Nuovo soggetto politico della sinistra italiana

MUTAMENTI SOCIALI E TRANSIZIONE POLITICA
NUOVO SOGGETTO DELLA SINISTRA ITALIANA

MUTAMENTI SOCIALI E TRANSIZIONE POLITICA
NUOVO SOGGETTO DELLA SINISTRA ITALIANA
  

L’esigenza di costruire un nuovo soggetto politico della sinistra italiana, dopo lo scioglimento del PCI avvenuta vent’anni fa, è rimasta inalterata, nonostante il tentativo di Rifondazione Comunista, le sue numerose spaccature/ricomposizioni, il tentativo dell’Arcobaleno e l’attualità di due formazioni politiche quali SeL e la Federazione della Sinistra.

Nel frattempo è uscita di scena, sul piano politico, anche la soggettività di tradizione socialista, in modo molto diversa da quella di derivazione comunista.

L’idea di una nuova soggettività politica della sinistra deve quindi contemplare anche una riaggregazione tra queste due tradizioni ideali e politiche, pur prendendo atto della contraddizioni di una storia lunga e complessa, fatta prevalentemente di “spirito di scissione”.

Per cercare di verificare questa opportunità di ricomposizione e di nuova soggettività (resa urgente dal precipitare di una crisi economica internazionale di vastissime dimensione e dalla presenza, in Italia, di un pericoloso governo populista di estrema destra, animato anche da pulsioni razziste, e da una preoccupante controffensiva padronale tesa a spezzare il filo dei residui diritti dei lavoratori), è necessario però tornare alla fase della destrutturazione del sistema dei partiti, all’inizio degli anni ’90 del XX secolo e alla chiusura della fase di predominio democristiano (questo nostro lavoro avrà sicuramente il difetto di essere eccessivamente incentrato sul “caso italiano”, ma si tratta di una scelta dovuta a mere esigenze di economia e possibile produttività del discorso).

Il ruolo dominante della DC era derivato, più che da una propria intrinseca forza, dalle condizioni nazionali e internazionali, in cui si era trovata l’Italia nel dopoguerra, ed in particolare dalla divisione del mondo in blocchi e dalla presenza nel nostro paese del più grande partito comunista d’Occidente, inutilizzabile però per una alternativa di governo.

Fino a quando queste condizioni nazionali ed internazionali esercitarono la loro influenza la DC, grazie a una azione politica estremamente duttile e articolata, che ebbe la sua massima espressione in Aldo Moro, riuscì ad esercitare la sua egemonia su di un ampio arco di forze politiche.

Fu solo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 che quelle condizioni svanirono o si modificarono.

Venne meno, innanzi tutto, la necessità di una politica interclassista, come strumento di attenuazione delle tensioni e degli scontri di classe, a causa dello sviluppo dei ceti medi, che erodevano e inducevano trasformazioni nelle vecchie classi.

Si stavano formando due grossi blocchi, dal differente comportamento sociale e politico, che si esprimevano con due voci molto diverse.

La prima, caratteristica soprattutto dei piccoli imprenditori e dei commercianti, era localistica, consumistica, fortemente orientata all’interesse personale e a una totalizzante etica del lavoro.

L’altra, prevalente tra coloro che lavoravano nella scuola e nei servizi sociali, tra le frange critiche delle libere professioni e i lavoratori salariati ( tutti settori in cui si faceva sentire in maniera particolarmente incisiva la nuova presenza femminile), parlava una lingua diversa, non puritana ma critica, che non rifiutava il nuovo consumismo individualistico ma cercava di collocarlo in un contesto sociale.

La crisi della DC, al Nord si verificò quando la prima voce non chiese più ascolto attraverso il Partito.

I piccoli imprenditori e i commercianti abbandonarono la DC al Nord- Est e in altre regioni dell’Italia settentrionale e si volsero alle leghe, facendo emergere tendenze autonomiste, federaliste o addirittura separatiste.

Per questa ragione venne meno anche la funzione mediatrice della DC tra Nord e Sud.

In ogni caso, però, essa non avrebbe potuto continuare a svolgersi con la stessa intensità di prima, perché l’azione dei magistrati stava scardinando il sistema clientelare e le difficoltà finanziarie dello Stato italiano avevano prosciugato il flusso di risorse che erano servite ad alimentarlo.

Negli anni ’90 la conversione all’idea dell’unità europea di gran parte della sinistra e la crisi della concezione dell’Europa cattolica e cristiana come baluardo contro il comunismo tolsero alla DC, anche il ruolo di mediazione che aveva svolto tra l’identità nazionale e la formazione di una coscienza europea.

