Agricoltura in Liguria. Una questione del tempo che fu?

Agricoltura in Liguria.

Una questione del tempo che fu?

Agricoltura in Liguria.
Una questione del tempo che fu?

 E’ stato pubblicato: “L’agricoltura in Liguria. Rapporto sui dati provvisori del 6° Censimento generale dell’Agricoltura in Liguria”, edito dall’ISTAT, dalla Regione Liguria e da Liguria Ricerche (gruppo FILSE)….LEGGI

Si tratta di un volumetto rintracciabile gratuitamente anche online sotto forma di agevole documento .pdf. In realtà si tratta di una pubblicazione del 2011, e quindi non proprio freschissima, ma è riferita ai dati ufficiali dell’ultimo censimento dell’agricoltura, svoltosi nel 2010. Insomma, se si vuol comprendere qualcosa dell’agricoltura oggi nella nostra regione, credo che sia un documento fondamentale, piaccia o no.

Saltando i preamboli e i discorsi sul metodo si arriva presto ai numeri e alle statistiche, che sono quelle che più facilmente possono darci un quadro d’insieme della situazione.

Dato che sono appassionato di Storia e soprattutto di quella locale, quando trovo dati e numeri piuttosto chiari e di buona provenienza, li metto da parte, convinto che possano servire per fare dei confronti.

Mi sono concentrato solo sulla “mia” provincia, per comodità e per limitato orizzonte d’interesse mio. Ma penso che il confronto dei dati che presento sia significativo.

Come ho detto i numeri del censimento si riferiscono al 2010, quando il provincia di Savona risiedevano 281.000 persone. I vecchi dati che possiedo io sull’agricoltura in provincia sono stati elaborati dalla Cattedra Ambulante di Agricoltura di Savona nel 1928. Il censimento della popolazione più vicino a quella data è del 1931, e dava per la provincia una popolazione di 212.000 abitanti.

Nel 1928 la nostra provincia aveva una superficie agraria utile di 35.000 ettari. Nel 2000 erano diventati 16.800 ettari; nel 2010 10.700 ettari. Continuando di questo passo nel prossimo censimento ce ne saranno 4000 (2020) e non ce ne sarà più prima del 2030. Ma è una stima ottimistica perché la velocità di erosione del patrimonio fertile è in aumento.

Le coltivazioni erano le seguenti (riporto prima gli ettari coltivati nel 1928, poi quelli del 2010):

Cereali: 11.000 ettari; oggi 381 ettari.

Olive: 9000 ettari; oggi 2348 ettari.

Patate e fagioli: 5000 ettari; oggi 56 ettari.

Vigneto 5000 ettari; oggi 513 ettari.

Capi bovini 25.000; oggi in provincia ci sono 3646 capi bovini.


Ad una prima analisi molto sommaria e praticata da un incompetente integrale come il sottoscritto verrebbe da dire che l’agricoltura è praticamente morta, o comunque in coma irreversibile. E forse sarebbe meglio staccare pietosamente la spina. “Tengono” onorevolmente gli olivi, meglio di quanto potrebbero tenere le viti.

Al di là delle provocazioni, proviamo a ricordare che noi tutti, ma dico tutti tutti al mondo, viviamo  grazie al cibo che il comparto agricolo ci fornisce. Si tratta quindi di un settore quanto mai strategico. Lo sanno bene le multinazionali che operano scelte drastiche su territori per quanto riguarda il controllo dell’acqua o la proprietà genetica dei semi. Ma non divaghiamo.

Immagino che avere una propria produzione alimentare sia una questione di dignità, anche di prestigio, e che tutto sommato poter contare su una produzione locale dia un grado di autonomia maggiore da un mercato sempre più condizionato da scelte lontane e fondate unicamente sul profitto.


Dopo questo breve pistolotto morale la domanda dovrebbe essere: perché le cose in questo settore vanno tanto male? Bene, proviamo a dare qualche risposta:

1)    com’è fatta la Liguria lo sappiamo tutti. Non a caso le terre redditizie sono quelle della piana d’Albenga, o le serre del ponente. Per il resto terreni scoscesi sul mare, con poca acqua e uno strato fertile molto sottile. Nell’entroterra potrebbe andar meglio, ma le zone migliori le abbiamo occupate con gli stabilimenti chimici. Il resto sono boschi cedui, qualche prato, qualche campo.

