scorsa, su consiglio di un caro amico, io e mia moglie siamo stati indirizzati in un agriturismo a Franconalto (AL) alle spalle di Arquata Scrivia, poco dopo Borgo Fornari. Intendiamoci: gli agriturismo per essere tali devono essere imbriccati. Per i non savonesi, imbriccato vuol dire letteralmente: “Fra i bricchi”, ma non è solo questo. Vuol dire che la strada è ripida e piena di curve, fra boschi e orridi, lunga e oscura, tale che ad un certo punto l’autista si chiede, sconfortato, se avrà sbagliato via. Verrebbe la tentazione di chiedere a qualcuno: un contadino, un boscaiolo, un conduttore di muli. L’esperienza dice che questi figuri vengono posizionati a bordo strada dall’ente per il turismo, apposta per condurre i vaganti a perdersi nel culo della Cina, o giù di lì, e mai più tornare.

Procedendo dunque fra boschi, si giunge all’agriturismo “La Sereta”. Bel posto: prati, alte colline boscose: sembra la val Bormida… C’è la vecchia cascina in pietra, le galline libere, il grande orto, tracce di lavoro e pergole armate di tavoli e panche per il riposo.


Locale vissuto, ma ordinato e pulito. Spiccano i mobili della nonna con i soliti maledetti macinini, vasetti, lumi. E va ben, concediamo. Poco oltre, orgogliosamente, una bandiera “NO TAV”, e una raccolta di articoli sul Terzo Valico, che qui vicino ha già cominciato a rappresentarsi, sotto forma di buchi colossali nella roccia.

Roberto ha la faccia buona, piena, lieta. Un filo di barba e gli occhi ben disposti. Accompagna, illustra, porge, con le mani imbarazzate da altro lavoro, ben più pesante. Barbara è in cucina, ora. Cammina con passo misurato in sala, esce, torna dopo poco con una manciata di uova, un cestino di erbe. Si ferma per un saluto rapido. Roberto porta in tavola pochi buonissimi antipasti. Ci avvisa: quel che si mangia e si beve qui, è prodotti qui. Se non da loro, da loro vicini di cui si fidano ciecamente. Siamo ad un passo OLTRE il biologico e il garantito dall’istituto taldeitali. C’è la faccia di chi vende e di chi produce. Ci è voluto del tempo per i ravioli, tanto quieto tempo. Tanto da chiederci: cosa sarà successo? Niente, è successo. È che per fare i ravioli ci vuol tempo: si prendon l’ova, la farina e il sale. Poscia si va a prendere le ortiche, si lavano, si acconciano. Poi si scende in agro per la salvia, si appronta e infine si condiscono i ravioli con la salvia. Dico solo che son buoni, e che una volta nella vita bisogna assaggiarli. Hai fretta? Forse è meglio che ti prendi un tramezzino. O una pasta all’autogrill, o una insalata mista già lavata e condita e certificata dall’ente superiore generale di tutte le insalate industriali mondiali, che certificano che quel mangime lì, te, lo puoi mangiare sicuro, ad occhi chiusi.

Se no, se ti piace per una volta mangiare quel che viene effettivamente cucinato, porta un filo di pazienza, e gustati quel che hai nel piatto, quando sarà il momento.


 Poi c’è la carne, buona si. Ma non ne sono appassionato. M’è piaciuta tanto dal ratatuia (per i puristi: ratatouille). Il gran finale, la bella sorpresa: i loro mirtilli affogati nell’acqua di sambuco, dal profumo inebriante.

Ripensandoci: tutto quel che abbiamo mangiato (e bevuto) veniva da quel lembo di terra, ed è stato preparato nella cucina in quel momento. E la cosa che più d’ogni altra mi sconforta, è che tutto questo è diventato inconsueto, particolare. Invece cucinare i propri prodotti e mangiarli, dovrebbe essere alla base di una sana alimentazione, di una sana economia, di una società sana.

Continuo a pensare che abbiamo perso l’ago della bussola, se è vero che proprio lì vicino a quell’agriturismo faremo passare il terzo valico, in modo da far arrivare (tra le altre cose) le patate dall’Olanda, i maiali dalla Romania, il grano dalla Russia, il vino dalla Polonia, il latte dalla Germania. E magari per lo stesso buco faremo passare la nostra immondizia verso altri paesi: prodotti che non vogliamo o non possiamo più consumare.

Per questo la Sereta è anche un bastione, un fortilizio di pace contro questo modo perverso di vedere il mondo, dove si può solo consumare, ingoiare, digerire e defecare. Senza misura, senza umanità, mantenendo solo il (pur degno) profitto come unico valore universale.

Viva gli agriturismo fedeli al loro nome!

 

Alessandro Marenco

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