VIAGGIO DELLA MEMORIA A RAVENSBRUCK

VIAGGIO DELLA MEMORIA
A RAVENSBRUCK

VIAGGIO DELLA MEMORIA A RAVENSBRUCK

Dalla notte di venerdì 5 ottobre a quella del ritorno  tra  lunedì 8 e martedì 9 ottobre 2012  si è svolto il viaggio organizzato dall’ANED di Savona e di La Spezia per commemorare le “Donne di Ravensbruck”, le prigioniere politiche sfruttate dalle SS come forza-lavoro a costo zero per la produzione di materiale bellico, ma anche per gli atroci esperimenti cosiddetti medici  per “testare” nuovi farmaci su cavie umane, saggiare la resistenza al dolore, tentare azzardati innesti e trapianti di cellule e di tessuti, sterilizzare le appartenenti alle razze “inferiori” e, in definitiva, per distruggere anche moralmente oltre che fisicamente le nemiche del Terzo Reich.

Il campo di concentramento di Ravensbruck fu costruito nel 1939, dopo l’invasione della Polonia, su un terreno paludoso a circa 95 km a nord di Berlino, vicino al lago Furstenberg; era formato da un campo principale e da una quarantina di sottocampi. Nel campo principale erano internate solo donne. Si calcola che dal momento della costruzione fino all’arrivo dell’Armata Rossa nella primavera del 1945, vi morirono non meno di 50 mila deportate. Le ragioni di un così elevato tasso di mortalità sono molteplici: avitaminosi, fatica eccessiva, tifo, dissenteria, mancanza di medicinali, sevizie d’ogni genere. Il cibo era insufficiente, la fame spingeva le prigioniere a cibarsi delle bucce di patata e dei torsi di cavolo che trovavano per terra nei pressi della cucina del campo. La dieta quotidiana era una tazza di surrogato di caffè al mattino, una brodaglia con qualche pezzo di patata o di cavolo a mezzogiorno e una brodaglia uguale con un tozzo di pane alla sera. Con una dieta siffatta le internate dovevano resistere a lavorare dalle dieci alle undici ore al giorno. La sveglia era alle 5.30, e alle 7 cominciava la tortura dell’appello: le internate, radunate sulla piazzuola dell’appello,  dovevano stare sull’attenti per circa due ore, piovesse o nevicasse o si cuocesse al sole. Poi si formavano le colonne “cinque per cinque” e si partiva per il lavoro; se qualcuna si fermava per riprendere fiato o cadeva stremata dalla fatica veniva colpita dalle sorveglianti o azzannata dai cani.  Questa distruzione e riduzione a cose (o a bestie da soma) delle persone, tuttavia – malgrado  le tecniche e i metodi “scientifici” messi in opera con zelo burocratico dai funzionari e dai fedeli esecutori degli  ordini  di Himmler e degli altri gerarchi nazisti, pianificatori dello sfruttamento all’osso prima e poi dell’eliminazione del sovrabbondante “materiale umano” rappresentato dagli internati nei Lager –  non potè compiersi fino in fondo. Per quanto efficiente fosse il “sistema” concentrazionario, e per quanto impegno le SS profondessero nell’umiliare e nel disumanizzare, in questo caso specifico,  le lavoratrici coatte di Ravensbruck, non riuscirono a piegare e a intaccare la forte fibra morale di alcune “politiche” determinate a resistere con tutto il loro essere alla fame, al freddo, al dolore e all’annientamento della dignità umana a cui mirava l’apparato criminale nazista, quasi a dimostrare che è possibile resistere anche a un potere e a un male che sembra onnipotente: non tutte le internate in quell’inferno, infatti,  sono “passate per il camino”; alcune sono tornate e hanno potuto raccontare…”Lo scopo del campo, all’inizio, era quello di rieducare le antinaziste.

Nei block, baracche di legno destinate ad abitazione per le prigioniere, i letti, le lenzuola, gli asciugamani erano tutti piegati uguali. Al risveglio del mattino tutte le deportate erano costrette a squadrare al millimetro i letti, senza ombra di piega, il pettine andava lavato tutti i giorni dopo l’uso e rimesso al suo identico posto nella stessa posizione; e sulle cose non si dovevano lasciare impronte. Se solo una di queste regole non veniva rispettata, venivano presi dei seri provvedimenti. Le punizioni andavano dagli schiaffi ai venticinque colpi di bastone sulla schiena.