2)    Il mercato agricolo vuole alte produzioni, alta qualità, basso prezzo. Questo vuol dire meccanizzazione spinta, concimazione e pesticidi commisurati alla rendita della coltura. Vuol dire anche sostegno economico all’agricoltura. In Liguria puoi meccanizzare molto poco. Le colture più redditizie (come gli olivi) non hanno spazio per far lavorare le macchine abbacchiatrici che altrove fanno scendere i frutti maturi. Così è per molte produzioni.

3)    Noi consumatori vogliamo mangiare carne tutti i giorni. Per mantenere i prezzi e i guadagni dobbiamo allora costruire grandissimi allevamenti e la terra intorno all’allevamento deve ospitare campi adatti per la coltivazione del foraggio (mais, ma anche soia, favette, fieno). In provincia di Savona non ci sono cascine di questo tipo, forse qualcuna in Val Bormida, ma parliamo di unità, non certo di decine. In ogni caso sarebbe ora di imparare un consumo migliore delle risorse, che non vuol certo dire carne fresca a un euro al chilo…

4)    La concorrenza è internazionale. I nostri prodotti si trovano fianco a fianco con produzioni estere a bassissimo costo. Anche per questo sono nati i “mercati della terra”, utile invenzione, ma ancora insufficiente, purtroppo, per sostenere i contadini.


E allora? Cosa ci resta da fare? Lancio la mia proposta, sicuramente passibile di discussione e miglioramenti. Certo è che dovrebbe essere un tema molto più popolare e diffuso, perché anche qui, ne va del nostro futuro (non cito la questione dei “nostri figli” perché son stufo di sentirlo dire).

Intanto ricordiamo che chi fa il contadino nel savonese non ha eguali: non assomiglia al contadino piemontese o lombardo o emiliano o ancor meno veneto. Ma neppure assomiglia a quello delle più vicine colline del Barolo o del Nebbiolo…

La nostra unità produttiva, in provincia di Savona, si chiama ancora cascina, come nelle Langhe. Ci sta una famiglia, c’è un fienile e una stalla, ci sono orti, campi, vigne e oliveti (questi ultimi verso la costiera marittima). Una unità produttiva che sfamava 10 persone nel 1920 oggi non sfama più nessuno: i consumi sono cambiati, non ci basterebbe più quel poco che la terra può dare. Per questo l’unica piccola possibilità è quella di derogare su molte leggi a favore di chi ancora si occupa di terra: vendita diretta di tutta la produzione, senza marchi e senza norme igieniche (il concetto è che il contadino vende l’eccesso di quel che produce per sé e per la sua famiglia, e se è buono per sé deve esserlo per tutti); ospitalità base, cioè una stanza e un pasto condiviso, con produzioni della cascina stessa. Insomma, tutto basato sulla faccia e non sulla certificazione o su qualche istituto di igiene. Questo non mette al riparo da truffe o da adulterazioni, sia chiaro. Ma intanto il contadino sarebbe comunque responsabile di quel che vende, delle azioni che fa. Sarebbe insomma un sistema inviso al commercio e alla ristorazione. Occorrerebbe trovare allora delle distinzioni forti tra quel che la cascina può offrire e vendere, che non si possa sovrapporre al servizio di un ristorante. E il modo di vendere i prodotti sarebbe inaccettabile dalla grande distribuzione (tracciabilità, filiera produttiva…). Ma non ci sono alternative. O sosteniamo l’agricoltura con potenti aiuti di stato, formando così degli imprenditori che coltivano i contributi e non la terra; o diamo la possibilità ai piccoli contadini di stare sul loro piccolo mercato, fatto di onorabilità, di responsabilità individuale, di faccia, di amicizia.

Diversamente la campagna, tra una decina d’anni, la vedremo solo nei musei antropologici, negli orticelli coltivati unicamente per passione. E i paesi più isolati moriranno lentamente.

ALESSANDRO MARENCO

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