ABITARE LA CONDIZIONE UMANA OGGI

La relazione al convegno di Certaldo del 31 maggio
ABITARE LA CONDIZIONE UMANA OGGI
(Considerazioni attuali sui concetti di limite, di misura e dismisura)

La relazione al convegno di Certaldo del 31 maggio

ABITARE LA CONDIZIONE UMANA OGGI

(Considerazioni attuali sui concetti di limite, di misura e dismisura)

Partiamo da alcune constatazioni fattuali o contestualizzazioni storiche:

la condizione umana attuale è diversa per molti aspetti da quella che precede le quattro rivoluzioni culturali che hanno caratterizzato il secolo scorso, le cui premesse si trovano in parte nell’Illuminismo e in parte nella critica che del medesimo  è stata fatta dai maestri della cosiddetta “scuola del sospetto” (cioè Marx, Nietzsche e Freud).  La prima rivoluzione riguarda l’affermarsi della teoria evoluzionistica di Darwin; la seconda è quella che concerne la critica del primato dell’”oggettività”  e la considerazione, comune a Marx, a Nietzsche e a Freud,  della falsità della coscienza (la verità come menzogna); la terza è quella relativa alle tesi critiche nei confronti dell’ etnocentrismo che si diffondono prima nell’ambito  disciplinare dell’antropologia culturale e poi nelle altre scienze umane; infine, la quarta riguarda l’evoluzione e il “progrsso” esponenziale e vertiginoso delle tecnologie elettroniche (e la diffusione planetaria dei mezzi di comunicazione di massa), informatiche e delle ricerche cibernetiche (intelligenza artificiale). Quest’ultima rivoluzione ha aperto la via alla “possibilità di  portare l’artificiale all’interno stesso dei più segreti meccanismi della vita e di realizzare pertanto macchine che possono essere percepite  alla stregua di ‘sistemi viventi’: robot, sistemi telefonici planetari, mondi di realtà virtuale, personaggi animati sintetici, incubatori di virus dei computer, modelli al computer di ecologie complesse come l’intera Terra, ed altro ancora” (Franca Pinto Minerva, Rosa Gallelli, Pedagogia e Post-umano. Ibridazioni identitarie e frontiere del possibile, Carocci, 2004).


 Se questo è il quadro, come si configura la condizione umana all’inizio di questo Terzo Millennio in cui la tecnica, da strumento che era, è divenuta un fine  in sé che tende al superamento di ogni limite e condizionamento? Come è possibile riconoscere la propria identità, o, se si preferisce, diventare quello che veramente siamo, in un contesto storico-culturale in cui “molto più chiaramente che in passato, la questione della verità è riconosciuta come una questione di interpretazione, di messa in opera di paradigmi che, a loro volta, non sono ‘obiettivi’ (giacché nessuno li verifica o falsifica, se non in base ad altri paradigmi…), ma sono una faccenda di condivisione sociale” (Gianni Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, 2009)? E in un mondo in cui “col tramonto dell’episteme lo scopo supremo dell’agire umano diventa la proiezione della capacità dell’agire umano di accrescere all’infinito la propria capacità di realizzare scopi e cioè di oltrepassare limiti. Lo scopo supremo (dell’agire che era il mezzo) diventa il dispiegamento infinito dell’agire” (E. Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, 1998)? Ma qual è il fine di questo “dispiegamento infinito dell’agire”? Per Bacone da Verulamio era il dominio dell’uomo sulla natura per mezzo del sapere tecnico-scientifico, ma oggi questa volontà di potenza è stata come trasferita, o delegata,  dall’uomo “al mondo delle sue macchine, rispetto alla cui potenza, per giunta iscritta nell’automatismo del loro potenziamento, l’uomo risulta decisamente inferiore, e per giunta inconsapevole della sua inferiorità. Per effetto di questa inconsapevolezza, chi aziona l’apparato tecnico  e chi vi è inserito più non si pongono la domanda se lo scopo  per cui l’apparato è messo in azione sia giustificabile  o abbia semplicemente un senso, perché questo significherebbe dubitare della tecnica , senza di cui nessun senso e nessuno scopo sarebbe raggiungibile. E allora la ‘responsabilità’ viene affidata al ‘responso’ tecnico, dove è sotteso che ‘si deve fare tutto ciò che si può fare’” ( U. Galimberti,  Psiche e techne, Feltrinelli, 1999). Ora, se ci poniamo la domanda se è giusto fare tutto quello che la volontà di potenza delegata alla tecnica consente di fare, non ha senso aspettarsi una risposta dalla tecnica stessa, la quale non può che tendere a una sperimentazione illimitata e a una continua trasformazione così della materia inorganica come di quella organica, a una manipolazione infinita della psiche e del soma degli esseri umani contemporanei, di questi “animali non ancora stabilizzati” (secondo la definizione nietzschiana dell’animale uomo).