Come aveva detto molti anni prima Gramsci a proposito delle società arrivate a un alto grado di sviluppo economico, l’egemonia nasceva ora dalla fabbrica, cioè dall’economia stessa.

Era il mondo delle aziende a creare direttamente bisogni, aspirazioni ideologie.

Alla fine del XX secolo l’esercizio del potere si era venuto configurando ormai in maniera molto diversa dal passato.

Ma le ideologie restavano indietro rispetto ai cambiamenti sociali ed economici e le forze di sinistra stentavano a rendersi conto delle trasformazioni in atto.

Negli anni ’60-’70 i ceti medi, attratti dal consumismo e della possibilità di avanzamento individuale, erano diventati degli stabili fautori di un moderato e democratico status quo.

E’ possibile pensare che negli anni ’80 questo consenso, insediatosi dapprima tra i ceti medi si sia generalizzato alla società intera.

In altre parole, i valori tradizionali della famiglia si sono sposati a quelli della democrazia parlamentare e del consumismo capitalistico.

Questi valori, con poche eccezioni, sono divenuti dominanti in ogni settore della società.

Il giudizio sul consumismo, che significava comunque il raggiungimento di un elevato livello di benessere per una larga parte della società italiana e non più soltanto per gruppi ristretti, rappresentava un elemento importante nella costruzione di un giudizio complessivo sulla storia d’Italia.

Sarebbe riduttivo pensare al fallimento della politica come all’esito di una contrapposizione diretta tra una “società e un’economia prospere e virtuose” e uno “Stato sordo e corrotto”.

Il fallimento deve, invece, essere attribuito al ceto politico.

Un giudizio che può anche essere allargato: infatti negli anni’90 non fecero bancarotta soltanto i partiti, quanto apparve evidente l’insufficienza della politica, se entrata in contrasto o in conflitto con le tendenze dell’economia.

La fine degli anni ’90 non fu drammatica per una momentanea inadeguatezza della politica, ma perché mostrò che essa era strutturalmente inadeguata ad indirizzare lo sviluppo dell’economia lungo una strada rigorosamente prefissata.

L’economia ebbe il sopravvento proprio in conclusione di un periodo in cui il primato della politica, ed in particolare dei partiti, era apparso indiscusso.

Il ceto politico aveva creduto (forze di governo e forze di opposizione: convinte le prime che la volontà politica riformatrice fosse in grado di risolvere tutte le questioni aperte; sicure le seconde che esse potessero essere risolte da una lotta politica tenace ed anche aspra) di poter andare avanti ignorando la trasformazione delle basi economiche.

La politica era vista, da questo ceto, come fonte di discrezionalità ( e quindi come espressione di una sorta di onnipotenza plasmatrice), una discrezionalità da riproporre nei termini della dominanza e dello scambio (consenso contro risorse).

La discrezionalità si risolse nella settorializzazione, con una sorta di deformalizzazione dello Stato, nella diffusione e dispersione dei centri decisionali: si aprì,a questo modo, con il crollo della prevalenza dei partiti sul sistema economico e sociale la transizione italiana, di cui ci stiamo occupando.

E’ il caso svolte queste considerazioni di carattere generale, di esaminare più specificatamente un aspetto delle dinamiche politiche interessanti, al tempo, il processo di liquidazione/trasformazione del PCI.

Il sistema, infatti, già in precedenza alla liquidazione della Dc aveva perso l’altro punto di fondamentale equilibrio con lo scioglimento del PCI e la scissione tra PDS e Rifondazione Comunista.

Nell’impossibilità (visto il particolare “terzaforzismo” esercitato dal PSI, in quella fase politica: PSI che poi sarebbe stato anch’esso spazzato via dalla “questione morale”) di tentare un approccio rivolto alla sinistra socialdemocratica europea, il gruppo dirigente del nuovo partito (PDS) dimostrò tutta la sua insufficienza nella lettura della fase storica e dei mutamenti sociali in atto: in particolare fu assunta come riferimento la tradizione liberal degli Stati Uniti che si pensava potesse trovare eco in una vasta ma molto eterogenea area di opinione pubblica che si definiva di sinistra senza essere però legata a nessun partito (ricordate la famosa “sinistra sommersa”?).

La formazione di questa presunta “sinistra sommersa” era il risultato della crisi delle ideologie tradizionali, il cui posto era stato preso però da una nuova ideologia, dai caratteri molto più incerti ( e quindi, teoricamente, in grado di adattarsi meglio al variare rapido delle situazioni sociali e politiche), ma comunque centrata sulle celebrazioni delle “esigenze individuali”.