I lavori che venivano svolti erano spesso inutili e stupidi. Si lavorava anche alla Siemens per imparare a saldare…” (Testimonianza di Lidia Beccaria Rolfi, di Mondovì). “Venne il primo di gennaio. Era nevicato la sera prima e la neve si era subito ghiacciata. Ci chiamano all’appello e ad un certo momento sento che chiamano il mio numero. Essere chiamati dal comandante del campo era una cosa terribile, ci si poteva aspettare solo male. Lì per lì quasi non capii, poi il capobaracca mi dice: guarda che ti chiamano. Mi avvicinai verso il centro del campo dove c’era il comandante. Ricordo quel momento, nel campo si era venuto a creare un silenzio assoluto, perché ognuna di noi sapeva che essere chiamata significava botte, quando non addirittura camera a gas. Potevi essere accusata di sabotaggio, il che comportava la morte. Nel tragitto non sapevo che cosa pensare, spaventatissima mi chiedevo che cosa mai avessi potuto fare di male, con chi avessi parlato. Non riuscivo a capire. Mia sorella era in infermeria, non stava bene, perciò pensavo anche a lei. Quando sono davanti al comandante, questo mi guarda e mi dice: ‘Tua mamma è morta e stai zitta perché tua sorella è grave in infermeria’. Non capii subito quello che mi disse, me lo disse in tedesco, me lo ripetè in una forma più lenta, e allora capii. Fui annientata, però capivo che dovevo stare zitta, perché mia sorella era grave in infermeria. Poi cominciai a piangere, mi presero e mi riportarono a lavorare, perché evidentemente la morte della madre non era fonte di festa per il lavoratore” (Testimonianza di Bianca Paganini Mori, di La Spezia). Il testo completo di queste testimonianze, insieme ad altre, si trova   nel volume Le donne di Ravensbruck, Einaudi, 2003. Ho citato l’episodio raccontato da Bianca Paganini Mori  perché è stato ricordato anche dalla professoressa Doriana Ferrato, dell’Aned di La Spezia, che ha tenuto una breve orazione commemorativa nella fredda e piovosa mattina di sabato 6 ottobre, vicino al crematorio del campo, dopo che la delegazione composta da Rosanna Cervone e Simone Falco dell’Aned savonese e, in rappresentanza del Comune  di Savona, dal consigliere Gianni Maida, ha deposto una corona alla memoria delle italiane che non sono più tornate.  La mattina di domenica 7 ottobre è stata dedicata al “percorso storico del muro di Berlino”, con sosta obbligata al posto di blocco  Checkpoint Charlie (ricostruito ad uso dei turisti) dove avvennero numerose fughe dalla DDR verso Berlino Ovest, e nelle cui vicinanze fu lasciato morire dissanguato, il 17 agosto 1962, il diciottenne Peter Fechter, che tentava la fuga da Berlino Est; poco distante dal vecchio posto di blocco americano sorge il museo in cui è possibile visitare la Topografia del Terrore, per mezzo di una ricca documentazione fotografica  e audiovisiva sulla seconda guerra mondiale. Un’altra importante meta del viaggio è stata la visita al “Centro di documentazione internazionale per la ricerca sul nazionalsocialismo e sulle sue successive manifestazioni”, presso la villa sul lago di Wannsee dove, il 20 gennaio 1942,  si tenne la famosa “conferenza” in cui si decise l’attuazione della Endlosung der Judenfrage (Soluzione finale della questione ebraica). Su ordine del Reichmarschall Hermann Goring, che eseguiva volontà del Fuhrer, si riunirono in quella magnifica villa sul lago quindici gerarchi nazisti, tra i quali l’Obergruppenfuhrer Reinhard Heydrich, che comunicò di aver ricevuto da Goring l’incarico di organizzare e avviare la soluzione finale della questione ebraica in Europa. In un fine settimana davvero intenso il viaggio della memoria  verso Ravensbruck è stato anche un viaggio verso le ragioni profonde e il senso autentico del nostro vivere qui e ora, in un mondo dove non bisogna   mai dimenticare le tragedie del passato se non vogliamo  che si ripetano nel presente e nel futuro.

 

FULVIO SGUERSO

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