Ma, se non al sapere tecnico-scientifico e non più a qualche autorità costituita laica o religiosa ch’essa sia, a chi chiederemo una sentenza su ciò che è bene e su ciò che è male per l’uomo? Scrive Nietzsche nelle prime pagine della Nascita della tragedia (1872): “L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale  fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile il demone tace; fiché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto’”. Questa apparentemente disperata sentenza del pedagogo di Dioniso rivela al re Mida e, per il suo tramite, a tutti noi,  la semplice e terribile verità che gli dei hanno abbandonato la terra, e quindi, per poter sopportare l’esistenza, l’uomo greco “dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dei olimpici”, in modo tale che l’esistenza stessa gli apparisse “nei suoi dei circonfusa da una gloria superiore” (La nascita della tragedia).


Ma questa sentenza, pur così tragica, non è, secondo Nietzsche, contro la vita; come annota Umberto Curi: “Riconoscere che meglio sarebbe non essere mai nati non vuol dire abbandonarsi a un generico e sterile pessimismo, ma implica al contrario ‘dire sì alla vita persino nei suoi problemi più oscuri e aspri’. Dunque , non per ‘affrancarsi dal terrore e dalla compassione…ma per essere  noi stessi, al di là del terrore e della compassione, l’eterno piacere del divenire – quel piacere che comprende in sé anche il piacere dell’annientamento” (Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati Boringhieri, 2008). La sentenza di Sileno, inoltre, implica un mutamento radicale di prospettiva: “Lo sguardo non è più dall’individuo verso l’apertura del suo senso, ma dalla natura che, senza senso e senza scopo, guarda agli individui come a sue creazioni. Questo rapido mutamento di prospettiva ci introduce nella sapienza di Dioniso, libera da ogni visione antropomorfica dell’esistenza, e afferma la vita come flusso che divora continuamente le sue forme, come potenza che ne foggia di sempre nuove, senza fedeltà e senza memoria. Infatti, come ci ricorda Giorgio Colli: ‘Dioniso è il dio della contraddizione…E’ vita e morte, gioia e dolore, estasi e speranza, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda, toro e agnello, gioco e violenza’ (La sapienza greca, Adelphi, 1977). Ma soprattutto Dioniso è un animale e un dio, manifestando così i punti terminali  delle opposizioni che l’uomo porta con sé, e lasciando sospettare tra questi estremi una sotterranea parentela. Per questo l’orgia dionisiaca non si esaurisce nello scatenamento animale delle pulsioni, ma ospita stati contemplativi, trasfigurazioni, e-stasi nel significato letterale della parola che rimanda a chi è fuori di sé, perché è sempre al di là di sé” (U. Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, 2005). 


 La sapienza dionisiaca spezza dunque quella che Nietzsche chiama “la catena dell’individuazione” e apre la via verso le Madri dell’essere, cioè verso l’intima essenza delle cose. La consapevolezza della condizione tragica dell’esistenza rivela l’illusorietà dell’individuazione, e tuttavia, pur messo di fronte alla vanità delle apparenze, il Greco non accetta l’invito di Sileno, non rifiuta di vivere perché considera l’insensata crudeltà – o, se si preferisce, l’indifferenza – della natura una componente essenziale della vita stessa:

“L’ottimismo dei Greci prende avvio dal punto più basso della parabola pessimistica: dalla dissoluzione di ogni forma individuale all’esaltazione della vita, che il Greco sa trasformare in figure eternizzanti, ove non vige l’angoscia del perire, il terrore della morte e della caduta di ogni senso. Nasce così “la montagna incantata dell’Olimpo” come illusione, come maschera che serve a sopportare l’esistenza, colta nella sua essenza dalla sapienza dionisiaca” (op. cit.). Gli dei olimpici svolgono dunque la funzione di impedire che la scoperta dell’essenza tragica della vita porti l’uomo al suicidio: gli dei fanno da specchio agli umani, ma, a differenza degli umani, sono inmmortali. “Che qualcosa possa permanere, e quindi sottrarsi al carattere effimero e caduco dell’esistenza è la prima illusione che i Greci dovettero inventare per poter vivere. Questa immedesimazione nel desiderio eterno di sé che il dio riflette sarà l’origine prima dell’arte poetica e scultorea dell’antica Grecia, ma anche il monito che gli uomini non sono dei e che, nella distanza che separa i mortali dagli immortali, l’uomo deve trovare la sua giusta misura” (op. cit.). Ma per trovare la giusta misura, e quindi il giusto modo di vivere, cioè di abitare la condizione umana, oggi come duemila anni fa,  è necessario anzitutto riconoscere e accettare i propri limiti, ed è proprio la difficoltà di riconoscere e di accettare i propri limiti che fa aumentare il bisogno di cure per  la psiche: “Troppi si concedono alle psicoterapie per questo o per quello , ma questo o quello, quando sono scavati, si rivelano quello che sono: figure di un desiderio infinito. Gli uomini sono spesso ammalati di desideri infiniti, ma siccome sono mortali, e il loro corpo ogni giorno racconta questo destino, si fanno curare per le ragioni più diverse, con l’unico scopo di non vedere quella verità che la memoria , inanellando la catena del passato, ricorda come sottofondo depresso di ogni  biografia” (op. cit.). E ogni biografia è inscritta in un destino di nascita, di desiderio e di volontà di potenza, di felicità e di conoscenza, ma anche di errori, di tristezza, di malattia, di dolore e di morte.

Senonché “accettare la morte è accettare l’implosione di ogni senso, e, come ci ricorda Nietzsche, l’uomo è l’unico tra gli animali aperto al senso: ‘Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa che cosa sia ieri, che cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e, così, dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato, cioè al piuolo dell’istante, e perciò né triste, né tediato. Il veder ciò fa male all’uomo, perché al confronto con l’animale egli si vanta della sua umanità, e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello; giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale, né tediato, né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale’ (Considerazioni inattuali II. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, 1964). Questa piccola differenza, questo modo della felicità, che distingue l’uomo dall’animale, è il luogo di ogni soffrire, che la filosofia conosce da tempo come luogo del tragico e la psicologia conosce come luogo della cura” (U. Galimberti, op. cit.).


A questo punto, però, le vie della filosofia e quelle della psicologia divergono e si allontanano irrimediabilmente una dall’altra. Il filosofo, infatti, si chiede: “Ma si può curare la condizione umana, ciò per cui l’uomo è uomo? Chi ci autorizza a separare la vita dal dolore, dalla sua fine che, come un incendio, prima di distruggere definitivamente, scaraventa le sue scintille su tutti i progetti, su tutte le idee, su tutti i desideri, traducendoli in progetti mancati, in idee monche, in desideri incompiuti? (op. cit.). Già, chi ci autorizza a separare la vita dal dolore? Se il luogo del tragico non è solo la scena, il teatro dove viene rappresentata la tragedia, “ma la condizione della vita in generale e dell’esistenza in particolare, dove – come ci ricorda Nietzsche nella Nascita della tragedia – la felicità non è separabile dalla crudeltà”, allora “la fine della tragedia non segna l’esaurirsi di una forma artistica, ma, drammaticamente, l’interruzione brusca della visione greca della vita, perché, con la morte e la resurrezione di Cristo quando a Roma regnava Tiberio, una vita eterna si annunciò al di là della vita terrena, e la teologia della salvezza dissolse la visione tragica dell’esistenza” (op. cit.). Ecco, nella prospettiva della salvezza e della vita eterna promessa e ottenuta grazie alla passione, alla morte e alla resurrezione di Cristo, il dolore perde la sua tragica ineluttabilità, e la virtù teologale della speranza “proietta il desiderio al di là della misura terrena. Questa proiezione qualifica la terra come ‘valle di lacrime’, ma in compenso rende il dolore sopportabile. Nell’attesa della liberazione dal dolore, il desiderio oltrepassa i confini della terra e la caducità del tempo, per ancorarsi all’eternità promessa” (op. cit.). E di fronte alla beatitidine eterna anche il limite della morte viene meno, e l’Apostolo Paolo può ben chiedere: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (1Cor 15, 55).

   FULVIO SGUERSO

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