C’era in tutto questo una sorta di capovolgimento: quanto più si era creduto nei passati decenni nei valori della morale cattolica o di quella rivoluzionaria, nella preminenza degli interessi collettivi su quelli individuali, tanto più si era portati ora all’esaltazione dell’etica dell’individuo, con la piena affermazione non solo di ogni diritto, ma anche di ogni passione, sentimento, e persino istinto.

Non era facile, a quel punto, conciliare la preminenza data all’individuo con il costante richiamo alla solidarietà, che doveva esprimersi nella difesa dei gruppi sociali più deboli.

Ma soprattutto non era facile passare dal piano dei principi a quello dell’azione concreta.

Era spesso ignorata la connessione tra il riconoscimento dei diritti e i mezzi occorrenti per soddisfarli.

Si ripeteva il fenomeno contro il quale aveva già messo in guardia Calamandrei, quando si era discusso dei diritti sociali da inserire nella Costituzione.

L’affermazione delle necessità di rispondere a una serie di richieste provenienti dagli strati sociali che non erano partecipi del benessere trovava opposizioni molto deboli, ma restava frequentemente sulla carta, per la mancanze delle risorse finanziarie indispensabili per dare risposte concrete.

Tra società ideale e società reale si verificava così una sorta di scollamento,che di solito veniva attribuita alla cattiva volontà dei governanti, ma in realtà nasceva anche, e in misura non irrilevante, dall’immaginare una “società dei diritti” che non aveva sufficiente base materiale.

E si diffondeva, di conseguenza, l’ipocrisia sociale, con un forte scarto tra i comportamenti ispirati dagli interessi individuali e le professioni di fede ideologica e politica.

Intanto, cambiavano i modi con cui i partiti, i movimenti, e anche i singoli uomini politici si rivolgevano all’opinione pubblica, per ottenerne il consenso.

In passato il prestigio acquistato all’interno dei partiti era stato il fondamento del successo politico personale.

Con gli anni ’80, ma il processo aveva avuto inizio già da tempo esso fu ottenuto, soprattutto, attraverso la televisione.

Ciò portò a una forte spettacolarizzazione della politica.

Non era necessario il prestigio, ma bastava la notorietà, comunque conseguita.

Le immagini prevalsero sugli scritti ed anche sulla parola, la televisione fu più seguita della stampa.

Ma anche la spettacolarizzazione, una volta generalizzatasi,apparve insufficiente e, per risultare veramente efficace, dovette essere portata ai limiti estremi.

A quel punto, implosi i principali soggetti politici per varie cause (caduta del muro di Berlino, Tangentopoli, ecc..) modificato, per la via “antipolitica” del referendum, il sistema elettorale orientandolo appunto nel senso dell’esaltazione del personalismo e della governabilità quale fine esaustivo dell’agire politico, entrò in campo il soggetto agente della decisiva trasformazione del sistema: il partito personale.

Il “partito personale” può essere catalogato come frutto di un processo di evoluzione del “partito pigliatutti”, individuato da Kirchheimer fin dagli anni ’60 quale variante di natura prettamente elettoralistica della categoria dei partiti ad “integrazione di massa”: si tratta di una categoria che, all’interno di un sistema politico particolarmente complesso come quello italiano, assume un significato particolare perché si tratta di un modello introdotto direttamente dall’attuale Presidente del Consiglio (in connubio con l’altro modello del “partito-azienda”) per esaltare in maniera esasperata la personalizzazione della politica intesa come funzionale all’uso dei mezzo di comunicazione di massa (in particolare della televisione) in luogo dei meccanismi tradizionali di partecipazione, con gli effetti sul linguaggio, la qualità dell’agire politico, il rapporto tra politica e società, l’uso delle istituzioni che abbiamo tutti davanti agli occhi ( altri modelli di “partito personale”all’epoca furono, con diversa fortuna, la Lega Nord che è rimasta ancorata comunque a quello schema e il Patto Segni, invece rapidamente esauritosi).

L’utilizzo di Internet come mezzo di velocizzazione del messaggio ha poi completato il quadro di una radicale trasformazione del soggetto collettivo e dell’agire individuale in politica (come in tanti altri campi, compresa l’economia).

La premessa, quindi, è quella che il modello del “partito personale” è un modello che non appartiene alla tradizione della sinistra.

E’ necessario, quindi, interrogarsi perché, proprio in questa fase,il modello del partito “personale” è assunto come punto di riferimento per la costruzione di una “nuova sinistra” in grado, nuovamente, di affermarsi nel panorama politico italiano.

Sono tre i movimenti che si muovano nella direzione appena accennata: l’Italia dei Valori, il movimento a 5 stelle, Sinistra Ecologia Libertà.

