Scuola Diaz

DON’T CLEAN UP THIS BLOOD
Intorno al film “Diaz” di Daniele Vicari.

DON’T CLEAN UP THIS BLOOD
Intorno al film “Diaz” di Daniele Vicari.

Anche a Savona, la mia città, come a Milano, a Roma, a Genova e in chissà quante altre città d’Italia, c’è una piazza intitolata ad Armando Diaz, il generale che, tra il 24 ottobre e il 4 novembre del 1918, condusse l’esercito italiano alla vittoria contro l’Austria.

 Ma, da quella terribile notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, a G8 ormai concluso, in cui una squadra di più di trecento poliziotti fece irruzione nella scuola Diaz nel quartiere di Albaro a Genova,  per vendicarsi e sfogare, a colpi di tonfa (uno speciale manganello con impugnatura laterale) la rabbia repressa

nelle due precedenti torride giornate di guerriglia urbana sui ragazzi e le ragazze inermi che, incautamente, avevano deciso di fermarsi a Genova e di ripartire l’indomani per le loro case, quel nome rimarrà associato, oltre che al firmatario del Bollettino della Vittoria, anche alla sospensione e negazione dei diritti umani che si verificò in quella notte a Genova e, nei giorni successivi, nella caserma di Bolzaneto.

Questi episodi di orribile violenza in tempo di relativa pace – Carlo Giuliani era stato ucciso il giorno prima – segnano con macchie di sangue rappreso e con ferite ancora aperte l’inizio del nuovo secolo e del nuovo millennio.

Il film di Daniele Vicari Diaz. Non pulire questo sangue (“Don’t clean this blood” è la frase scritta da una giovane no-global inglese su un grande foglio di carta affisso a una finestra della scuola devastata dal blitz punitivo di quel reparto speciale e fuori controllo della “polizia di Stato”) ha senz’altro il merito di rievocare quei tragici avvenimenti attenendosi strettamente alle testimonianze e agli atti giudiziari, anzi, risparmiandoci scene ancora più crude (se è possible!) del denudamento e dell’umiliazione corporale e morale della ragazza tedesca illegalmente detenuta, come gli altri giovani arrestati, a Bolzaneto. Arresti motivati con falsi pretesti e falsi ritrovamenti di coltelli e bottiglie molotov nella scuola Diaz. Purtroppo non si tratta di invenzioni, e la domanda che ogni spettatore è obbligato a porsi, a proiezione finita, è: come è possibile che questi fatti siano accaduti  in un Paese civile del democratico e ipersviluppato Occidente?

 E anche, magari: può definirsi civile e democratico un Paese in cui simili fatti possono accadere? Vicari, come ha dichiarato in una intervista, si limita a esporre i fatti accaduti,  a rappresentarli sullo schermo nella loro nuda e cruda fenomenicità, senza interpretarli e senza “ideologismi”, lasciando che fossero le immagini stesse a parlare, quasi con il linguaggio delle cose mute ma evidenti, che non hanno bisogno di didascalie più o meno tendenziose, lasciando  allo spettatore le deduzioni e le interpretazioni del caso. Non sarà senza significato se nel film manca qualsiasi riferimento al contesto e alle  responsabilità politiche  e istituzionali (neppure un accenno alla presenza di Giafranco Fini, all’epoca vicepremier,  nella sala operativa della Questura di Genova). Dunque, come è potuto accadere proprio in Italia quello che ha raccontato  il vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, Michelangelo Fournier ai magistrati inquirenti il 12 giugno 2007?

“Arrivato  al primo piano dell’istituto ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana. Sono rimasto terrorizzato e basito quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue.

Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a questo punto che gridai ‘basta, basta’ e cacciai via i poliziotti che picchiavano. Intorno alla ragazza per terra c’erano dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale.

 Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze”. L’espressione “macelleria messicana” non è inedita nella storia del nostro Paese: la usò Ferruccio Parri nel 1945 per esprimere tutto il suo disgusto per l’oscena esposizione e l’oltraggio ai cadaveri di Mussolini, della Petacci, di Bombacci, di Pavolini, di Starace e di altri gerarchi della RSI a Piazzale Loreto, nello stesso luogo dove, otto mesi prima, erano stati trucidati e poi oltraggiati  quindici partigiani. Anche per questo, la stessa espressione ripresa nel 2007 rende un suono macabro e assomiglia a un rintocco funebre, come se la storia si fosse ripetuta  (o avesse voluto  ripetersi) in formato ridotto e a ruoli invertiti. Non è certo un mistero che in taluni ambienti

dell’esercito, dell’Arma dei Carabinieri, della Polizia di Stato e dei Servizi segreti la fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione nata dalla Resistenza non sia sentita come un dovere indefettibile, e che il nuovo clima politico “moderato” e “qualunquistico” che aveva propiziato un’altra volta la vittoria elettorale di Berlusconi e della destra ha ridato spazio e vigore al “revisionismo” e alle tendenze più estremiste e  “revanchiste” del neofascismo più o meno occulto presente anche in quelle frange del mondo giovanile in cerca di capi carismatici e affascinate dal culto della violenza.

Così la violenza devastatrice dei Black Bloch ha come fatto da detonatore e ha fornito il pretesto perché si scatenasse la violenza di chi, tra le forze dell’ordine, si è sentito autorizzato a dare una dura lezione alle “zecche comuniste”, senza distinguere tra violenti e non violenti, anarchici e pacifisti,  artisti di strada e missionari comboniani,  giornalisti e politici, giovani e anziani, ragazzini imberbi e fanciulle in fiore, e innocui padri di famiglia e madri prima allegre e poi terrorizzate…”Quando si ripensa a Genova 2001 le prime cose che vengono in mente sono l’incredulità, la vergogna, l’indignazione di vedere dopo tanti anni un vero fascismo in azione, sotto il marchio dello Stato democratico. Ricordo la mattina del venerdì passata sulla terrazza dell’hotel President, la più alta di Genova, a osservare l’assurda strategia della polizia. I Black Bloch attaccano oltre il ponte della ferrovia, ma le forze dell’ordine li ignorano e preferiscono scagliarsi con cariche e lacrimogeni contro il corteo autorizzato di via Tolemaide. Nell’inchiesta diranno che si erano sbagliati perché non conoscevano la città: un alibi da impuniti…” (Curzio Maltese, La Repubblica del 12/07/11). Ora va anche detto che non tutte le forze dell’ordine si sono comportate così (e ne fa fede la testimonianza su riportata del vicequestore aggiunto Fournier), ma non si può negare che in quelle torride giornate del G8 a Genova si sia verificata “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo le fine della II guerra mondiale”, come ha denunciato Amnesty International. Sospensione rimasta impunita, anche per responsabilità di una classe politica nazionale in gran parte corrotta o compromessa o ricattabile e piena di scheletri in armadi che è meglio non aprire… 

 Fulvio Sguerso

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