In realtà il punto che accomuna i tre movimenti ( o partiti, visto che si sono già presentati e si presenteranno alle elezioni e la partecipazione elettorale è quella che segna la diversità proprio tra movimenti e partiti) è quello di trascurare la categoria delle contraddizioni sociali e di assestarsi, legittimando così il tipo di strutturazione leaderistica cui si affidano, su “issues” completamente diverse, collocate al di fuori o al di là delle definizioni correnti del contesto sociale.

Vengono, infatti, declinate categorie inusuali che suscitano forti interrogativi.

IdV si colloca, come sappiamo sulla frontiera della “legalità” portata come valore intrinseco (trascurando, dal centro, ciò che il partito fa sul piano periferico: ma anche questa è una caratteristica legata all’impostazione personalistica) e collegandosi, per quel che riguarda l’iniziativa relativa alla sfera economico-sociale, ad una impostazione prettamente populistica – corporativa; il Movimento a 5 Stelle tenta di rovesciare il rapporto politcs/policy, rifiutando una elaborazione politica complessiva sia pure di settore ma partendo dalla singola questione per costruire un movimento, la cui traduzione istituzionale poi diventa alquanto problematica e lasciando libero il campo alle improvvisazioni del “leader”; Sinistra e Libertà, quella più legata alla tradizione della sinistra italiana e le cui componenti derivano direttamente da quella storia (anche la più recente) affida al carisma del proprio numero uno il tentativo di bypassare lo schema del rapporto politico legato ai corpi intermedi, per rapportarsi direttamente ad un popolo indistinto (da qui il tema, ossessivamente ripetuto, delle “primarie”: tema declinato, fra l’altro, all’”italiana”, in un contesto di totale approssimazione dal punto di vista dei riferimenti storici) mutuando modelli dell’avversario (il “partito dell’amore” versus “i comizi dell’amore”) e richiamando categorie pre-politiche come la cura, il coraggio, la speranza, l’impegno e la libertà (tema , quest’ultimo,da maneggiare con grande cura. In questo momento ci sono due partiti della destra italiana che si richiamano indistintamente alla “libertà”. E se si ha a cuore la qualità del messaggio è bene starci attenti).

Restano fuori, come ci è capitato di affermare all’inizio le contraddizioni sociali che pure riteniamo restino ben presenti nella realtà di oggi.

Stein Rokkan, nel suo libro tradotto in italiano nel 1982, ne individuava quattro, sorte al momento della formazione dello Stato-Nazione e della rivoluzione industriale: centro/periferia, Stato/Chiesa, città/campagna, capitale/lavoro.

Davvero questi “cleaveges” non dicono più nulla, non agiscono più nella realtà del 2011, non ci si può ricostruire sopra una soggettività politica che lotti, appunto, sulla base delle contraddizioni sociali, individuando i punti di approdo e di passaggio in forma collettiva, riproponendosi il compito di produrre cultura , rappresentanza, organizzazione politica radicata sul territorio ?

Abbiamo così ripercorso un tratto importante di storia della trasformazione della società italiana, del suo sistema politico, della fase di transizione che ancora stiamo attraversando, in una fase di assoluta “emergenza democratica” che una opposizione del tutto insufficiente non riesce a contrastare.

Il PD, infatti, è ancora figlio di quella trasformazione dal collettivo all’individuale che abbiamo già cercato di analizzare e si è mosso su di un terreno di “bipolarismo squilibrato” , laddove all’interno del sistema sono assenti punti di equilibrio tali da consentire una strategia di “movimento” sul piano dei rapporti politici, delle alleanze, delle stesse prospettive di governo.

Rimane, quindi, del tutto di attualità la ricostruzione di un soggetto nuovo della sinistra italiana, partendo dal rovesciamento, sul piano teorico, dell’impostazione fin qui analizzata e fondata sull’assunzione dell’individualismo quale categoria fondativa dell’agire sociale e politico: occorre ritornare all’idea del collettivo, al soddisfacimento dei bisogni sociali non soltanto in funzione di “diritti” individuali, ma di uno spostamento di rapporti di forza dal punto di vista sociale, strappando all’avversario, via, via, pezzi di potere (ricordate le “casematte” gramsciane?) in una società in cui va sviluppata una articolata strategia di trasformazione verso l’eguaglianza.

La sinistra italiana ne suoi vari soggetti non ha compiuto una analisi di fondo di questi mutamenti sociali, così come non ha ancora affrontato le ragioni delle sue divisioni storiche,che oggi non hanno più funzione sul piano dell’identità politica: una identità politica tutta da costruire con l’obiettivo di realizzare una “nuova egemonia” nel quadro di una alternativa di società e di sistema.

Savona, Febbraio 2011                                 Franco Astengo

 

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